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Così l’Italia può finire nel mirino delle agenzie di rating

di Mauro Bottarelli - 23/09/2010




Dagli Usa non arrivano buone notizie, purtroppo. Sono infatti oltre 400 i fondi investimento che hanno chiuso i battenti, da inizio anno sono fallite 125 banche e, soprattutto, è ormai al suo zenit la fuga di massa dei risparmiatori dai fondi azionari: l’americano medio ha sempre meno voglia di comprare azioni. Difficile dargli torto.

Tanto più che a detta di David Greenlaw di Morgan Stanley la Fed sarebbe in procinto di dar vita a una nuova operazione di quantitative easing, denominata “shock and awe”, da 2 miliardi di dollari, ipotesi che vedrebbe i rendimenti Treasuries a 10 anni calare di 50 punti base al 2,2%. Cosa otterrebbe con questa mossa la Fed? La crescita del Pil sarebbe dello 0,3% in più nel 2011 e dello 0,4% in più nel 2012, il tasso di disoccupazione scenderebbe di uno 0,3% rispetto alle previsioni nel 2011 e dello 0,5% nel 2012, ovvero scenderebbe dal 9,6% al 9,1%. Un brodino, a carissimo prezzo.

A Goldman Sachs non hanno dubbi, per raddrizzare la situazione statunitense servirebbe una politica di quantitative easing da 30 miliardi di dollari, non da 2, visto il livello di distruzione del benessere generato dal crash della proprietà e dalla ferocia del deleveraging del debito che ancora deve arrivare. Che fare, quindi? Goldman Sachs non ci mette becco, soltanto consiglia ai suoi migliori clienti di stare lunghi sulla sterlina e short sulla divisa australiana e neozelandese come principale investimento sul valutario. Il dollaro? Occorre attendere e vedere se i sospetti cinesi diverranno realtà, ovvero l’intenzione Usa di andare in default sul suo debito esterno attraverso il debasement.

Eh già, il problema infatti è che quando l’America va in difficoltà prende le contromosse e non va tanto per il sottile. Come spiegare, ad esempio, i rumors riguardo un presunto intervento d’urgenza del Fmi che sul finire della scorsa settimana ha visto spreads e cds irlandesi schizzare a livelli record? Era successo qualcosa di strano a Dublino? No, le liabilities irlandesi erano sempre le stesse, gravi ma non sull’orlo del tracollo: certo, Anglo Irish Bank rappresenta una grana pesante, ma alla fine l’ipotesi di divisione in due con creazione di bad bank dovrebbe andare in porto. Chi mette in giro, quindi, queste voci?

Qualche idea io ce l’avrei, le società di rating e le grandi banche detentrici di obbligazioni sovrane: in questo caso, Barclays e Citigroup. Guarda caso, queste voci sono saltate fuori proprio alla vigilia dell’asta di bonds irlandesi per 1,5 miliardi di euro che si è tenuta ieri a Dublino, l’ennesimo successo con i 500 milioni di quadriennali capaci di un rendimento del 4,767% (richieste per oltre 2,4 miliardi di euro) e il milione di bond a 8 anni con un rendimento del 6,023% (richieste per 2,3 miliardi di euro): quando si parla di tempismo, visto che i rendimenti sono saliti di oltre l’1% cento rispetto all’asta precedente... In realtà, si chiama terrorismo finanziario e, vi assicuro, è in grado di fare più danni di Al Qaeda senza dover sparare nemmeno un proiettile.

Venerdì scorso, poi, un’altra strana coincidenza. Il quotidiano portoghese “Diario de Noticias” citava tre ex ministri delle Finanze, secondo cui il paese potrebbe presto ricorrere a un aiuto da parte del Fondo Monetario Internazionale. Alé, proprio quello che ci voleva! D’altronde, il Portogallo a metà degli anni Novanta era un creditore estero netto, mentre l’adesione all’euro lo ha trasformato in un debitore netto per un ammontare pari al 109% del Pil: quando tagli i tassi di interesse dal 16% al 3%, certe cose accadono!

Comunque, l’effetto sperato è stato sortito: il rendimento del bond decennale sul debito portoghese è salito al 6,15%, lo stesso livello della crisi europea del maggio scorso prima che fosse posto in essere il piano di salvataggio. Antonio de Sousa, capo dell’Abi portoghese, ha detto chiaramente che i suoi membri sono in guai seri: gli istituti non riescono a raccogliere fondi all’estero, rimangono estremamente fragili e semplicemente non hanno più nulla da prestare se non i returns del capitale straniero. Così non si va avanti, visto che queste banche non possono sopravvivere solo con i risparmi nazionali, dipendono infatti dal finanziamento estero per coprire il 40% degli assets: venerdì il presidente Cavaco Silva ha avuto un incontro urgente con il governatore della Banca Centrale, il quale ha confermato alle istituzioni che i finanziamenti globali si stanno prosciugando.

Immediatamente, il governo ha trovato una base di principio per il budget 2011, sperando di evitare tagli e ottenendo una diminuzione del deficit dal 9,3% del Pil nel 2009 al 7,3%: prima vittima, il progetto di alta velocità ferroviaria con Madrid che verrà messo in cassetto. Basterà? Il debito combinato pubblico e privato ha toccato il 325% del Pil (contro il 247% della Grecia) e la produttiva lusitana è al 64% della media europea: una situazione ideale per chi vuole speculare, mettendo in giro voci di fatto senza un fondamento reale.

Il problema c’è ed è serio, ma qualcuno lo sta facendo artatamente divenire irrisolvibile. Parliamoci chiaro: il Fondo Monetario Internazionale è diventato di fatto una fonte di incoerenza totale, un motore di azzardo morale. Ad agosto ha abolito il credit ceiling e creato un nuovo veicolo per creare debito fresco per Stati che avevano bisogno di questa mossa come di un colpo di pistola alla tempia. L’unica soluzione per gli orfanelli dell’eurozona è seguire l’esempio dei Brady Bond in America Latina negli anni Ottanta, obbligando i creditori a condividere i guai e garantendo così una via d’uscita ai debitori.

Non a caso, mentre qualcuno semina il panico, qualcun’altro ammette che il peggio è passato e che i piani di austerity saranno sufficienti: Goldman Sachs, Hsbc e Societe Generale, infatti, invitano a comprare securities greche. Il problema è che l’eurozona ha creato un mostro, un Leviatano che se permetterà a Grecia, Portogallo e Irlanda di ristrutturare il loro debito, rischia di contagiare la Spagna e da qui l’Italia. Qualcosa in Europa si sta rompendo ed è esattamente ciò che vogliono gli strati intermedi dell’amministrazione Usa, precisamente la componente più conservatrice del Dipartimento di Stato. Non è un caso, infatti, che nel silenzio totale l’ex ministro delle Finanze britannico, Alistair Darling, abbia lanciato un attacco senza precedenti contro la Germania, colpevole a suo dire «di aver salvato la Germania creando così un danno permanente all’euro».

Parlando alla Konigswinter Conference, Darling ha chiaramente detto al ministro Rainer Bruederle che «la Germania ha completamente fallito nella sua missione di responsabilità come leader dell’eurozona. La riluttanza verso un intervento rapido avrà conseguenze per il futuro del blocco politico europeo». E non depone a favore di una partnership felice nemmeno il duro monito della Fsa, l’ente regolatore della City, verso l’Ue: non pensiate di poter mettere il becco su quanto accade a Londra attraverso la nuova legislazione sui derivati. Insomma, la capitale britannica ci tiene alle proprie dark pools e visto che, calcoli alla mano, Basilea 3 faciliterà la vita alle grandi banche, potete ben capire quale futuro ci attende: con gli istituti mondiali ancora strapieni di carta straccia, c’è poco da parlare di aumento della ratio di core tier 1, dilazionata com’è nel tempo, poi...

Una cosa è certa: la forte domanda da parte degli investitori per junk bonds ha fatto salire il prezzo medio per questo debito corporate ai livelli del giugno 2007: l’indice Bank of America Merrill Lynch, utilizzato da molti operatori per tracciare il mercato dei junk bonds - ovvero obbligazioni vendute da aziende con rating del credito sotto il grado di investimento - è salito la scorsa settimana sopra quota 100 per la prima volta dall’inizio del credit crunch. Un dato che, di fatto, dice una cosa sola: mediamente, quei bonds verranno ripagati in pieno. «Molto denaro sta entrando nel settore, soprattutto per la riluttanza degli investitori verso l’azionario. Quasi tutti sono certi che dovremo affrontare una crescita lenta e non un boom dell’economia», dichiara Martin Fridson, analista del credito globale a BNP Paribas Asset Management.

Dealogic, azienda che fornisce dati del settore, ha reso noto che i junk bonds venduti finora negli Usa dall’inizio di quest’anno hanno toccato i 168 miliardi di dollari la scorsa settimana: lo scorso anno, da gennaio a dicembre, si arrivò a 164 miliardi di dollari e fu definito un risultato record. Di record, invece, c’è la quotazione del dollaro contro l’euro, la più bassa da cinque settimane a questa parte: Oltreoceano si fregano le mani, la guerra alla Cina passa anche dall’utilizzo dell’Europa come arma. Siamo una provincia dell’impero e sempre lo resteremo, purtroppo. Il mondo, ormai, va così. Nelle sale trading si lavora due ore al giorno, la prima e l’ultima di contrattazione: così facendo, concentrando nei punti focali della giornate l’attività, le grandi aziende cercano di far segnare ai listini ciò che vogliono loro. Insomma, artificiosità totale.

Proprio per questo nella City ci si concentra su altro: esattamente una miniera di rame nella Repubblica Democratica de Congo, il cui sequestro da parte delle autorità del paese (171mo su un totale di 180 a livello mondiale per quanto riguardo la lotta alla corruzione) ha scatenato una guerra di opzioni tra la ENRC (Eurasian Natural Resources Corporation) e First Quantum, quest’ultima in partnership con IFC, il ramo della Banca Mondiale dedicato alle infrastrutture e la IDC, di fatto un fondo sovrano sudafricano. Una battaglia titanica, cominciata nell’estate del 2007, per mettere le mani su una delle commodities maggiormente attraenti e produttrici di profitti al mondo, una guerra per la conquista delle risorse naturali e la terra: come certi calciatori, il governo aveva raggiunto accordi di cessioni quota con almeno quattro diverse entità e ora, trovandosi nei guai, sequestra la miniera in attesa di mosse da parte delle grandi corporation.

È questo il grande business, le risorse naturali, la terra, l’acqua. Tutto il resto è solo parte di un enorme gioco speculativo che vede l’Europa nel ruolo di pallina, mentre Usa e Cina giocano a ping-pong: i rischi di questo gioco e dell’immobilismo Ue sono gravissimi, meglio metterselo in testa. Gli attacchi proseguiranno e non si sa per quanto Portogallo e Irlanda potranno reggere prima di crollare e trascinare con sé Spagna e Italia (la Grecia beneficia di una sorta di assicurazione sulla vita garantita dalle grandi banche d’affari cariche di bonds e securities e da Germania e Francia, paesi che non possono permettersi ulteriori perdite per le loro banche esposte nella penisola ellenica: non a caso l’asta di ieri di bond trimestrali ha visto i rendimenti scendere rispetto alla precedente), la quale, la prossima settimana, con ogni probabilità si ritroverà senza un governo dopo il voto di fiducia alla Camera.

Altra opzione molto gradita, quest’ultima, al Dipartimento di Stato, impegnato alacremente in questa opzione in stile 1992 per garantire al Belpaese un governo tecnocratico gradito alle elites conservatrici d’Oltremanica. La centrale operativa di questa operazione è sempre la stessa, ragionate bene su nomi e mosse dei protagonisti di questa estate torrida e capirete da soli quale sia (non pensate a Gianfranco Fini, la sua è stata soltanto la dinamo di un meccanismo più grande).

Non sarebbe la prima volta, potrebbe essere l’ultima. Le società di rating, emanazione finanziaria del governo parallelo Usa, sono pronte al nostro downgrade quando la crisi debito sovrano Ue entrerà nella sua fase più critica il mese prossimo: per fermarlo, c’è un prezzo politico da pagare. Ora.

P.S. Vi aspettavate un mio giudizio sulle dimissioni di Alessandro Profumo? Per carità di patria e per il bene di questo quotidiano online lo tengo per me.