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Le contraddizioni del sistema alimentare mondiale

di Esther Vivas - 20/09/2010


L’odierno modello alimentare, lungo tutta la catena, dal produttore al consumatore, è sottomesso ad una forte concentrazione, monopolizzato da una serie di corporazioni agroalimentari transnazionali, che fanno passare i loro interessi economici prima del bene pubblico e della comunità. Il sistema alimentare, oggi, non corrisponde più ai bisogni degli individui, né alla produzione sostenibile fondata sul rispetto dell’ambiente. È un sistema in cui l’insieme del processo è radicato nella logica capitalista: la ricerca del massimo profitto. L’ottimizzazione dei costi e lo sfruttamento della forza lavoro. I beni comuni come l’acqua, le sementi, la terra, che da secoli appartengono alle comunità, sono stati privatizzati, spogliati dalle mani del popolo e trasformati in moneta di scambio, alla mercee del miglior offerente…

Davanti a questo scenario, i governi e le istituzioni internazionali hanno integrato i progetti delle imprese transnazionali e sono divenuti loro complici, se non i beneficiari indiretti, di un sistema alimentare produttivista, insostenibile e privatizzato.

La pretesa “preoccupazione” di governi e istituzioni (G8, OMC, Banca mondiale, ecc.), di fronte all’aumento dei prezzi delle derrate alimentari di base e del suo impatto sulle popolazioni sfavorite del Sud [1], non fa che mostrare la loro ipocrisia in presenza di un modello alimentare che offre loro importanti vantaggi economici. È un modello che è anche impiegato come strumento imperialista di controllo politico, economico e sociale dell’insieme dei paesi del Sud, da parte delle principali potenze del Nord, come gli Stati Uniti o l’Unione Europea (e da parte delle loro multinazionali agroalimentari).

Crisi alimentare

La crisi alimentare, comparsa tra il 2007 e il 2008, con un forte aumento dei prezzi al consumo per gli alimenti di base, evidenzia l’estrema vulnerabilità dell’attuale modello agricolo e alimentare. Secondo la FAO, questa crisi alimentare ha letteralmente ridotto alla fame 925 milioni di persone. Lo ha fatto notare il suo direttore generale, Jacques Diouf: “Prima dell’aumento dei prezzi degli alimenti, nel 2007, il numero di persone malnutrite era di 850 milioni. Solo nel corso di quest’anno è cresciuto di 75 milioni, per toccare quota 925 milioni” [2]. Una cifra che arriverà a 1,2 miliardi di affamati nel 2017, stando alle stime del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti [3]. Ma, in realtà, l’attuale crisi alimentare ha già inciso direttamente o indirettamente sulla metà della popolazione mondiale; vale a dire più di 3 miliardi di persone [4]. Dato che il prezzo delle derrate alimentari non ha mai cessato di aumentare.

Secondo l’indice dei prezzi delle derrate alimentari della FAO, questi ultimi sono aumentati del 12% tra il 2005 e il 2006, del 24% nel 2007 e di circa il 50% tra gennaio e luglio 2008. I dati della Banca mondiale confermano questo rialzo: nel corso degli anni 2006-2008 i prezzi dei prodotti alimentari sono cresciuti dell’83%. I cereali e gli altri alimenti di base, che costituiscono il nutrimento di ampi settori della popolazione, in particolare nei paesi del Sud (grano, soia, oli vegetali, riso…), sono stati soggetti agli aumenti più importanti. Il costo del grano è aumentato del 130%, quello della soia dell’87%, quello del riso del 74%, e quello del mais del 31% [5].
Malgrado le previsioni favorevoli sulla produzione cerealifera, la FAO stima che i prezzi resteranno elevati nel corso degli anni a venire e che, di conseguenza, la maggioranza dei paesi poveri continueranno a soffrire gli effetti della crisi alimentare [6].

Tenuto conto di questi dati, non è sorprendente che una serie di sommosse causate dalla fame abbia attraversato il Sud, perché sono precisamente i prodotti con i quali i paesi poveri si nutrono che hanno visto gli aumenti più pesanti. Ad Haiti, nel Pakistan, in Mozambico, in Bolivia, in Messico, in Marocco, in Senegal, in Uzbekistan, nel Bangladesh, in Niger… la gente scende nelle strade per gridare “Basta!”. Alcune di queste rivolte hanno provocato dozzine di morti e di feriti. Senza scordare quelle che hanno avuto luogo nel Sud, a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, contro le politiche di aggiustamento strutturale imposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale (FMI). Una volta di più, la causa è l’aumento del prezzo delle derrate alimentari, dei trasporti, dei servizi pubblici …ad aggravare le condizioni di vita delle popolazioni di questi paesi e ad ostacolare la loro lotta quotidiana per la sopravvivenza. La storia si ripete e le politiche liberiste lasciano dietro di esse dei milioni di affamati.

Oggi, il problema non è la scarsità del cibo, ma l’impossibilità di ottenerlo. Infatti, la produzione mondiale di cereali dagli anni ‘60 ad oggi è triplicata, mentre la popolazione mondiale è soltanto raddoppiata [7]. Mai nella storia, si sono prodotti tanti alimenti. Ma, per il milione di persone che, nei paesi del Sud, spendono tra il 50% e il 60% del loro redditto per nutrirsi (fino al 80% nei paesi più poveri, contro una spesa compresa tra il 10% e il 20% nel Nord), l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari ha reso il cibo inaccessibile.

Le cause congiunturali

Alcune cause congiunturali permettono di spiegare, almeno in parte, l’aumento spettacolare dei prezzi, nel corso degli ultimi dieci anni:

- La siccità e altri fenomeni meteorologici, legati al cambiamento climatico, hanno investito i paesi produttori come la Cina, il Bangladesh, l’Australia… Hanno danneggiato i raccolti e continuano ad avere un impatto sulla produzione alimentare;

- L’aumento del consumo di carne, soprattutto in Asia e America latina, in ragione di una modifica delle abitudini alimentari (generalizzazione del modello di consumo occidentale) e, di fatto, della moltiplicazione delle installazioni per ingrassare gli animali d’allevamento;

- Le importazioni di cereali da parte di paesi fino ad ora autosufficienti, come l’India, il Vietnam o la Cina, in ragione della riduzione dell terre agricole;

- La riduzione delle riserve di cereali nei sistemi nazionali, che sono state eliminate alla fine degli anni ‘90, ha contribuito alla totale dipendenza di questi paesi dal mercato mondiale, estremamente volatile [8].

Tutti questi elementi evidenziano le cause della crisi alimentare, ma si tratta di argomenti parziali che, sempre più, sono impiegati per distogliere l’attenzione dalle cause soggiacenti [9].

A mio avviso, due fattori congiunturali hanno giocato un ruolo determinante sul repentino aumento dei prezzi delle derrate alimentari: l’aumento del prezzo del petrolio, con le sue ripercussioni dirette o indirette, e i crescenti investimenti speculativi sulle materie prime. Questi due fattori hanno creato uno squilibrio in un sistema molto fragile, quale è il sistema agroalimentare. Analizziamoli quindi in dettaglio.

L’aumento del prezzo del petrolio, che è raddoppiato tra il 2007 e il 2008, ha provocato un’impennata dei prezzi dei fertilizzanti e del trasporto. Favorendo un aumento degli investimenti nella produzione di combustibili alternativi, di origine vegetale. I governi degli Stati Uniti, dell’Unione Europea, del Brasile, e altre nazioni, hanno sovvenzionato la produzione di biocarburanti, in quanto alternativa alla penuria di petrolio e al riscaldamento climatico. Ma, questa produzione di carburanti “verdi” entra in concorrenza diretta con la produzione alimentare. Per citare un solo esempio, negli Stati Uniti il 20% dei raccolti di cereali è stato impiegato, nel 2007, per produrre etanolo, e si stima che nel corso del prossimo decennio questo tasso arriverà al 33%. Immaginate questa situazione nei paesi del Sud…

Nell’aprile 2008, la FAO ha riconosciuto che “a breve termine, è molto probabile che l’espansione rapida dei carburanti verdi, a livello mondiale, avrà delle ripercussioni importanti sull’agricoltura in America latina” [10]. Inoltre, il dirottamento del 5% della produzione mondiale di cereali ha causato l’aumento dei prezzi cerealiferi.
Nella misura in cui il mais, il grano, la soia, o le barbabietole, vengono utilizzati per la produzione di biocarburanti, la loro offerta sul mercato si riduce ed i loro prezzi aumentano di conseguenza. Secondo diverse fonti, questo impatto è stato più o meno importante, ma sempre decisivo: il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti considera che i biocarburanti hanno generato un incremento del prezzo dei cereali, stimato tra il 5% e il 20%. L’Istituto internazionale di ricerca sulle politiche alimentari (IFPRI) considera che questa cifra si situi al 30%, mentre indiscrezioni sul rapporto della Banca mondiale indicano che la produzione di biocarburanti provocherà un aumento dei prezzi cerealiferi pari al 75% [11].

Un’altra causa congiunturale da considerare, in quanto generatrice di questo innalzamento dei prezzi, è rappresentata dai crescenti investimenti speculativi sulle materie prime, dopo il crac borsistico della “new economy” (o dot.com) e la bolla immobiliare.
A seguito del crollo del mercato dei crediti ipotecari a rischio (“subprimes”), negli Stati Uniti, gli investitori istituzionali (banche, compagnie di assicurazioni, fondi di investimento, ecc.) ed altri hanno cercato degli investimenti più sicuri e maggiormente redditizi, per piazzare i loro capitali. Nella misura in cui i prezzi delle derrate alimentari crescevano, gli investitori hanno orientato i loro investimenti verso il mercato alimentare a termine, spingendo i prezzi verso l’alto e aggravando l’inflazione di questo settore [12].

Oggi, stimiamo che una parte significativa degli investimenti finanziari nel settore agricolo è di natura speculativa. Stando ad una lettura ottimista, si tratterebbe del 55% sul totale degli investimenti; un volume che cresce seguendo l’evoluzione delle liberalizzazioni della produzione agricola. Notiamo pure uno studio di Lehman Brothers del 2008, indicante che dal 2003 l’indice della speculazione sulle materie prime (che integra in misura del 30% i prodotti agricoli) è aumentato del 1900% [13].

Le cause strutturali

Al di là delle cause congiunturali, ci sono delle ragioni fondamentali che spiegano la profonda crisi alimentare, che stiamo vivendo. L’applicazione, alla cieca, delle politiche ultra liberali (o liberiste) nel corso degli ultimi trent’anni, su scala mondiale – la liberalizzazione del commercio ad ogni costo, il pagamento del debito esterno dei paesi del Sud, la privatizzazione di servizi e beni pubblici… -, così come un modello di agricoltura e di alimentazione al servizio della logica capitalista, sono responsabili di questa situazione.
Infatti, siamo confrontati ad un problema sistemico più profondo; con un modello alimentare mondiale estremamente vulnerabile in condizioni di crisi economica, ecologica e sociale.

Eric Holt-Giménez [14] ha indicato nelle politiche di “sviluppo” economico, promosse dai paesi del Nord sin dagli anni ‘60 – la rivoluzione verde, i programmi di aggiustamento strutturale, i trattati regionali di libero scambio, l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e le sovvenzioni agricole nell’emisfero Nord –, la causa della distruzione sistematica dei sistemi alimentari.

A cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90, abbiamo assistito alla cosiddetta “rivoluzione verde”, promossa da diversi centri di ricerca agricola e dalle istituzioni internazionali, con l’obbiettivo “teorico” di ammodernare l’agricoltura nei paesi non industrializzati. I primi risultati in Messico e, più tardi, nel sud e sud-est asiatico, sono stati spettacolari dal punto di vista della produttività per ettaro, ma questo incremento del rendimento della terra non ha avuto un impatto diretto sulla riduzione della fame nel mondo. Allorché la produzione agricola mondiale aumentava dell’11%, il numero di affamati aumentava ugualmente dell’11%, passando da 536 milioni a 597 milioni [15]. Rosset, Collins e Moore Lappé, hanno segnalato che “L’aumento della produzione, cuore della rivoluzione verde, non è sufficiente a ridurre la fame perché non modifica il modello di concentrazione del potere economico, dell’accesso alla terra o del potere d’acquisto. (…) Il numero di persone che soffrono della fame può essere ridotto solamente attraverso la ridistribuzione del potere d’acquisto e delle risorse a favore di coloro che soffrono di malnutrizione. (…) Se i poveri non hanno il denaro necessario per l’acquisto del cibo, l’aumento della produzione, a loro, non è di nessun aiuto” [16].

La “rivoluzione verde” ha avuto degli effetti collaterali nefasti per un gran numero di contadini, sia poveri che benestanti, e per la sicurezza alimentare a lungo termine. Più precisamente, questo processo ha rinforzato la dominazione delle multinazionali dell’agro-business lungo l’intera catena di produzione, ha provocato la perdita del 90% della biodiversità e della diversità agricola, ha ridotto notevolmente le falde freatiche, ha accresciuto la salinità e l’erosione del suolo, ha causato la migrazione di milioni di agricoltori dalle campagne verso le “bidonville”, ha soppiantato il sistema agricolo tradizionale, garante della sicurezza alimentare.

Dal 1980 al 1990, l’applicazione sistematica dei Programmi di aggiustamento strutturale [17] ha aggravato ulteriormente le condizioni di vita, già difficili, delle popolazioni del Sud. Lo scopo primario di questi “Programmi” era di assogettare l’economia di questi paesi al pagamento del debito, applicando la massima “esportare di più e guadagnare meno”.
Le misure imposte dai Programmi di aggiustamento strutturale tendevano a forzare i governi del Sud:

- a sopprimere le sovvenzioni ai prodotti di prima necessità, quali il pane, il riso, il latte, lo zucchero… ;

- di imporre una drastica riduzione delle spese pubbliche (educazione, sanità, alloggio, infrastrutture…) ;

- di costringerli a svalutare la loro moneta, con l’obbiettivo dichiarato di ridurre i prezzi dei prodotti esportati, nonostante la conseguente riduzione del potere d’acquisto delle popolazioni locali ;

- di aumentare i tassi d’interesse per attrarre capitali stranieri, grazie ad una forte rimunerazione, creando così una spirale speculativa… ;

Si tratta dunque di una serie di misure che hanno fatto annegare nella miseria i popoli di questi paesi [18].

A livello commerciale, i Programmi di aggiustamento strutturale hanno promosso le esportazioni per ottenere dei vantaggi sulle valute, aumentando le monocolture destinate all’esportazione e riducendo l’agricoltura destinata al mercato interno, con il conseguente impatto sulla sicurezza alimentare e la dipendenza nei confronti dei mercati internazionali. Le barriere doganali sono state soppresse, facilitando la penetrazione dei prodotti agricoli statunitensi ed europei, altamente sovvenzionati e venduti al di sotto del costo di produzione. Ciò che ha condotto al fallimento la produzione dell’agricoltura locale. Allo stesso modo, le economie di questi paesi si sono aperte agli investimenti, ai prodotti e ai servizi delle multinazionali. La massiccia privatizzazione delle imprese pubbliche, sovente vendute a prezzi inferiori al reale valore, e di cui le multinazionali hanno ampiamente beneficiato, è stata una pratica generalizzata. Queste politiche hanno avuto un impatto diretto sulla produzione agricola locale e la sicurezza alimentare, sottomettendo questi paesi al mercato mondiale, agli interessi delle corporazioni transnazionali e delle istituzioni internazionali.

L’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), istituita nel 1995, ha consolidato le politiche di aggiustamento strutturale attraverso i trattati internazionali, ai quali sono sottomesse le legislazioni nazionali. Gli accordi commerciali gestiti dall’OMC – come l’Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (GATT), l’Accordo generale sul commercio dei servizi (AGCS) e l’Accordo sugli aspetti del diritto di proprietà intellettuale che attengono al commercio (ADPIC) – hanno ulteriormente rafforzato il controllo del Nord sulle economie del Sud.

L’OMC ha costretto i paesi in via di sviluppo a sopprimere le protezioni doganali, ad eliminare la protezione accordata ai piccoli produttori locali e le sovvenzioni che erano loro accordate. Oltre ad aprire in questo modo le frontiere ai prodotti delle corporazioni transnazionali, mentre allo stesso tempo i mercati del Nord restavano fortemente protetti. Nello stesso solco, i trattati regionali – quali, tra gli altri, l’Accordo di libero scambio dell’America del Nord (NAFTA), tra gli Stati Uniti, il Canada e il Messico, e l’Accordo di libero scambio tra i paesi dell’America centrale, la Repubblica Dominicana e gli Stati Uniti (ALEAC) – hanno spianato la strada alla liberalizzazione del commercio, facendo fallire gli agricoltori del Sud e rendendoli dipendenti dalle importazioni di prodotti alimentari dal Nord.

Le sovvenzioni agricole statunitensi ed europee, dirette principalmente verso l’industria agroalimentare, aggirano i piccoli produttori locali. Questo sostegno all’agroindustria equivale a un quarto del valore della produzione agricola negli Stati Uniti, e al 40% nell’Unione Europea [19]. In Spagna, i principali beneficiari degli aiuti della politica agricola comune sono i più grandi latifondisti: sette produttori, tra i quali la duchessa d’Alba. Il solo 3,2% dei primi agricoltori di Spagna riceve il 40% degli aiuti diretti [20], mentre le aziende agricole a conduzione famigliare, che assicurano l’esistenza delle zone rurali in Europa e l’esistenza di milioni di contadini nel Sud, non possono praticamente contare sugli aiuti e soffrono della concorrenza sleale dei prodotti fortemente sovvenzionati.

Dai paesi esportatori agli importatori

Le politiche di “sviluppo” economico promosse dalle istituzioni internazionali, con la benedizione dei rispettivi governi e al servizio delle corporazioni transnazionali, hanno distrutto un sistema di produzione alimentare locale e sostenibile, sostituendolo con un modello di produzione intensivo e industriale, soggetto agli interessi capitalisti. È ciò che ci ha condotti alla crisi attuale e all’insicurezza alimentare.

I paesi del Sud, che erano autosufficienti fino a quarant’anni fa, e disponevano anche di una eccedenza di prodotti agricoli, per un valore pari a un miliardo di dollari, sono diventati oggi totalmente dipendenti dal mercato mondiale e importano in media l’equivalente di undici miliardi di dollari in derrate alimentari [21]. Eric Holt-Giménez, spiega che “l’acuirsi della penuria alimentare nel Sud riflette l’aumento delle eccedenze alimentari nel Nord industriale e l’espansione dei mercati”. Negli anni ‘60, per esempio, l’Africa esportava alimenti per circa 1,3 miliardi di dollari, mentre adesso questo continente importa un quarto dei suoi alimenti.

Il caso di Haiti e del Messico

Il caso di Haiti è rivelatore. Bill Quigley ci fa notare che trent’anni fa questo paese produceva una quantità di riso sufficiente a nutrire la sua popolazione, ma alla metà degli anni ‘80, di fronte ad una crisi maggiore, quando il dittatore Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier è fuggito dal paese svuotando le casse, Haiti si è dovuta indebitare presso il FMI. Una spirale di “dominio” che ha fatto precipitare il paese in una profonda dipendenza politica ed economica dalle istituzioni finanziarie internazionali e, particolarmente, dagli Stati Uniti.

Per ottenere i prestiti, Haiti fu costretta a mettere in opera una serie di politiche di aggiustamento strutturale: la liberalizzazione del commercio e la riduzione dei dazi doganali che proteggevano la produzione agricola, ivi compresa quella risicola. Questa apertura delle frontiere commerciali ha permesso l’importazione del riso americano sovvenzionato, venduto ben al di sotto del prezzo di costo a cui sono soggetti gli agricoltori locali.

Citando il prete haitiano Gérard Jean-Juste, Bill Quigley afferma che “nel corso degli anni ‘80 il riso importato, venduto ad un prezzo inferiore al costo di produzione degli agricoltori locali, ha invaso il paese. Gli agricoltori haitiani hanno perso il loro lavoro e sono fuggiti verso le città. In qualche anno la produzione locale è collassata”. I contadini, incapaci di competere con il riso importato, hanno abbandonato le loro colture, e Haiti è divenuta uno dei principali importatori di riso statunitense. Di conseguenza, allorché nell’aprile 2008 il prezzo del riso, dei fagioli e dei frutti, è aumentato di oltre il 50%, la maggioranza della popolazione haitiana fu incapace di procurarsene.

Diversi giorni di protesta si sono susseguiti nei paesi più poveri dell’America latina – dove il regime alimentare medio di un adulto si limita a 1′640 calorie al giorno, ossia 640 calorie in meno della media richiesta dal Programma alimentare dell’ONU -, sottolineando l’ampiezza della tragedia. Davanti all’impossibilità di comprare del cibo, il consumo di tortillas (crêpe a base di farina di mais salata) è esploso.

Quale interesse potrebbero avere gli Stati Uniti nei confronti del mercato haitiano del riso, quando si tratta di uno dei paesi più poveri?
Circa il 78% della popolazione di Haiti sopravvive con meno di 2 dollari al giorno, e più della metà con meno di un dollaro. La speranza di vita è di 59 anni. Eppure, stando alle cifre del Dipartimento di agricoltura degli Stati Uniti, nel 2008 Haiti è stata il terzo importatore di riso statunitense, una coltura sovvenzionata dal governo ad altezza di un miliardo di dollari l’anno. Chi sono i beneficiari?

Tra il 1995 e il 1996, un solo produttore, Riceland Foods Inc., ha ricevuto 500 milioni di dollari in sovvenzioni. E non è tutto. Le sovvenzioni governative per l’esportazione del riso hanno raggiunto livelli tali che, secondo le informazioni pubblicate nel 2006 dal noto quotidiano The Washington Post, il governo americano ha versato almeno 1,3 miliardi di dollari, a partire dal 2000, a coloro che non hanno mai coltivato nulla; di cui 490′000 dollari a un chirurgo di Huston, che aveva acquisito delle terre nei pressi di questa città, sulle quali il riso non è mai stato coltivato [23].

Notiamo che in ciò che concerne le tariffe doganali, gli Stati Uniti hanno creato delle barriere, che si elevano dal 3% al 24%, sull’importazione del riso; esattamente la stessa protezione che Haiti è stata obbligata di sopprimere, nel corso degli anni ‘80 e ‘90.

Culla della cultura del mais, il Messico è un altro esempio classico dell’abolizione della sovranità alimentare. All’inizio del 2007, la crisi della tortilla – un brutale aumento del 60%, dovuto all’accresciuto costo del mais, suo componente essenziale – ha spinto il Messico sul bordo della crisi economica, allarmando il mondo intero. Le sovvenzioni del governo statunitense alla produzione di biocarburanti hanno fatto in modo che diventasse più redditizio utilizzare il mais per la produzione di etanolo, ciò che ha sospinto il suo prezzo verso l’alto.

Ma la crisi della tortilla, come l’attuale crisi alimentare, non può essere compresa senza analizzare l’impatto delle politiche del “libero mercato” imposte dalla Banca mondiale, il FMI e Washington, nel corso degli ultimi anni. Queste politiche hanno trasformato il Messico in un’economia dipendente dalle importazioni di riso statunitense.

Nell’agosto 1982, il governo messicano si è dichiarato insolvente, non potendo saldare il debito esterno. La situazione di crisi economica e sociale ha quindi obbligato il paese ad indebitarsi ulteriormente presso le banche commerciali e le istituzioni internazionali. In cambio dei fondi prestati per pagare il debito accumulato, il FMI e la Banca mondiale hanno imposto al Messico delle condizioni capestro, con l’ausilio di un Programma di aggiustamento strutturale, tra gli altri: l’apertura dei suoi mercati, l’eliminazione dei dazi doganali e dei regolamenti statali, la contrazione della spesa pubblica, lo smantellamento del sistema di credito statale, delle sovvenzioni alla produzione agricola e la soppressione del controllo dei prezzi, la fine del sistema statale di accantonamento, di commercializzazione, di stoccaggio e di assicurazione delle colture [24].

Questa dimostrazione di forza è stata seguita da un altro episodio, ancora più brutale: l’entrata in vigore, il primo gennaio 1994, dell’Accordo di libero scambio dell’America del Nord (NAFTA), che ha consentito l’afflusso massiccio del mais statunitense, fortemente sovvenzionato, che ha inondato il mercato messicano e fatto sprofondare il settore agricolo in una crisi profonda.

Con la liquidazione dell’Ufficio statale di commercializzazione del mais, la sua distribuzione – che sia prodotto localmente o importato dagli Stati Uniti – è passata sotto il controllo di alcune imprese transnazionali, come Cargill e Maseca, che hanno una grande capacità di speculare sul mercato mondiale. Questo monopolio consente loro di evitare che il rialzo dei corsi mondiali si traduca in un aumento dei prezzi pagati ai piccoli produttori locali. Questa situazione è sfociata in un abbandono massiccio delle campagne messicane, da parte dei piccoli produttori di mais e di riso, dei piccoli allevatori, ecc., che sono stati espulsi in direzione delle “bidonville”, incapaci di competere con la concorrenza di prodotti statunitensi sovvenzionati. Si stima che circa 1,3 milioni di contadini abbiano lasciato le campagne; gran parte di loro sono emigrati verso gli Stati Uniti, otto anni dopo l’entrata in vigore del NAFTA [25].

Il caso di Haiti e del Messico è lungi dall’essere isolato. Si possono estrapolare simili esempi da numerosi altri paesi del Sud, dove l’applicazione sistematica delle politiche neoliberali, nel corso degli ultimi anni, ha non solo distrutto un modello autoctono di produzione agricola, di allevamento e di alimentazione, ma ha anche liquidato ogni protezione delle loro comunità, delle loro industrie e dei servizi pubblici. Così, fondandosi sugli stessi precetti, la Banca mondiale ha proposto di sopprimere la produzione di riso nello Sri Lanka – una coltura tradizionale da oltre tremila anni e la base dell’alimentazione locale – perché sarebbe meno caro importarlo dal Vietnam o dalla Thailandia [26].

La ristrutturazione economica neoliberale nelle Filippine, durante gli anni ‘90, ha trasformato questo grande esportatore di alimenti nel più grande importatore mondiale di riso, che acquista ogni anno sul mercato mondiale tra una e due milioni di tonnellate per soddisfare la sua domanda interna [27]. La logica del “libero mercato” ha condannato questi paesi alla dipendenza ed alla miseria.

Impatto sul Nord

Le conseguenze della crisi alimentare mondiale hanno fatto eco anche nel Nord. Così in Spagna, nel corso del 2008, gli agricoltori, i pescatori, i trasportatori, gli allevatori, sono scesi nelle strade contro l’aumento del costo del carburante, quello delle materie prime, e per chiedere una giusta rimunerazione del loro lavoro, in un periodo in cui i prezzi degli alimenti non cessano di aumentare.

Nel gennaio 2008, migliaia di allevatori hanno sfilato a Madrid, rispondendo all’appello della Coordinazione delle organizzazioni di agricoltori e allevatori (COAG), esigendo delle soluzioni concrete alla crisi che il settore sta attraversando. La COAG ha sottolineato che il problema principale risiede nell’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, mentre la tendenza dei prezzi d’acquisto alla produzione è in ribasso. Una situazione che minaccia la viabilità di 400′000 fattorie, piccole e medie, per via dell’impossibilità di trasferire l’aumento dei loro costi di produzione sui prezzi di vendita. All’inizio del maggio 2008, una decina di migliaia di agricoltori e allevatori hanno manifestato a Madrid per esigere dal governo una nuova legge sui margini di guadagno commerciali, che limiterebbe la differenza tra il prezzo pagato al produttore e quello pagato dal consumatore. Dato che attualmente notiamo tra i due una differenza in media del 400%. La grande distribuzione realizza quindi dei super profitti, a scapito dei produttori e dei consumatori.

Alla fine del maggio 2008, diverse migliaia di pescatori si sono radunate davanti alla sede del Ministero dell’ambiente e delle collettività rurali e marine, a Madrid, per protestare contro il costante aumento del prezzo dei carburanti e l’assenza di sovvenzioni (il petrolio è aumentato del 320% in cinque anni, quando il prezzo di vendita del pesce è stabile da vent’anni). Durante la manifestazione i pescatori hanno distribuito venti tonnellate di pesce fresco. L’attuale situazione del settore rende la pesca quasi insostenibile.
I trasportatori si sono uniti alle proteste, bloccando strade e autostrade, a causa dell’aumento del prezzo del diesel, che rappresenta il 50% dei loro costi. E si potrebbe continuare con tali esempi.

Nel corso degli ultimi anni, i prezzi dei prodotti che sono alla base della nostra alimentazione non hanno cessato di crescere. Secondo i dati pubblicati dal Ministero spagnolo dell’industria, del turismo e del commercio, nel 2007 il prezzo del latte è cresciuto del 26%, quello delle cipolle del 20%, quello dell’olio di girasole del 34%, quello della carne e del pollame del 16%… Vale la stessa cosa per la stragrande maggioranza dei prodotti alimentari, mentre l’indice ufficiale dei prezzi al consumo è cresciuto solo del 4,1% nello stesso anno.

È evidente che gli effetti della crisi alimentare sono difficilmente comparabili al Nord e al Sud del pianeta. Nel Nord gli acquisti di alimenti incidono solo tra il 10% ed il 20% sui redditi, allorché nei paesi del Sud incidono in misura del 50% o 60%, fino addirittura al 80%. È importante misurare anche l’impatto di questi repentini aumenti dei prezzi, ivi compreso nel Nord. Soprattutto quando i profitti delle multinazionali continuano a crescere ed i governi invocano una sempre più estesa liberalizzazione economica.

La situazione dei contadini si aggrava ogni giorno di più. Negli ultimi dieci anni, in Spagna, abbiamo assistito alla sparizione di quasi dieci aziende agricole al giorno. La popolazione contadina si è ridotta del 5,6% ed è composta essenzialmente di persone anziane. Estrapolando da queste cifre, la Fundació Terra ha stimato che lo Stato spagnolo, tra quindici anni, sarà costretto ad importare l’80% degli alimenti necessari a nutrire la sua popolazione [28]. Il reddito agricolo non ha cessato di diminuire, attestandosi oggi al 65% del reddito medio. Non è sorprendente allorché, per esempio, nel 2005 l’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 4,2%, mentre i prezzi di vendita dei prodotti agricoli sono diminuiti – una tendenza che si ripete, anno dopo anno -. I prezzi dei prodotti agricoli possono essere moltiplicati per undici, prima di essere acquistati dal consumatore, e si stima che oltre il 60% degli utili realizzati si concentri nell’ultima maglia della catena: i supermercati.

Chi approfitta della crisi alimentare?

Le multinazionali beneficiano della crisi alimentare mondiale, monopolizzando i vari stadi della produzione, dalla trasformazione alla distribuzione degli alimenti. Non è dunque stupefacente che i profitti delle principali multinazionali delle sementi, dei fertilizzanti, della trasformazione e del commercio delle derrate alimentari, abbiano proseguito nella loro curva ascendente. Si tratta di un complesso agroindustriale mondiale, che si è costruito negli ultimi cinquant’anni, sostenuto da fondi pubblici, dalla cooperazione internazionale e dalle politiche internazionali di “sviluppo” agricolo.

Nel 2007, Monsanto e Du Pont, principali produttori di sementi, hanno rispettivamente annunciato un aumento dei loro profitti del 44% e del 19%, in rapporto all’anno precedente. I più grandi produttori di fertilizzanti, Potash Corp., Yara et Sinochem, hanno aumentato i loro profitti rispettivamente del 72%, del 44% e del 95%, tra il 2006 e il 2007. La stessa cosa vale per le multinazionali della trasformazione alimentare – i profitti di Nestlé sono aumentati del 7% nello stesso periodo -. La grande distribuzione (ipermercati, supermercati e centri commerciali) ha ugualmente visto incrementare i propri margini. La principale catena di supermercati britannici ha dichiarato un aumento dei suoi profitti pari al 12,3% nello stesso periodo, mentre i giganti Carrefour e Wall Mart hanno indicato che la vendita di prodotti alimentari era la loro principale fonte di guadagno. Il bilancio annuale del 2007 della catena statunitense Safeway ha registrato un incremento del 15,7% dell’utile netto.

La chiave del successo è da ricercare nelle pratiche di queste multinazionali: vendere volumi importanti con dei bassi margini, che incidono direttamente sul produttore. L’aumento dei prezzi dei cereali ha scatenato “un’attività febbrile nel mondo della grande impresa, per assicurarsi il controllo dell’intera catena alimentare” [29]. Le multinazionali del comparto agroindustriale e le imprese di vendita al dettaglio si sono accaparrati la produzione agricola, allo scopo di ridurre i costi di accantonamento e le prestazioni assicurative.

Assistiamo ad una concentrazione delle imprese nel comparto alimentare. Nel 2007, il valore totale delle fusioni-acquisizioni nell’industria alimentare mondiale (includendo i fabbricanti, i distributori e i venditori) era di 200 miliardi di dollari; il doppio rispetto al 2005. Queste fusioni riflettono un’accelerazione della monopolizzazione dell’industria alimentare.

Così, nella prima maglia della catena, quella delle sementi, le prime dieci compagnie al mondo (Monsanto, Du Pont, Syngenta, Bayer…) controllano la metà del volume totale delle vendite. Si tratta di un mercato annuale di circa 21 miliardi di dollari. Un settore relativamente piccolo se comparato a quello dei pesticidi o dell’industria farmaceutica, ma trattandosi della prima maglia della catena produttiva, bisogna sempre considerarne l’importante impatto sulla sicurezza alimentare della popolazione mondiale. Le leggi sulla proprietà intellettuale, che assicurano alle grandi compagnie l’esclusività dei diritti sulle sementi, hanno stimolato la concentrazione in questo settore e hanno eroso il diritto fondamentale degli agricoltori di conservare ed utilizzare sementi autoctone, preservando così la biodiversità. L’82% delle sementi attraverso il mondo è oggi costituito da sementi brevettate, oggetti del monopolio esclusivo e della proprietà intellettuale [30].

L’industria delle sementi è intimamente legata a quella dei pesticidi. Le principali imprese di sementi controllano anche il settore dei pesticidi e, spesso, condividono lo sviluppo ed il commercio dei loro prodotti. Ma, nel settore dei pesticidi il monopolio è ancor più importante: le prime dieci imprese controllano l’84% del mercato mondiale. Le fusioni-acquisizioni sono pratica corrente in questo settore, per potere realizzare le ottimali economie di scala ed essere concorrenziali sul mercato mondiale. Gli accordi del tipo “cartello tecnologico” si moltiplicano ugualmente. Nel 2007, ad esempio, il primo produttore mondiale di sementi, Monsanto, e la principale impresa chimica, BASF, hanno concluso un accordo sulla ricerca e lo sviluppo, onde accrescere il rendimento e la tolleranza alla siccità del mais, del cotone, della colza e della soia. Tali accordi permettono di trarre i maggiori vantaggi dai mercati oligopolistici e di aggirare le restrizioni legali dei monopoli.

Osserviamo la stessa dinamica nel settore della grande distribuzione, che conosce una forte concentrazione. In Europa, tra il 1987 e il 2005, la parte di mercato delle prime dieci imprese è notevolmente aumentata, rappresentando il 45% sul totale. Si stima che potrebbe raggiungere il 75% tra una decina o quindicina di anni. In Svezia, tre imprese controllano il 95,1% del mercato. In paesi come l’Argentina, il Belgio, la Danimarca, la Francia, l’Olanda, il Regno Unito, la Spagna, poche società controllavano già nel 2000 tra il 40% ed il 60% del mercato [31]. Le fusioni sono diffusissime. Le multinazionali che risiedono nei paesi occidentali assorbono le piccole maglie della catena sparse per il mondo, in particolare nei paesi del Sud, per assicurare la loro espansione mondiale.
Questa concentrazione e questi monopoli consentono di controllare efficacemente e di determinare il nostro consumo: a quale prezzo, di quale origine, come è stato elaborato, ecc.

Nel 2007, secondo la lista Fortune Global 500, la prima impresa mondiale per il volume di vendita al dettaglio era Wall Mart, davanti ai giganti del petrolio (Exxon Mobile, Shell, British Petroleum), o dell’industria automobilistica (Toyota). Un po’ più lontano sulla lista, troviamo Carrefour (33°), Tesco (51°), Kroger (87°), Royal Ahold (137°), Auchan (139°). Questo modello di vendita al dettaglio ha un impatto negativo su tutti gli attori della catena alimentare: i contadini, i fornitori, i consumatori, i lavoratori.

Complicità istituzionale

Questo insieme di multinazionali controlla tutte le maglie della catena alimentare, beneficiando del sostegno esplicito delle élite politiche e delle istituzioni internazionali, che privilegiano il profitto delle imprese a scapito dei bisogni alimentari della popolazione e del rispetto dell’ambiente. Queste corporazioni realizzano degli importanti profitti grazie ad un modello agroindustriale liberalizzato e deregolamentato.

Le istituzioni internazionali come la Banca mondiale, l’OMC, il FMI, la FAO, così come l’Alleanza per la rivoluzione verde in Africa, il governo degli Stati Uniti, l’Unione Europea e le grandi multinazionali del settore agroalimentare, affermano che la causa della crisi alimentare risiede nell’insufficienza della produzione alimentare. Il numero due della FAO, José María Sumpsi, l’ha formulato chiaramente, dicendo che si tratta di un problema dell’offerta e della domanda dovuto all&rsqu