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Il suicidio al tempo della crisi e della rete

di Battista Falconi - 26/09/2010

Che cosa cambia rispetto ai sacrifici rituali ed eroici del passato?

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Possibili spiegazioni di un atto apparentemente incomprensibile


"Dio di misericordia, il tuo bel Paradiso l’hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso”. Cantava così, del suo collega Luigi Tenco, Fabrizio de André, che a quanti si tolgono la vita dedicò alcuni delicatissimi versi.
Da qualche anno, lo iato lamentato da questo cantante, anarchico ma capace di esprimere una sorta di teologia spontanea che toccò il punto più alto ne ‘La buona novella’, è stato richiuso. Ai suicidi, sempre più spesso, la Chiesa concede cerimonia e sepoltura religiose: un moto di pietà che non dispiacerà neppure a quanti lamentano il relativismo ritualistico post-conciliare. È molto più blasfemo di questa deroga l’applauso che ormai sistematicamente accompagna le bare, una scheggia di show che infrange il silenzio e la preghiera, l’unico accompagnamento degno dell’ultimo viaggio.
E poi ha ragione De André: il Dio delle Beatitudini compensa le sofferenze terrene, dunque non potrà che perdonare quanti non sono riusciti a sostenerle, nonostante che, secondo quanto diceva un tempo il catechismo, la disperazione sia il peggiore peccato che l’uomo possa commettere.
Ineffabile anche per chi crede, il mistero del suicidio attanaglia e confonde ancor più chi cerchi di comprenderlo secondo le categorie del pensiero razionale.
Ci hanno provato in tanti. Emile Durkheim, il padre della sociologia, ha scritto pagine fondamentali. Ma persino gli studiosi migliori finiscono per limitarsi a enumerare e catalogare questi moti imperscrutabili del nostro abisso individuale, cercando di collegarli alle condizioni storiche, politiche e culturali che li possono rendere ‘significativi’. Dai bonzi a Jan Palach, da Sylvia Plath a Yukio Mishima, dai kamikaze a Carl Michelstaedter, fino agli odierni fondamentalisti islamici (usiamo il maschile, ma la presenza femminile è molto alta), la storia è piena di morti volontarie che hanno paradossalmente conferito l’immortalità ai loro autori.
Marzio Barbagli, in ‘Congedarsi dal mondo’, descrive a lungo il ‘sati’ con cui le vedove induiste seguivano i mariti sul rogo funebre, assurgendo così al rango di divinità salvifica e sfuggendo a un destino di emarginazione e povertà al quale convenzioni e convinzioni le avrebbero destinate. Per quanto si abbiano notizie di donne costrette a tale sacrificio, la stragrande maggioranza ci si è piegata ‘volontariamente’, rigettando le richieste di recedere loro presentate ritualmente, e questo fino a pochissimi anni fa. Una delle ultimissime a immolarsi è stata una giovane laureata indiana.
Non meno basiti lascia il caso di Edouard Levé, che ha dedicato un libro al suicidio compiuto 25 anni prima (un suo conoscente, mentre si stava recando a una partita di tennis con la moglie, era rientrato in casa sparandosi). Poco dopo aver consegnato il racconto all’editore, lo scrittore si è tolto la vita: un tentativo di ‘spiegazione’ non ha fatto così che aggiungere mistero al mistero. Roberta Tatafiore, invece, ha lasciato del proprio suicidio un diario che è stato pubblicato postumo, ma anche qui del tutto insufficiente a comprendere l’angoscia che si agitava nell’intellettuale femminista.
È impossibile dire ‘chi’ sia un suicida e ‘cosa’ o ‘perché’ lo faccia. Martiri, eroi romantici o ragazzini immaturi? I casi reali sfuggono a qualunque tentativo di classificare l’atto forse più ‘individuale’ che si possa concepire (la morte, del resto, lo è sempre): il nonno che si uccide perché il suo cane ha sbranato la nipotina; il modello giovanissimo, bello e invidiato che getta nella costernazione amici e colleghi del mondo modaiolo milanese e francese; l’anziano che si uccide dopo aver perso tutto al tavolo verde (un classico da feuilleton, ma è accaduto realmente ancora di recente); il generale che si spara durante una perquisizione, dopo essere già stato sottoposto a un’inchiesta per la quale era stato assolto (richiamandoci così alla mente i suicidi di Tangentopoli).
Altri casi, in effetti, pur nella loro assoluta unicità si ripetono con analogie inquietanti. Ad esempio i giovanissimi che utilizzano i social network per annunciare o comunicare la loro decisione: in Italia è accaduto almeno quattro volte negli ultimi mesi, in alcuni casi probabilmente più per lanciare un appello disperato, tanto che a un paio di ragazzi è stata salvata la vita.
Non è andata così, però, con la ragazza parigina che ha innescato con la sua morte un processo di emulazione tra alcuni coetanei, fortunatamente individuati prima che ce la facessero a imitarla. Anche una 16enne di Rovigo è stata spinta ad uccidersi dalla rete, ma perché vi ha scoperto le riprese che il suo ragazzo le aveva fatto durante un rapporto.
I giovani sembrano essere più attratti da questo gorgo, per ragioni che ci paiono a volte drammatiche – a Viterbo una ragazza si è uccisa dopo uno stupro – e altre volte apparentemente irrisorie: un brutto voto o un rimprovero magari troppo duro e immeritato, la vergogna di confessare di non aver mai sostenuto un esame, le angherie dei bulli di turno… Ma i suicidi giovanili hanno anche, a loro volta, una straordinaria forza attrattiva nei confronti degli altri, com’è stato con il pompiere di Imperia che ha voluto seguire le orme del figlio per esorcizzare i propri sensi di colpa.
Il suicidio è, purtroppo, un atto ‘affascinante’. Un lettore ha confessato a un giornale di non potersi togliere dalla testa la scena de ‘La meglio gioventù’ in cui il tormentato personaggio interpretato da Alessio Boni scavalca il davanzale del terrazzo durante un solitario brindisi di Capodanno, dopo avere liquidato sbrigativamente i pochi affetti che lo legavano alla vita.
A volte, poi, gli episodi si inanellano in autentiche catene di morte. Nel Nordest, con la crisi, si sono tolti la vita decine di imprenditori falliti e molti operai e impiegati che avevano perso il posto. Una scia di sangue ha segnato lo scandalo di France Telecom.
Nelle nostre carceri le morti volontarie si contano a decine l’anno (più di 50 nel 2010 solo nel penitenziario di Sulmona). Tanti militari americani si sono ammazzati dopo il rientro dall’Afghanistan e dall’Iraq.
E questo senza addentrarci in un altro filone drammaticamente cospicuo, gli omicidi-suicidi consumati in famiglia, tra parenti o coppie, magari separate. Padri, madri, fidanzati che uccidono figli e compagni e poi loro stessi.
Quando le tragedie si ripetono, però, rischiano di non fare più notizia. Ai cronisti interessano di più le vicende intrise di soldi e sesso, oltre che di sangue, come la morte di Pietrino Vanacore, il portiere di via Poma.
Ma attenzione a non cercare spiegazioni banalmente sociologiche, a non stabilire eziologie sbrigative, nessi causa-effetto non comprovati. I suicidi sono fatti per sconvolgere le nostre convinzioni. A partire dal dato statistico del record che si registra nelle aree dove le ricerche dicono si viva ‘meglio’: da Trieste, alla Mitteleuropa, fino ai Paesi del welfare scandinavo.
I nostri piccoli paradisi terrestri possono essere insopportabili, per i loro abitanti più fragili.