Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'ecologia e il lato in ombra della postmodernità

L'ecologia e il lato in ombra della postmodernità

di Andrea Sciffo - 19/09/2010

Gli ecologisti militanti e quanti ridicolizzano qualunque posizione ambientalista sono oggi accomunati dalla medesima tragedia: trovarsi incastrati tra le lamiere contorte, folgorati in posizione rigida da un cortocircuito teorico.

               Sì, perché il pensiero ecologista anticristiano, dai tempi di Aldo Leopold (Almanacco di un mondo semplice, 1948) e di Lynn White (1967), accusa la mentalità ebraico-cristiana di essere la responsabile dei disastri arrecati all’ecosistema terrestre. Viceversa, l’apologia di chi difende il cristianesimo occidentale tende a respingere l’accusa puntando il dito contro gli atteggiamenti ridicoli e/o paranoici delle derive dei movimenti animalisti, naturisti, dell’ecologia profonda, dell’antispecismo.

               Laurent Larcher appartiene a questo secondo partito, e nel suo Il volto oscuro dell’ecologia. Che cosa nasconde la più grande ideologia del XXI secolo? (Lindau, Torino, 2009; pp. 269 €24) porta a termine un ragionamento brillante, documentato, condivisibile ma freddo: è troppo lunga la lama del suo fioretto, troppo distante l’avversario; del duello non si sente né il calore sudato del corpo né la presenza fisica e ansante del “nemico” fatto oggetto delle stoccate: è una intelligente gara di scherma, in cui le idee fanno appunto da “schermo” e da cui i due contendenti escono puliti e lindi, senza una piega. Ciò contribuisce a mantenere immobile la situazione di stallo, la tragedia di cui si faceva riferimento all’inizio. E il moto di sviluppo della società occidentale resta pertanto insabbiato, impantanato, incagliato.

               La questione che Larcher e i suoi bersagli, cioè la lobby del “biocentrismo verde”, aggirano perché tutti intenti a demonizzare i concorrenti è la domanda che da decenni la società non riesce a porre, che la persona da sola non sa formulare, che le aggregazioni non possono pronunciare: e la domanda suona più o meno: “può l’umanità continuare a vivere così? O meglio, posso io continuare a vivere così?”. Tale domanda pulsa come sangue nel ritmo quotidiano delle masse sociali (in parole povere, di te e me che adesso stiamo leggendo/scrivendo/vivendo) ma non emerge se non in bolle che subito esplodono senza nome; tale domanda è unita al “gemito del creato” che san Paolo Apostolo sentiva (Rm 8,22-23) come un soffrire della Creazione nelle doglie del parto. Del resto, non occorre essere poeti né sensitivi né psicotici per sentirne la vibrazione di fondo. Chi le darà voce, ne libererà il canto, ne incarnerà la danza segreta e discreta? Non le polemiche, le apologie, i processi, i pamphlet: tutto questo può andar bene a Parigi, la patria delle irresolubili Querelles, ma non nella realtà reale.

               Nei libri, sui media, in internet si fa in fretta a leggere/scrivere/sentenziare. Se da un lato l’ottimismo catastrofista dell’area neopagana (Alain de Benoist) o filantropico neomassonica (Gorbačëv) insiste sullo scenario di una Natura saccheggiata per colpa dell’uomo, dall’altra parte (cioè quando il liberalismo o liberismo arruola qualche “credente” o “devoto”) si continua a sottolineare l’incoerenza dei comportamenti ecologistici e le eventuali inesattezze delle previsioni ambientaliste. Dunque ancora una volta non si avanza di un millimetro nel cammino, anche di avvicinamento reciproco.

               Con due eccezioni: il Magistero di papa Giovanni Paolo II in tema di “conservazione del Creato” e una frase del teologo cattolico Hans Urs von Balthasar. Entrare nel corpus delle affermazioni del Pontefice polacco non è negli intenti di questo articolo e devo dunque rimandare per ora a due libri introduttivi di buona qualità: primo, Il rispetto del creato di José-Romàn Flecha (Jaca Book, 2000; pp.191 €14,46); secondo, Per un’ecologia cristiana di Hélène e Jean Bastaire (Lindau, 2008; pp.76 €11). Si può però almeno anticipare un brano eloquente, lo stralcio di una predica pronunciata dal Santo Padre, segnato dalla malattia, nel suo ultimo viaggio in terra natale: “Qui si ha l’impressione che parlino, con forza eccezionale, il blu del cielo, il verde dei boschi e delle campagne, l’argento dei laghi e dei fiumi. Qui il canto degli uccelli risuona in modo particolarmente familiare, polacco. E tutto ciò è testimonianza dell’amore del Creatore, della potenza vivificatrice del suo Spirito e della redenzione operata dal Figlio per l’uomo e per il mondo. Tutte queste creature parlano della propria santità e della propria dignità, ricuperate allorché colui che fu generato prima di ogni creatura assunse forma umana nel ventre della Vergine Maria” (omelia del 12.6.1999 a Zamość). A conferma che quella voce e quel gemito cosmico Karol Wojtyła li sentì sino alla fine.

               Le parole di Balthasar, invece, sono lapidarie. Furono pronunciate durante un’intervista, nel giugno del 1986 a Roma (e ora raccolta in Renato Farina, Maestri. Piemme, 2007; pp.253 €15,50). Alla domanda “Lei come si immagina la fine del mondo” il teologo svizzero, che sarebbe morto esattamente due anni dopo, rispose tranquillo: “Penso che gli uomini lo distruggeranno”. E davanti allo sbigottimento dell’intervistatore, precisava: “Io penso che gli uomini distruggeranno una volta per tutte la Terra”.

 

Andrea Sciffo