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Che cosa vuol dire morire

di Tiziana Gabrielli - 21/09/2010


Daniela Monti, giornalista del «Corriere della Sera», ha intervistato sei illustri filosofi italiani (Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, Giovanni Reale, Aldo Schiavone ed Emanuele Severino) sul più grande tabù del nostro tempo: la morte. La rivoluzione tecnologica ha reso artificiali i processi biologici di nascita e morte, giungendo a condizionare in modo invasivo persino le nostre possibilità di scelta. In questa opacizzazione della vita e della morte e della loro identità precipua, è necessario, secondo la curatrice del volume, che «la filosofia scenda in campo e faccia la sua parte», perché l’unica via possibile è «costruire una nuova cultura della morte, che non sia dominio esclusivo della medicina né rimozione di un evento inevitabile» (Introduzione, p. VIII).

I casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica, aprendo un acceso dibattito tra i bioeticisti, le gerarchie ecclesiastiche e i partiti politici. I filosofi, perlopiù, hanno taciuto o non sono stati ascoltati. Di qui l’importanza di questo contributo per riportare al centro l’urgenza di pensare la morte, perché «ci sono domande che non possono essere più eluse, domande a cui la filosofia, più della religione e della politica, è chiamata a rispondere, perché è stata la filosofia, per prima, a formularle. Ci si può preparare alla morte? Esserne preparati, aiuta ad andare incontro a una «buona morte»? E ancora: che cos’è diventata la morte nell’epoca della tecnica?» (ivi, p. VII).

«Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti...», così Marguerite Yourcenar, alla fine delle sue celebri Memorie di Adriano, fa dire all’imperatore, ormai prossimo alla morte. L’uomo moderno, invece, essendo impreparato di fronte al pur ineluttabile evento, ha rimosso il pensiero della morte. Del resto, per dirla con Jankélévitch, non ci si può preparare alla morte, poiché, «quali che siano le nostre precauzioni, la morte ci coglie sempre alla sprovvista» (ivi, p. XV).

I sei filosofi, sollecitati dalle puntuali domande della Monti, hanno delineato prospettive di pensiero diverse, talvolta contrastanti, sull’applicazione delle biotecnologie in medicina, ma tutti concordano su alcuni punti centrali: il rispetto per la libertà di scelta sul come e quando morire, purché vi sia un’etica condivisa sull’uso della tecnica, che deve essere alleata e non nemica dell’uomo; e l’esigenza stringente di una presa di coscienza generale sulla complessità delle implicazioni filosofiche, giuridico - politiche e scientifiche dei problemi concernenti l’esperienza della morte.

Secondo Aldo Schiavone, per riequilibrare i valori in gioco e il potere della tecnologia, occorre un «nuovo umanesimo»: «Noi saremo, biologicamente, sempre di più “come vorremo essere”: sta finendo la nostra “preistoria”. L’umano si sta appropriando finalmente del suo destino» (p. 5). La “rivoluzione culturale” che ci aspetta sarà quella di «trasportare la percezione della morte da evento affidato a una naturalità immodificabile, a evento entrato nel raggio delle nostre possibilità di decisione e di configurazione» (p. 8). Pertanto, per Schiavone, il problema vero non è tanto «fidarsi o meno della scienza», bensì che sia «la civiltà umana nel suo complesso a dover integrare la scienza in una visione razionale del mondo, in una visione globale della vita del Pianeta» (pp. 9-10). Schiavone solleva una questione gravissima e di drammatica attualità: il rischio, già peraltro fortemente avvertito, che si accetti come inevitabile «uno sbilanciamento, una dissimmetria, fra una scienza e una tecnica sempre più potenti, e una politica, un’etica, un diritto sempre meno capaci di offrire loro una cornice di regole matura e adeguata, in grado di assicurare trasparenza e controllo democratico sulle procedure e i risultati della ragione scientifica. (...). Ma la potenza della tecnica, che diventerà sempre maggiore, non si esorcizza immaginando paletti e confini alla libertà della ricerca, bensì accrescendo il senso e gli strumenti della nostra responsabilità. È esattamente ciò che chiamo necessità di un nuovo umanesimo – un umanesimo della post-naturalità» (p. 10). Se è vero che nelle società tecnologicamente avanzate la morte è «un’artificialità negoziata» (p. 14), allora c’è bisogno di «un’etica della morte, all’interno dei nuovi orizzonti aperti della tecnica... E serve una coraggiosa elaborazione collettiva. Su questa strada siamo solo agli inizi. Ci vuole coraggio politico, e coraggio intellettuale» (p. 19).

Per Giovanni Reale va scongiurato il pericolo di un primato del paradigma scientistico attraverso un ritorno ai concetti chiave del cristianesimo: natura (creata da Dio), persona e amore donativo (cfr. p. 39). L’uomo moderno, ridotto a merce da riciclare con la donazione degli organi o da smaltire con la cremazione e la dispersione delle ceneri, «non si accorge più di morire» (p. 26). Il senso della morte è stato svuotato dei suoi valori religiosi, metafisici e simbolici, e si dimentica che la vita, avverte Reale, «è molto di più della semplice “sopravvivenza” e della “autoconservazione artificiale” a cui si aggrappano con le unghie e con i denti molti sostenitori della “indisponibilità della vita”» (p. 32).

Di contro alla manipolazione della natura umana, Reale richiama l’insegnamento dei greci: «La malattia dell’uomo d’oggi è aver perso il senso della giusta misura. I saggi greci dicevano: non è l’avere sempre di più che ti farà felice, ma il metterti al riparo dal sempre di più e accontentarti del minimo che ti occorre» (p. 36). L’onnipotente auctoritas della nuova tecnologia della comunicazione, che implica «mutamenti strutturali dei modi di vivere e di pensare» (p. 43), può essere arginata attraverso un cambiamento di rotta dal punto di vista spirituale che possa indurre l’uomo ad occuparsi di ciò che è piuttosto che di ciò che ha (cfr. p. 42). Spesso la scienza e la tecnica, col pretesto di prolungare la vita, prolungano solo l’agonia che precede la morte o conducono alla perdita della consapevolezza da parte dell’uomo del significato della vita e della morte. Per chi, come Reale, crede nella sacralità della vita come dono divino, l’eutanasia è «un grave errore, frutto di una concezione nichilistica di fondo» (p. 50), che nel caso di chi la mette in atto si configura come una forma di omicidio mascherato; nel caso in cui sia voluta e richiesta dal soggetto è una forma di suicidio mascherato (cfr. p. 51). Nel cristianesimo la morte è un passaggio alla vita eterna, ed è quindi legata alla resurrezione dei corpi. Per chi non crede, la morte è «l’esperienza più drammatica e terribile», da cui si fugge rimuovendola o considerandola uno «scarto dell’esistenza» (ibidem).

Nell’«epoca dell’antidestino» (p. 57) come quella attuale, Remo Bodei, al contrario di Reale, giudica «per nulla spaventosa» (ibidem) l’idea dell’eutanasia e non ha pregiudizi nemmeno rispetto all’eugenetica, che «ci pone di fronte a nuove responsabilità e le cure sempre più precoci, fin nel grembo della madre, sono il simbolo di un modo diverso di affrontare la vita» (ibidem). Bodei fa i conti non soltanto con le biotecnologie, ma anche con la Chiesa, resistente all’eutanasia e ad alcune conquiste della scienza. Il grande dibattito sulle cellule staminali in Italia si fonda su una non corretta informazione. Infatti, le cellule staminali non sono affatto embrionali, in quanto i ricercatori operano sulle blastocisti, «raggruppamenti di cellule entro il quinto giorno di formazione, senza nessuna organizzazione e, proprio per questo, pluripotenti. Quindi è assurdo parlare di manipolazione dell’embrione» (p. 60). Altra questione in gioco è la cosiddetta “eugenetica negativa”, che previene la nascita dei bambini con la spina bifida, cui spesso si associa l’idrocefalo. Per la Chiesa non è giusto intervenire, perché ognuno deve tenersi ciò che la natura gli ha dato. Naturalmente questa visione non tiene conto, sottolinea Bodei, che siamo in «in un’epoca di antidestino. Ciò che prima doveva essere accettato sulla base della rocciosa, inamovibile, legge naturale, sulla base della volontà imperscrutabile di Dio, oggi può essere cambiato. Fingere di ignorarlo è collocarsi al di fuori del mondo» (p. 61). C’è poi un’“eugenetica positiva”, da «valutare caso per caso», cercando di opporsi a chi vuole scegliere un figlio con gli occhi azzurri piuttosto che verdi, e invece promuovendo, come si sta facendo ora negli Stati Uniti grazie ad Obama, la ricerca sulle staminali per alleviare, e non certo per aggravare, la sofferenza di chi è affetto dalle numerose ed invalidanti malattie genetiche. Bodei invita quindi ad un dialogo rispettoso e aperto sui temi dell’eutanasia e dell’eugenetica tra gli scienziati - la cui autonomia è «una sorta di profilassi» (p. 63) - e la Chiesa proprio sul terreno comune della dignità della vita. Bodei cita qualche esempio per sostenere, pur con particolare prudenza e discrezionalità, l’eutanasia o il suicidio: da Seneca a Marco Aurelio, da Dante, che colloca il suicida Catone nel Purgatorio e non nell’Inferno, a Hume, che sostiene la liceità del suicidio (cfr. p. 65).

Nell’epoca della secolarizzazione, dell’«infelicità senza desideri» (come recita il titolo di una celebre opera di Peter Handke), il vero problema, osserva Bodei, è che «di fronte alla morte siamo soli... Il testamento biologico, trasformato in legge dello Stato senza l’ipocrisia dell’alimentazione forzata, è un atto di civiltà perché lascia al singolo, che ha dei buoni motivi e che non pratica l’apologia del dolore, la possibilità di avere una buona morte nel senso di una morte più serenamente accettabile. E questo mantenendo aperto il mistero» (p. 78).

Per restituire senso alla vita e alla morte, la questione fondamentale, per Roberta Monticelli, «sta nel credere che nessun uomo è più competente degli altri in materia morale» (p. 84). Di qui la morte è «buona» solo «se non uccide la dignità e la vocazione personale, l’ethos del morente; e se è pietosa, se accetta dalla dolce pietà dei Lumi e della nostra scienza gli umani rimedi che permettono al morente di spegnersi in pace, e per quanto possibile dolcemente» (p. 83). Molti prelati sostengono la libertà di coscienza ma poi rigettano il principio di autodeterminazione, non accorgendosi che lo spirito del cristianesimo è perduto se un uomo non può autodeterminarsi scegliendo liberamente. De Monticelli, ricordando le parole di Agostino («ciascuno si porta dietro la sua morte», p. 97), e quelle di Giovanni Paolo II: «lasciatemi andare» (p. 102), nel suo ipotetico testamento biologico scriverebbe: «rendetemi buona, toglietemi il male. E poi lasciatemi andare» (p. 83).

Secondo il teologo Vito Mancuso, la paura della morte è in fondo paura della vita. La morte è compresa fin dall’inizio della nostra vita. «Oggi sappiamo che la morte è esistita ben prima del peccato dell’uomo, perché è nata con gli organismi pluricellulari e con la riproduzione sessuata» (p. 127). Morire serenamente si può, facendo prevalere, «anche in quell’istante terribile dell’addio, la forma più alta di vita a cui possiamo aspirare: la vita spirituale, libera e cosciente» (p. 109). Mancuso è favorevole al testamento biologico, in quanto assertore convinto dell’autodeterminazione dell’uomo, ma non rinuncerebbe, pur rifiutando ogni forma di accanimento terapeutico, alla vita vegetativa (cfr. pp. 122-123). Per quanto concerne la vita altrui ci vuole rispetto assoluto e nessun compromesso (cfr. p. 110). Mancuso poi distingue fra eutanasia attiva decisa da terzi e l’eutanasia attiva decisa dal singolo. Entrambe sono impraticabili (cfr. p. 121). Ma c’è un’altra forma di eutanasia: l’eutanasia passiva, peraltro sancita dall’articolo 32 della Costituzione, in base al quale è lecito rifiutare determinati trattamenti (comprese nutrizione e idratazione con sondino nasogastrico), perché giudicati invasivi dal singolo. A questo punto, i medici devono intervenire, prescrivendo cure palliative per accompagnare alla morte il malato con la minor sofferenza possibile (cfr. p. 122).

Mancuso ammonisce la Chiesa cattolica, perché dovrebbe occuparsi di una seria riflessione spirituale sulla preparazione alla morte piuttosto che dibattere sulle tecniche bioetiche (cfr. p. 131). E ancora: «I vertici ecclesiastici forse non se ne rendono conto, ma la Chiesa oggi si sta giocando il proprio futuro. O è capace di intercettare con autenticità questo bisogno di spiritualità che emerge prepotente dall’Occidente o l’Occidente se ne andrà altrove, e il cattolicesimo così come l’abbiamo conosciuto qui da noi non esisterà più» (p. 132).

«Il senso della morte in Occidente è permanente» (p. 140), rileva Emanuele Severino, anche se con molte variazioni. «La tecnica... ha sostituito Dio come rimedio con cui l’uomo cerca di lenire l’angoscia provocata dalla morte» (p. 143). «Siamo re che si credono mendicanti» (p. 139); «essere re vuol dire: siamo l’eterno apparire dell’eternità di tutte le cose» (p. 156). Per Severino, «l’uomo è eterno, ma crede alla follia che lo dice mortale» (ibidem). Alla domanda della Monti: “Se non è mortale, che cos’è l’uomo?», Severino così risponde: «Noi non siamo semplicemente “superuomini”, siamo superdei. Intendo, cioè, che siamo oltre Dio, perché Dio e la Tecnica, intesi come potenze creatrici, sono soltanto il contenuto di un’illusione. Illusoria è la persuasione di avere la capacità di far diventare essere il niente, e “Dio” e l’“Uomo” e la “Tecnica” questo devono farlo, altrimenti non sarebbero creatori. Il cristianesimo è la convinzione che occorra la potenza di un Salvatore per salvare le cose dal nulla. Ma tutto è già salvo» (pp. 163-164). Nell’eterno apparire degli eterni che è l’uomo, «la morte non è annientamento», bensì «passaggio da uno spettacolo dove gli eterni costituiscono ciò che chiamiamo “vita” allo spettacolo degli eterni che oltrepassano l’alienazione del vivere» (p. 151).

Daniela Monti - che ha peraltro rischiato di morire annegando in mare mentre scriveva questo libro - è riuscita nell’intento pregevole di avvicinare e sensibilizzare i lettori sul senso e sul mistero della morte nell’epoca della tecnica, con un linguaggio chiaro, coinvolgente e non eccessivamente specialistico, capace di abbracciare prospettive di pensiero anche conflittuali ma vitali, al fine di elaborare «una nuova teoria della morte», una teoria che sappia contemperare le promesse della medicina e l’esigenza di ridare dignità ad una vecchiaia sempre più lunga e incerta, e dunque alla «morte moderna, che la scienza ha convertito da acuta in cronica» (Introduzione, p. VI).

Monti, Daniela (a cura di), Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Giovanni Reale, Aldo Schiavone, Emanuele Severino, Vito Mancuso. Che cosa vuol dire morire. Sei grandi filosofi di fronte all’ultima domanda.