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Lampi di design

di Valerio Zecchini - 23/09/2010

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Una grande mostra antologica al Mambo di Bologna ripercorre l’avventura intellettuale e imprenditoriale di Dino Gavina, padre del design italiano scomparso tre anni fa. Architetti, designer e stilisti di moda raramente riescono a conquistarsi la qualifica di “artista”, ma chi conosce l’opera di questo personaggio neo rinascimentale sa che si tratta di un’attribuzione scontata.
L’impegno di Gavina per il rinnovamento estetico del prodotto industriale (sia come designer sia come imprenditore) inizia negli anni ’50, quando crea nella sua Bologna un fulcro di talenti (in particolare Carlo Scarpa, Pier Giacomo Castiglioni e successivamente Luigi Caccia Dominioni e Kazuhide Takahama) che ben presto si incroceranno con l’effervescenza creativa milanese di quel periodo; all’epoca non esisteva ancora il termine “designer”: si conoscevano solo le esperienze di Marco Zanuso che aveva utilizzato già allora, in modo magistrale, la “gommapiuma”. Ma proprio nella Milano di quegli anni nasce quel design che tanto prestigio darà all’Italia nei decenni successivi – e Gavina fu appunto uno dei principali artefici di questa nascita. “Se non si conoscono la letteratura, le arti figurative e magari un po’ di musica – dichiarò più volte Gavina – non si può comprendere e progettare un mobile, che è l’espressione del tempo in cui è stato realizzato”.
La sua volontà di rendere eccezionale la normalità, il suo amore per la bellezza e per la qualità degli oggetti che la vita quotidiana rende necessari e, dunque, degni della massima attenzione, ha ascendenti importanti nella storia dell’arte moderna e in particolare delle avanguardie storiche. Il preraffaellita William Morris nel 1861 fondò una società di operai delle belle arti specializzata in “pittura, scultura, arredamento e acciai”, ma di fatto le sue principali produzioni furono di ricami e vetri colorati; in seguito ottenne numerose committenze per la produzione di arredi e decorazioni di genere sia secolare che ecclesiastico. Ma fu con le avanguardie di inizio novecento che si intensificò l’interesse per le arti applicate (o artigianato artistico che dir si voglia), anche se va detto che spesso gli artisti di questi movimenti si indirizzarono verso la produzione di oggetti di uso comune a causa dell’incomprensione del grande pubblico nei confronti delle loro opere “maggiori” (pittura, scultura, letteratura); oppure, come nel caso del suprematista russo Malevic, a causa della censura. La censura staliniana che proibiva il sublime misticismo astratto dei suoi quadri lo indusse infatti ad esprimere il suo talento nella creazione di singolari caffettiere e bellissime posate. I futuristi italiani da subito si batterono per la pari dignità di tutte le discipline artistiche, inclusa la cucina, ma fu soprattutto il secondo futurismo degli anni ’30 che si impegnò a fondo nel settore delle arti applicate, specialmente con l’oggettistica presentata da Balla e Depero alle quadriennali di Roma.
Nello stesso periodo, ancora Depero con i suoi leggendari panciotti multicolori e altri futuristi come RAM e Thayaht (l’inventore delle tuta) si affermavano nel mondo della moda. E che dire degli oggetti animati (poltrone, sedie, divani) protagonisti del teatro sintetico futurista di Marinetti, Corra, Ginanni?
L’architetto catalano Antoni Gaudì fu poi colui che probabilmente si spinse agli estremi limiti dell’estetismo globale: forte del mecenatismo della ricca borghesia catalana, agli inizi del novecento  disseminò la Spagna e in particolare Barcellona di meravigliosi edifici di stile cosiddetto “modernista”, ma che sarebbe più corretto definire “surrealista/neo medievale”: un’opera grandiosa che comprende torri, monasteri, campanili, piccoli castelli, ville e  palazzi  e l’arredamento di tutti gli interni, parchi pubblici e arredi urbani e la cattedrale ancora oggi incompiuta (Sagrada Familia).
Gavina si inserisce con piena consapevolezza in questa “tradizione del moderno” e spesso la cita: è ad esempio presente in  mostra il paravento eseguito su progetto originale di Giacomo Balla del 1916 (fa parte di una serie di paraventi che intendeva riportava in auge questo “elemento decoratore e separatore, la cui funzionalità e poesia corrono di pari passo”). Oppure si può ammirare la leggendaria poltrona “Wassily”di Marcel Breuer, maestro del Bauhaus: progettata nel 1925, viene immessa nella produzione di serie della ditta Gavina nel 1962 – la divulgazione del razionalismo storico quarant’anni dopo! Queste operazioni di carattere storico sono comunque ispirate al massimo rigore formale: Gavina porta in produzione i prototipi del  Bauhaus perché i mobili di Breuer erano originariamente progettati per la riproduzione in serie, ma in seguito rifiuterà di fare altrettanto per quelli di Le Corbusier perché inadeguati a sostenere quel punto di vista produttivo – i pezzi unici devono rimanere pezzi unici.
Ciò che però più interessa il maestro bolognese sono le avanguardie a lui contemporanee: negli anni sessanta i negozi Gavina di Roma, Bologna, Milano ospiteranno mostre dei più importanti artisti dell’epoca che spesso diventeranno suoi amici, diretti collaboratori e beneficiari del suo mecenatismo - tra i tanti ricordiamo Duchamp, Fontana, Man Ray. Il suo obiettivo costante, tradurre nelle metodologie produttive del design i nutrimenti visivi dell’arte. E l’arte più consona a tale obiettivo non poteva che essere l’”objet trouvé” (ready made) di Marcel Duchamp, del quale lo attrae soprattutto la lezione dello “spaesamento” e dell’appropriazione degli oggetti d’uso comune attraverso una nuova funzione. Questa è la molla di varie intuizioni che gli permettono di vedere in modo diverso le cose che ci circondano, le forme che plasmano il vivere quotidiano, la funzione d’uso collegata al piacere estetico (per esempio, un cavalletto da falegname che diventa uno sgabello).
Essendosi imposto la missione di stilizzare ogni aspetto della vita, Dino Gavina non poteva non subire l’influenza della cultura tradizionale giapponese; l’incontro con Kazuhide Takahama, nel 1957, alla XI triennale di Milano è caratterizzato da una immediata e reciproca sintonia - da allora in poi Takahama diventerà uno dei cardini creativi della ditta, l’opportuno innesto di un minimalismo zen che va a contenere il debordante estro italiano, avendo come risultato l’armonica eleganza che contraddistingue tutta la produzione Gavina.
La mostra, il cui ottimo allestimento è a cura di Elena Brigi e di Daniele Vincenzi, già collaboratore del maestro, ripercorre le principali collezioni: “Ultrarazionale” (1968), con la quale si superano audacemente gli ormai angusti limiti del razionalismo a vantaggio di una maggior ricchezza poetica; “ Ultramobile” (1971), in cui trova piena realizzazione il progetto duchampiano prima accennato: l’opera d’arte (Man Ray, Duchamp, Magritte, Meret Oppenheim) diventa “funzionale” all’arredamento – in ogni modello la propria imprescindibile funzione è nascosta, celata in un gioco enigmatico, che adatta in modo sorprendente all’uso quotidiano l’oggetto surrealista; la già citata sezione dei “paraventi”, di cui si invoca il ritorno nelle case perchè modificano lo spazio e decorano come un quadro (strepitoso quello ispirato a Pollock); “Metamobile” (1974), proposta minimalista di mobili di estrema semplicità a basso costo, alcuni fatti anche con materiali riciclati, una sorta di stile Ikea ante litteram; la rivoluzionarie lampade “Flos” (1961) e “Sirrah”(1974), e infine “Paradiso terrestre” (1983) collezione di arredi urbani che nasce dal desiderio di intervenire sul disastro totale, il degrado in cui sono cadute le nostre città, il massacro dell’eredità urbana in nome di una malintesa modernità e di un falso progresso. La collezione si propone di produrre in serie manufatti da contemplare e usare, nella speranza di offrire un piccolo contributo di qualità produce oggetti per il giardino, l’ambiente, la città. Vale la pena soffermarsi per un po’ sul meraviglioso “Altare della buona fortuna”, ispirato a Goethe, sorta di piccolo monumento al mistero della vita. Il successo commerciale di diversi pezzi di queste collezioni ha permesso a Dino Gavina di raggiungere l’obiettivo che per le avanguardie storiche era rimasto un’utopia: avvicinare le masse all’arte, rendere la bellezza alla portata dei più. quest’uomo convinto che l “autenticamente moderno è ciò che è degno di trasformarsi in antico”, per il quale “l’esistenza è sorpresa, l’avvenire è avventura”, era soprattutto un lavoratore estetico, che si occupava prevalentemente della vita quotidiana pur essendo mondo di ogni grigio quotidianismo; è stato quindi un protagonista della scena del paesaggio domestico, un esteta dell’intimità. Il suo lavoro non era solamente quello dell’industriale, come non era solamente quello del designer o quello dell’organizzatore culturale: può forse essere definito come il “catalizzatore” di tutte quelle dimensioni, sempre con una finalità positiva e contemporaneamente provocatoria. Non era perciò un manager, né un “tradizionale” capitano d’industria: qualunque fosse il potenziale vantaggio economico di una operazione, questa non sarebbe mai iniziata se estranea a precisi valori etici ed estetici. Con questa mostra (che comprende anche una piccola esposizione collaterale nella biblioteca di sala borsa e un ciclo di otto conferenze) Dino Gavina riceve un doveroso tributo dalla sua città natale a lungo atteso. Le istituzioni locali hanno infatti misconosciuto per decenni il suo genio. Gli permisero alcuni anni fa di organizzare, ultima testimonianza del suo mecenatismo eterodosso, una collettiva di artisti di qualità esclusi dal sistema dell’arte “che conta”; un grave errore di valutazione probabilmente dovuto ad una vetusta, faziosa idiosincrasia per il connubio artista/imprenditore, che nella sua persona trovò invece una mirabile sintesi.