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Ma quale pericolo rom? Il vero problema è il debito pubblico

di Miro Renzaglia - 23/09/2010

Fonte: glialtrionline


Nelle stesse ore in cui Bankitalia forniva gli allarmanti dati sul debito pubblico del nostro Paese, l’attenzione dei media e della politica  era puntata sul “pericolo rom”. Pericolo inesistente e inventato appositamente per creare un capro espiatorio. E un diversivo. Basta far caso alle cifre italiane: 170mila rom presenti su territorio, di cui il 50% in regolare possesso di cittadinanza. Dei 170mila, i domiciliati nei campi, nella stragrande maggioranza autorizzati, sono calcolati in una somma oscillante fra i 20 e i 40mila: gli altri vivono in appartamenti come i nostri. Possono essere questi numeri a destare il massimo allerta mass-mediatico? Con tutta evidenza, no. E allora? Allora, sorge il sospetto che esista una volontà precisa di spostare l’attenzione da una crisi sempre più profonda, economica sociale politica, come quelle che vivono Italia e Francia (l’asse Sarkozy-Berlusconi) inventandosi “un” problema. Anzi: “il” problema per antonomasia: quello del nemico in casa. E’ un escamotage che funziona da millenni e che torna sempre utile. La stessa cosa, però, non accade nella Germania di Angela Merkel, dove l’atteggiamento garantista assunto dalla Cancelliera nei confronti dei rom va di pari passo con la capacità di affrontare la crisi senza affamare la popolazione e indebolire le fasce più deboli, sottraendo diritti sociali e civili. Niente a che vedere, insomma, con quanto capita, guarda un po’ il solito caso, da noi che registriamo i fatti della Fiat a Pomigliano d’Arco.

Dicevamo dei dati di Bankitalia, sottovalutati da quasi tutti i giornali italiani e, quel che è peggio, dalla discussione politica.  Il 13 settembre scorso, Draghi ha fatto sapere che il debito pubblico italiano è salito al record assoluto di 1.838,296 miliardi di euro: segnando un più 4,7% rispetto allo stesso mese del 2009. Come è a tutti noto, il debito pubblico di uno stato è contratto verso terzi (piccoli risparmiatori ma, soprattutto: enti, banche e ad altri Stati attraverso la cessione di titoli Bot, Cct, etc…) con lo scopo di sostenere la spesa utile a far funzionare il Paese. Su questi titoli paghiamo attualmente interessi annui di circa 70 miliardi di euro. E già sarebbe un successo se riuscissimo a non far lievitare il capitale debitorio. Ma come abbiamo appreso, non è così.

E’ altresì noto che, per pagare almeno gli interessi, l’unica fonte è il prelievo tributario dalle tasche del cittadino (oddio! un altro sistema sarebbe quello della cessione di beni pubblici: ma se siamo arrivati a privatizzare pure l’acqua, vuol dire che abbiamo raschiato il fondo). Ora, lo stesso rapporto di Bankitalia che rileva l’aumento del debito ci rende edotti che le entrate fiscali, nei primi sette mesi dell’anno in corso, sono state pari a 210,374 miliardi di euro: 7,411 miliardi in meno rispetto al periodo gennaio-luglio del 2009. E, attenzione: non calano perché il prelievo fiscale sui lavoratori è sceso (anzi…) calano perché c’è stato un «minor versamento a saldo registrato a febbraio 2010 dell’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi da capitale». E non lo dice un marxista-leninista: lo affermano, in un sussulto di sincerità,  il Dipartimento delle Finanze e la Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia.

Adesso, non serve un premio nobel di economia per capire che se il debito pubblico aumenta e le entrate fiscali scendono, il Paese rischia di chiudere per fallimento.  E buon per noi che l’ultima asta di titoli di stato emessi dal Ministero del Tesoro,  il 10 settembre scorso, ha fatto entrare nelle casse dello stato 10 miliardi e mezzo di euro. Ma è un “buon per noi” molto relativo ai tempi brevi e ad alto rischio sugli effetti che potrebbero innescarsi da qui a non molto. Gioverà appena ricordare, infatti, che il recente crack greco è stato determinato proprio dalle speculazioni finanziarie sui suoi titoli di stato: andate deserte alcune aste, per incentivare la domanda la repubblica ellena è stata costretta ad alzare gli indici di rendimento al 10% per quelli a due anni e all’8,80%  per quelli a dieci, col risultato di diventare insolvente e, quindi, fallire. A poco può consolarci che gli indici di rendimento dei nostri titoli siano pari allo 0,683% per i trimestrali e all’1,428%, per quelli di un anno: basterà che una o due aste vadano deserte per cadere dentro lo stesso identico circolo vizioso del gioco al rialzo degli speculatori che ha devastato la Grecia.

Il problema è che su certe questioni la maggioranza di Governo ha tutto l’interesse a glissare. Quello che non si capisce è come faccia l’opposizione a non mettere la questione al centro del dibattito, lasciando che a sottolineare la strana dimenticanza della voce “economia” fra i fatidici 5 punti della ripresa politica sia stato il presidente della Camera Gianfranco Fini, nel discorso di Mirabello. Ed è già qualcosa, anche se le sue indicazioni restano tutte iscritte all’interno di quello status quo inossidabile che più liberista di così non si può. Una logica che Edmondo Berselli, deceduto ad aprile, lasciandoci un pamphlet da pochi giorni in libreria L’economia giusta (Einaudi) definisce: «pensiero unico monetarista». Il pensiero, cioè, che un mercato finanziario da lupi mannari lasciato libero di agire indisturbato ci avrebbe arricchiti tutti.

Che le cose non siano andate esattamente come era negli auspici dei filo-monetaristi,  la storia di questi ultimi anni ne dà buona testimonianza. L’euro non ha creato nessuna stabilità (vedi di nuovo il caso Grecia), il dollaro e la sterlina stanno ancora pagando e chissà fino a quando continueranno a pagare e a far pagare il crack dei mutui subprime del 2008, la disoccupazione è in costante aumento in tutto il mondo occidentale. Di contrasto, gli unici che continueranno a godere di finanziamento illimitato saranno, per esplicita promessa del Presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, fatta il 3 settembre, gli istituti di credito. I quali  ricevono denaro dalla Bce all’1% di interesse (il più basso di sempre da quando c’è l’euro) e lo spacciano al dettaglio ad un tasso che varia, secondo tipologia, dal 4 al 20 per cento (provate ad accedere a quella opzione bancaria che si chiama “scoperto” e ve ne accorgerete). E se questa non è “usura”, allora spiegatemi, per favore, cos’è l’usura…

Sì, d’accordo – può essere l’obiezione – ma non abbiamo alternative. Oddio! non è proprio così. E non bisogna neanche andarla a cercare tanto lontano un’alternativa plausibile,  o ipotizzare  chissà quali bagni di sangue per sperimentare qualcosa di diverso da questo tran-tran da banco dei pegni globale e senza (apparente) fine. Basta guardare cosa avviene in Germania e notare come il suo modello di rapporto stato-economia sovverta il primato della finanza a vantaggio di una concezione partecipativa e paritaria fra capitale e lavoro. Storicamente, è definito “modello renano”. Di recente, è invalso l’uso di chiamarlo “modello wolkswagen”. Si tratta, in soldoni spiccioli, di lasciare il mercato libero, sì, ma dentro le regole stabilite dallo stato. E di ricondurre l’economia al servizio della società rendendo partecipi i lavoratori alle sorti e agli utili dell’impresa produttiva. E’ – a pensarci bene – la tradizione di economica sociale e partecipativa dell’Europa contro  quella turbo-capitalista (finanziaria e monetarista) del mondo anglosassone. Incarnato appena ieri dal reagan-tatcherismo e, oggi, dalla tigre cinese.

E non si tratterebbe nemmeno – pensate un po’ – di architettare chissà quali riforme. Basterebbe realizzare, tanto per gradire, una seria legislazione applicativa dell’art. 46 della Costituzione della Repubblica italiana, a tutt’oggi disattesa, che recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Non è una chiave di volta augurale di chissà quali miracoli. Anzi, come avverte Edmondo Berselli nel suo pamphlet, si tratta di mettere in conto la possibilità di  «avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri». Non vi sembra una prospettiva allettante? Può darsi. Ma essere poveri è un conto, e non è detto che la povertà sia sempre un disvalore. Essere schiavi di chi possiede il potere della moneta, fino a decidere che cosa dobbiamo consumare per mantenere in vita a qualunque costo (disoccupazione, flessibilità, precariato, sfruttamento immigrativo…) un sistema che favorisce solo qualche centinaio di fanatici, di incoscienti, di canaglie che hanno come unico interesse il loro, e solo il loro, super-profitto, è tutt’altro. Ed è peggio…

Ecco: di tutto questo, un paese sotto lo schiaffo di una crisi economica senza precedenti avrebbe il dovere (dico: dovere) di dibattere. Vi sembra poco eccitante discutere di una materia arida come l’economia? Ah! vabbeh… Allora continuiamo a sollazzarci con il pericolo rom. O con la scissione di Salvatore “vasa-vasa” Cuffaro dall’Udc, per gli alti e nobili intenti di garantire una maggioranza purchessia a questo governo. O di quella messa in moto da Walter Veltroni con il suo listone dei 75 attori in cerca d’autore. Hai visto mai?