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La bellezza degli incontri felici non è frutto del caso, ma di un ordine superiore

di Francesco Lamendola - 26/09/2010

 

 

DEDICATO AD ANNA L., ENTUSIASTA LETTRICE E ANIMA GENEROSA

Abituati al disordine nelle relazioni umane, facciamo fatica ad ammettere che gli incontri felici siano qualcosa d'altro che il frutto del caso.
Poiché ci sembra che la disarmonia sia la regola, tendiamo ad attribuire a un caso fortunato le cose buone che la vita talvolta ci offre; né ci soffermiamo a considerare che ciò che conta non è avere un colpo di fortuna, ma essere degni di essa, vale a dire essere degni di conservare ciò che la vita ci ha fatto incontrare.
Le cose, le situazioni e le persone non ci vengono incontro per caso, ma in base ad un ordine ben preciso, che è frutto, da un lato, di una forza superiore all'umana; dall'altro, dell'insieme dei nostri stessi atteggiamenti, delle nostre azioni e dei nostri stessi pensieri.
Sì: anche per il solo fatto di pensare, di provare emozioni di un certo tipo anziché di un altro, noi attiriamo le cose verso di noi: quelle positive e quelle negative, a seconda dei casi; ma niente affatto casualmente, bensì in base ad una logica ineccepibile.
"Con il nostro pensiero, noi creiamo giorno per giorno il mondo che ci circonda": così scriveva Marion Zimmer Bradley nel suo libro più famoso, "Le nebbie di Avalon"; ed è una verità chiarissima per chi sia abbastanza maturo da capirla, mentre rimane oscura e incomprensibile a chi rimanga ostinatamente prigioniero di un atteggiamento mentale grettamente razionalista e materialista.
La conseguenza di ciò, importantissima, è che esiste una ragione per tutto quello che accade; che nulla è privo di senso, nulla è frutto del caso.
Le cose belle ci vengono incontro quando noi ne siamo degni, e quelle brutte quando ce le siamo meritate: questo è il nocciolo della questione; questo è il grande segreto della vita dell'anima. Per l'anima pura ed evoluta, non vi sono più cose brutte: essa arriva a ringraziare per ogni cosa, anche per la morte, come fa San Francesco nel "Cantico delle Creature".
In altri termini, il disordine e la disarmonia non sono nelle cose stesse, ma nel nostro sguardo, offuscato e deformato, incapace di vedere con chiarezza e serenità, perché gli fanno velo passioni disordinate come la brama e il timore, oppure l'ignoranza grossolana e la follia di chi non possiede alcuna consapevolezza interiore.
Potremmo spingerci ancora più in là ed affermare, con George Berkeley, che nulla di ciò che appartiene al mondo materiale, esiste realmente in se stesso: tutto ciò che sperimentiamo, lo sperimentiamo nella nostra mente, attraverso le nostre sensazioni, e nulla è al di fuori di esse, di quanto possiamo conoscere e ricevere.
Le cose non possiedono una reale esistenza materiale, ma sono nostre idee: idee di quantità, di forma (qualità primarie), di colore, di odore, di sapore (qualità secondarie); idee della nostra mente, in ogni caso, non oggetti fisici, dei quali nulla sappiamo.
Eppure, se non esistono in quanto tali, fuori di noi, come avviene che noi ne facciamo nondimeno l'esperienza?
La causa delle nostre idee è al di fuori della nostra coscienza, ma non è, né potrebbe essere, di natura materiale; perché, se lo fosse, allora noi non ne sapremmo nulla, esulerebbero completamente dalla nostra sfera di esperienza.
La materia non può causare alcuna idea, perché si tratta di due ordini di realtà totalmente differenti e incomunicabili. Se pure la materia esistesse in sé e per sé, essa non potrebbe mai influenzare la mente e tanto meno essere la causa delle idee di essa: non più di quanto due rette parallele potrebbero incontrarsi e sovrapporsi, beninteso nel contesto della geometria euclidea.
Dunque, non resta che ammettere, per esclusione, che solo un altro spirito può provocare in noi le idee che riferiamo ad un ipotetico "mondo esterno" e ad un ancor più aleatorio mondo di natura materiale.
Non può trattarsi, però, di uno spirito analogo al nostro; perché, se fosse simile a noi, allora non potrebbe essere la causa delle nostre idee, così come noi non possiamo essere la causa delle sue. La mente degli spiriti finiti non ha la possibilità di creare un mondo di idee nella mente altrui: ogni mente finita è limitata al proprio ambito di idee.
Pertanto, sempre per esclusione, si giunge alla conclusione che solo uno Spirito infinito può essere la causa delle nostre idee; e che il cosiddetto mondo materiale non è altro che una realtà "olografica", creata nelle nostre menti affinché noi ci muoviamo COME SE si trattasse di una realtà fisica e oggettiva, onde poter dispiegare in essa il nostro libero arbitrio.
Ora, se il principio ultimo e la causa prima della realtà è lo Spirito infinito, ne deriva necessariamente che la realtà medesima non può essere frutto del caso, non può essere disarmonia e disordine; ma che tale ci appare allorché noi non sappiamo riconoscere la vera natura delle cose, né sappiamo trarre da esse tutto il bene di cui potenzialmente sono portatrici.
Non stiamo semplificando o abbellendo la realtà; il fatto è che, per l'anima poco evoluta e sprofondata nel disordine dell'ignoranza e delle passioni, anche il farmaco diventa un veleno e anche ciò che è in se stesso positivo e suscettibile di innescare un processo virtuoso, agisce invece in senso dannoso e distruttivo.
Perciò, tornando al nostro assunto iniziale, se niente avviene per caso e niente ci interroga invano, ma tutto fa parte di una intenzione benevola che è incommensurabilmente più grande di noi, perché emana da uno Spirito infinito, allora nemmeno gli incontri che facciamo nel corso della vita sono casuali, ma hanno lo scopo preciso di sollecitare in noi le forze positive, capaci di ampliare e arricchire il nostro orizzonte spirituale.
In fondo, tutto si riduce a comprendere che si viene al mondo per amare e non per odiare; per aiutarsi l'un l'altro, e non per tendersi insidie; per sostenersi e confortarsi a vicenda e non per farsi cadere o approfittare delle altrui disgrazie.
Quando si è compreso questo, e lo si è compreso a fondo e con chiarezza, allora tutto diventa logico e quei fatti che ci erano apparsi, in un primo tempo, assolutamente casuali, acquistano invece un profondo significato e ci sollecitano ad aprirci con fiducia alla benevola potenza dell'Essere, diventando docili strumenti della sua azione.
Non si vive per se stessi; non si vive per cercare solo il proprio bene: questo sarebbe impossibile, anche volendolo, perché il bene di ciascuno è collegato a quello di tutti gli altri ed è impensabile uno stato di benessere che si mantenga, per così dire, a discapito del bene altrui, che si stabilisca in mezzo al male degli altri.
Assuefatti ad una mentalità esageratamente individualistica, noi finiamo per credere che si possa costruire la propria felicità restando indifferenti a quella degli altri; che ci si possa realizzare indipendentemente dagli altri e, magari, persino a loro danno: ma questo non è possibile, ed è vero semmai il contrario.
Questa sopravvalutazione del nostro Ego è ormai talmente diffusa, che neppure ci rendiamo conto, sovente, della immoralità delle sue implicazioni pratiche. Diamo per scontato, ad esempio, che per prolungare la vita di pochi esseri umani, sia cosa perfettamente normale e lecita torturare, vivisezionare, prelevare organi da milioni di animali da laboratorio; nemmeno ci sfiora la mente l'idea che, forse, nel nostro atteggiamento possa esservi qualcosa di discutibile o, meno ancora, qualcosa di sbagliato.
Per la stessa ragione, il cosiddetto buongustaio siede a tavola per rimpinzarsi di carne che cuochi solerti hanno preparato per lui, dopo che il macellaio ha scannato un essere vivente per trasformarlo in bistecche destinate al suo palato.
Che l'essere umano sia naturalmente carnivoro e che quella del macellaio e quella del cuoco siano due professioni assolutamente normali, ci sembrano cose ovvie.
Nel suo libro "Penna vagabonda" (Torino, Società Editrice Internazionale, 1967, p. 84), il giornalista e scrittore Virgilio Lilli racconto di un macellaio di Chicago, peraltro buon padre di famiglia e buon cristiano, che se ne andava a messa tutte le domeniche, il quale era capace di uccidere qualcosa come MEZZO MILIONE DI ANIMALI  nel corso dell'anno, guazzando letteralmente nel loro sangue. E concludeva, pensosamente e sobriamente:

"Nonostante l'aria odori di "morgue", attorno a quella fantomatica trattoria; nonostante l'aria, dico, sia gonfia di morte, come altrove potrebbe essere gonfia di sole; ecco la gente che esce dai macelli mangia la bistecca. (Dunque c'è qualcosa di sbagliato, al mondo. Io non sono vegetariano, mi piace la carne, mi piacciono le cosiddette scaloppine, piccate, braciole, cotolette, eccetera; le mangio. E tuttavia dopo una visita ai più grandi mattatoi del mondo, conosciuta una persona che ammazza 480.000 animali all'anno, devo concludere che c'è qualcosa di sbagliato al mondo. In noi, e fuori di noi)."

No, non fuori di noi, ma in noi. C'è di sbagliato, ad esempio, aver visto un simile orrore ed essere rimasto carnivoro: perché bisogna pur avere il coraggio di riconoscere che esiste un chiaro rapporto di consequenzialità logica fra l'essere carnivori e il fatto che vi siano al mondo dei grandi macelli in cui si trasformano animali vivi in bistecche per le nostre tavole.
Non si tratta di criminalizzare chi non è vegetariano o di fare del terrorismo psicologico e morale: si tratta di fare chiarezza, di imparare ad essere onesti con noi stessi, riconoscendo lealmente quali sono le conseguenze delle nostre scelte e dei nostri atti.
Lasciando ora da parte quest'ultimo discorso, che abbiamo introdotto a solo titolo di esempio, gli incontri della nostra vita, sia quelli felici che quelli nefasti, altro non sono che la conseguenza del nostro stile di vita, delle nostre scelte e dei nostri atti.
Di nuovo, non si dica che stiamo semplificando troppo: sappiamo benissimo che una brava persona può imbattersi in un delinquente e viceversa; ma gli incontri della nostra vita, casuali solo in apparenza, quando sono intensi e significativi, interrogano la parte più profonda di noi stessi e ci permettono di portare in luce tutto il bene e tutto il male che vi è al fondo di noi stessi: e si tratta realmente di potenzialità immense.
Resteremmo sbalorditi se potessimo vedere, in condizioni normali, tutta l'immensità del bene e del male di cui siamo potenzialmente capaci, allorché si presentino all'appuntamento con la nostra vita le condizioni adatte; e queste ultime non procedono mai dal caso, ma dalla somma dei nostri pensieri, delle nostre emozioni, delle nostre parole e dei nostri gesti.
Gli incontri felici, pertanto, sono un premio, per così dire, di una vita virtuosa, ossia di un'anima leale con se stessa e con gli altri, capace di guardarsi dentro sino in fondo e generosamente disponibile a rispondere "sì" alla chiamata dell'Essere.
Essi portano luce e serenità nella nostra esistenza, ci rendono più lieve il fardello che dobbiamo portare, ci sussurrano dolci parole di conforto nei momenti di maggiore stanchezza.
Gli incontri infelici, invece, quelli che portano solo delusione, amarezza e rancore, non sono tanto dei "castighi" per un tipo di vita sbagliato, basato sull'egoismo e sulla inconsapevolezza, quanto una preziosa occasione per misurare tutta la falsità della nostra posizione e per cercare in noi stessi la volontà e lo sprone onde rimetterci in cammino sulla strada giusta.
Gli incontri felici sono sempre incontri fra anime; possono essere anche fusione di corpi, ma sempre in una luce di profonda consapevolezza spirituale e, quindi, di mutuo rispetto.
Non sono frequenti, ma bisogna saperli meritare.
Del resto, potrebbero essere anche più numerosi, se solo il nostro sguardo sapesse riconoscerli...