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Re Tarquinio e il divino bastardo

di Clara Tesei - 21/09/2010


Di Andrea Carandini si potrebbe aprire un fascicolo lungo come Via del Corso. Storico, archeologo, scopritore delle mura del Palatino e  del santuario di Vesta risalenti all’VIII secolo a. c., conosce Roma come le sue tasche. Fu allievo dell’altro mostro sacro Ranuccio Bianchi Bandinelli. Tra i suoi libri, La nascita di Roma, Archeologia del mito, Remo e Romolo, Roma. Il primo giorno e Archeologia classica (Einaudi 2009). Nel 2009 è stato eletto Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Un genio, un maestro. Tutto e di più.

Quest’anno ha pubblicato per la Rizzoli un volume dedicato ad un enigma della storia di Roma. Sintesi: «578 A.C una congiura di aristocratici uccide Tarquinio Prisco, quinto re di Roma. Sua moglie, la regina Tanaquil, convince il popolo che il re non è morto ma giace ferito, e che le sue funzioni saranno rette da Servio Tullio. Ma chi è veramente quest’uomo che avrà presto in mano il destino di Roma? Le sue origini, come quelle di Romolo, sono avvolte in un mistero che ha resistito fino ai giorni nostri. Nato da una serva, Servio è per Tanaquil una sorta di figlio adottivo, cresciuto sotto la sua ala protettrice e per Tarquinio è il successore predestinato, a cui ha aperto la strada nominandolo comandante dell’esercito. È il “divino bastardo”, un illegittimo dalla natura prodigiosa. Carandini ripercorre le tappe della sua ascesa, indagando storia e mito nelle fonti antiche e nell’affresco di una tomba di Vulci, che svela l’enigma di questo primo tiranno di Roma, riformatore e anticipatore della Repubblica. È la storia di un re nato servo che, contrastando i privilegi dei patrizi, apre la strada alle grandi riforme grazie alle quali Roma diventa una grande città e una potenza nel Mediterraneo». Punto e fine della sintesi. Ed inizio della storia.

Della grande storia di Roma, del suo popolo immenso ed illuminato, variegato nelle razze e nelle culture. Di un popolo che non ha avuto paura di essere popolo, appunto, sovrano a sé stesso ed alle stesse divinità. Un popolo fatto di carne, sangue, vizi e virtù, violenza e spietatezza. Di cantori che hanno voluto narrare e trasmettere in eredità. Ed è proprio questa l’eredità che Carandini ha saputo accogliere, fare sua e trasmettere a sua volta. In una narrazione, rapida e fluida.

«Se in questo fare l’archeologo perverrà ad attrarre i lettori, – dice Carandini – saprà trascinarli nei meandri dell’arcaismo e riuscirà a coinvolgerli nella ricostruzione e nella narrazione di un passato remoto, avrà superato la prova: infondere al sapere umanità, che è il primo passo per invitare a fare, in un secondo momento, letture filologiche e critiche».

E tornare così ai classici, troppo spesso amati ma dimenticati. Troppo spesso ed inutilmente odiati e maltrattati. Ma da sempre sale della vita e della conoscenza. E perché no della scienza e della loro di tutti figlia la fantascienza.