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Trecento anni di Lumi per mettere il caso al posto del destino

di Marcello Veneziani - 16/09/2010

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Il primo clamoroso incontro con la fortuna lo ebbi da bambino alla festa patronale del mio paese. Con le giostre, arrivava puntuale il topolino della fortuna. Era una specie di roulette primitiva, dove il topo svolgeva la funzione della pallina. Il topo era nascosto in un secchio al centro dell’arena, come una dea bendata; col tempo fu sostituito dal suo parente più gentile, il criceto, detto allora topolino d’India. Intorno al topo c’era quel che potremmo definire la plaza de topos, uno spazio circolare delimitato da tante caselle numerate con altrettante porticine. La gente puntava accaparrandosi ciascuno la sua casella; poi, tirando la corda, veniva sollevato il secchio ed usciva il topo spaurito. Tutti facevano un baccano infernale, battendo sulle tavole di stagno circostanti, istigati dal croupier. Il topo, terrorizzato e spaesato, si guardava rapidamente intorno e andava a infilarsi in una porticina. Chi aveva scommesso sulla casella corrispondente al topos prescelto vinceva la posta in palio.

Quella fu, per così dire, la mia prima figurazione toponomastica della fortuna. Il topo era portatore sano della fortuna, veicolo ignaro, la sua paura era la nostra speranza, il suo terrore generava la nostra euforia, il suo rifugio era l’epifania della fortuna.

Di quel topo forse parlerò a Sassuolo domani sera, venerdì 17, al festival di Filosofia dedicato appunto alla fortuna. Un topo filosofo che vive nella spelonca di un secchio, come nel mito platonico e poi dopo aver vissuto per un attimo clamoroso nel ruolo baconiano di idola fori, l’idolo della piazza, andrà ad abitare poeticamente la sorte, come un convinto heideggeriano. Mi piace immaginare che «sorcio» derivi da «sorte», e implichi anche il riferimento alla «Sorge» heideggeriana. Direte che è ridotta male la filosofia ad altezza di topo e di fogne, e fa bene il nostro tempo a derattizzare il pensiero. Ma anche la fortuna è ospite intrusa nella filosofia contemporanea, almeno come la intendiamo in senso corrente, a cavallo tra i glutei e il gratta e vinci. La fortuna occhieggia tra i filosofi moralisti o politici e non teoretici o analitici: la trovi in Seneca, per esempio, o in Machiavelli, nella sua antropologia politica.

In filosofia, come nella scienza, veste i panni più sobri del caso, della probabilità, della provvidenza. Ma è ben strano paradosso notare che dopo tre secoli di illuminismo, di primato della ragione, l’ultima istanza del vivere come del pensare sia affidata al caso, cieco signore e oscuro tiranno, dai facili capricci. Dopo una secolare guerra di liberazione dalla religione e dal mito, dal destino e dalla provvidenza, l’unica sragione di vita diventa il caso, ovvero la assoluta fortuità di essere qui e non altrove, in questo tempo, in questo luogo, in questo corpo, tra queste persone, e non altrove. La fortuna diventa allora l’ultima figurazione della sorte, l’estremo, labile rifugio del destino nella superstizione di un caso attraente. Il destino, ricacciato dalla porta principale, rientra così dalla finestra dei surrogati, insieme agli oroscopi, i segni zodiacali, la jettatura perfino, il gioco dei dadi e il topolino della fortuna. Un tentativo di figurare l’imponderabile, di addomesticare il futuro o di offrirlo in dono agli dei sconosciuti. Sfatando la vita, l’hanno consegnata a più capricciosi padroni.

Da questa volontà di rappresentare il futuro e di capire dove abita l’altra metà del vivere, per usare la nota divisione machiavellica tra fortuna e valore, quella metà che non cade sotto il dominio della nostra libertà e della nostra decisione, risorge un ospite antico, più antico delle religioni: dico il fato.

Del destino è rimasta traccia solo nel gergo della quotidianità per indicare di solito eventi funesti e storie crudeli o per travestire la passività, l’inerzia nei panni arcaici del fatalismo. E invece, correlato al senso della fortuna, il fato assume un significato diverso, giocoso, e si mostra aperto a due esiti opposti. Nella fortuna, in realtà, cerchiamo un legame tra il passato, il presente e il futuro, cerchiamo una rete di nessi e di relazioni tra noi e il mondo, tra le azioni e le cose, un legame con la vita degli altri e delle stelle. Nella fortuna cerchiamo, senza dirlo, un disegno intelligente di vita che presiede al cammino singolare, comune e cosmico perfino; fino a cercare, in extremis, un’episodica irruzione della provvidenza, la traccia di una benevolenza divina. Una tantum, magari, un miracolo più che una visione metastorica. Ma nella fortuna non ci limitiamo a teatralizzare il caso, dandole un nome leggiadro, ma invochiamo amor fati. E di amor fati parlerò al festival. A questo tema antico e contemporaneo, stoico e nietzscheano, del resto, ho dedicato il mio ultimo libro sin dal titolo. Amor fati non è fatalismo ma assunzione di responsabilità: le nostre scelte non cadono nel nulla, lasciano impronte, recano destini.

E parlerò della scommessa che nella piena facoltà della nostra intelligenza e della nostra libertà possiamo accogliere: possiamo ritenere che tutto quel che accade sia insensato e casuale, e dunque possiamo disporci a ritenere la vita occasionale e radicalmente sradicata, precaria, labile e revocabile. O viceversa possiamo scommettere che quel che siamo e quel che accadde, accade e accadrà riveli un disegno o una trama, si iscriva in un ordito e in una connessione, e di tutto resti in fondo una traccia, chiamandoci così alla responsabilità di vivere e di decidere. Amor fati è amore intelligente della realtà, preferenza per l’essere rispetto al non essere, convinzione che diventiamo ciò che siamo. Si tratta di una scommessa, dunque ci affidiamo a quel mouse (o a quel mus, come il suo antenato latino) che veicola il cursore della nostra vita sullo schermo del mondo; come il suo primitivo archetipo, il topolino della fortuna. Buona fortuna, filosofi, a caccia di sfatare la fatalità.