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Il vero costo del cibo a buon mercato

di Timothy R. Wise - 26/09/2010

Fonte: fiorigialli




Il cibo economico provoca la fame. Apparentemente questa frase non ha senso. Più il cibo è economico più dovrebbe essere accessibile e più la gente dovrebbe essere in grado di ottenere una dieta adeguata. Questo è vero per le persone che acquistano prodotti alimentari, come quelli che vivono in città.
Ma non è così se sei tu a coltivare il tuo cibo. In questo caso il raccolto diventa sempre meno, così come il tuo lavoro e ciò che è necessario per la vita della famiglia. Questo vale sia per i produttori di latte che per i coltivatori di riso nelle Filippine. I produttori di latte oggi devono fare i conti con prezzi molto al di sotto dei costi di produzione. […] Quando la polvere si depositerà sul sistema economico, questo ci lascerà con un minor numero di famiglie di agricoltori che producono i prodotti caseari dai cui dipende la maggior parte di noi.

Questa è la contraddizione centrale del cibo a buon mercato. Prezzi agricoli bassi causano, a breve termine, la fame tra gli agricoltori. E provocano insicurezza alimentare nel lungo periodo perché riducono sia il numero di agricoltori sia il denaro che dev’essere investito nella produzione di alimenti.

Si stima che circa il 70% dei poveri del mondo vive in aree rurali che dipendono direttamente o indirettamente dall'agricoltura. Il cibo economico li ha resi affamati e tenuti in condizioni di povertà. Inoltre ha affamato la campagna nei paesi in via di sviluppo, che avevano grande bisogno di investimenti agricoli. Gli agricoltori non hanno nulla da investire se perdono i soldi dei loro raccolti.

La crisi alimentare ha effettivamente servito da sveglia per i governi e le agenzie internazionali responsabili in materia. Tra i più scossi dal loro sonno politico sono stati i funzionari della Banca Mondiale, che hanno tagliato la quota della spesa per lo sviluppo agricolo dal 30% nel 1980 ad appena il 6% nel 2006. Ma il resoconto della Banca mondiale per lo sviluppo nel 2008 aveva come sottotitolo “Agricoltura per lo Sviluppo”. Era la prima volta in venticinque anni che la Banca si concentrava sull’agricoltura. La rinnovata attenzione venne apprezzata, poiché comprendeva un invito a reinvestire in agricoltura su piccola scala, non solo sulle colture di esportazione su larga scala. La Banca, naturalmente, ha però evitato di assumere qualsiasi responsabilità per aver promosso le politiche stesse che avevano causato il disinteresse verso l’agricoltura, in primo luogo non solo i tagli agli aiuti e agli investimenti, ma i programmi di aggiustamento strutturale, imposti come condizione per i suoi prestiti, che avevano sventrato la capacità della maggior parte dei governi di sostenere l'agricoltura nazionale. […]

Nel settore agricolo, nei paesi in via di sviluppo, la Banca dichiarava che se non potevano produrre cereali di base in maniera efficiente – ossia economica – come riuscivano a fare USA, Australia o Brasile, era meglio che non li producessero affatto. Sarebbe stato più economico - "più efficiente" – comprarli sul mercato internazionale. Forse si sarebbero dovuti produrre, per esempio, i fiori per l'esportazione, o fragole per il mercato statunitense. Ma forse non si sarebbe dovuto produrre nulla, perché magari la terra non era buona e non c’erano comunque le strade per il trasporto delle merci. […]

L'idea è che un paese può importare tutto il cibo di cui ha bisogno, e può farlo ottenendo gli alimenti più a buon mercato provenienti dall'estero, piuttosto che sfruttando le proprie potenzialità e facendo al contempo crescere i propri agricoltori. Un problema evidente di questo approccio è che se gli agricoltori smettono di coltivare cibo, le loro famiglie non hanno nulla da mangiare, e se non possono ottenere posti di lavoro, non hanno soldi per comprare cibo.

In secondo luogo, un paese può finire in una situazione di dipendenza alimentare, che diventa particolarmente problematica quando i prezzi sono alti e le forniture ristrette. Questo è ciò che abbiamo visto recentemente con la crisi alimentare. Paesi come le Filippine non ha potuto ottenere il riso di cui avevano bisogno. Avevano smesso di produrre riso a sufficienza per proteggersi da un tale shock di mercato, e nessuno ha venduto loro il riso perché tutti i governi si preoccupano soprattutto dell’alimentazione della propria gente. A questo ci si espone nel seguire le politiche che puntano ad ottenere cibo economico necessario nel mercato internazionale. Molti paesi hanno preso atto di questo, le stesse Filippine hanno messo in atto una campagna pluriennale nazionale per ripristinare l'autosufficienza nella produzione di riso.

Un luogo dove il governo sembra indossare ancora i paraocchi è il Messico. Nel luogo di nascita del mais, nel paese dove è stato domesticata una delle colture alimentari più importanti al mondo, si sono verificati tumulti per le strade perchè la gente non poteva più permettersi neanche un cibo comune come la tortilla. Nei quindici anni in cui North American Free Trade Agreement è entrato in vigore, il mais degli Stati Uniti ha invaso il Messico ad un prezzo pari alla metà di quello prodotto in Messico. Il Messico, ora dipende dalle importazioni degli Stati Uniti per più di un terzo del suo mais. Circa due milioni di contadini affamati hanno lasciato l'agricoltura nel flusso del cibo a buon mercato.

La crisi alimentare illustra anche quello che alcuni hanno definito la globalizzazione del fallimento del mercato. La globalizzazione comporta l'apertura dei mercati e lo spostamento in diverse parti del mondo delle merci che vengono prodotte, in diretta concorrenza. L'ipotesi nei mercati del lavoro è che i prezzi riflettano in realtà il valore reale di ciò che è oggetto di scambi commerciali. In agricoltura, l'ipotesi è che l'efficienza è pari ad alto rendimento, il che significa che il prezzo basso riflette il valore reale di ciò che è prodotto. Quando non lo fa, gli economisti lo chiamano fallimento del mercato. L'agricoltura è piena di fallimenti del mercato. Lo si può vedere nel commercio di mais Messico-USA.

I costi ambientali sono uno dei settori chiave in cui il mercato non riesce a valorizzare in modo adeguato sia i costi che benefici. L'America è specializzata in costi ambientali. Il mais è una delle colture più inquinanti degli Stati Uniti di tutti. L’uso eccessivo di acqua e prodotti chimici, il dilavamento dei fertilizzanti nei corsi d'acqua, le “zone morte” alla foce del fiume Mississippi e nel Golfo del Messico: sono tutti esempi di elevati costi ambientali derivanti dalla produzione di mais degli Stati Uniti. Ma produttori e commercianti non pagano praticamente nessuno dei costi di tali danni, e il prezzo del grano quando va oltre confine, in Messico, non riflette i costi ambientali.

Ebbene, i piccoli produttori sono la salvaguardia della grande biodiversità- sia delle specie selvatiche che delle varietà di mais - con sistemi a basso costo. Tali contributi positivi non prevedono alcuna ricompensa dal mercato. La biodiversità del mais non ha praticamente alcun valore nel mercato globale, eppure questi semi di mais assicurano il futuro alle varietà di mais: quelli in grado di resistere ai cambiamenti climatici, di resistere ai pesticidi, e così via. Il prezzo del mais messicano non riflette tali contributi al bene comune.

Quando si globalizza il commercio, anche globalizzare è un fallimento del mercato. Lo vedete nel del mais degli Stati Uniti che entra in concorrenza diretta con il sottovalutato mais messicano. Il mais messicano perde che la concorrenza, ma non perché sia meno 'efficiente'. Un contadino messicano ha detto: "Siamo stati produttori di mais in Messico per 8.000 anni. Se non abbiamo un vantaggio relativo sul mais, dove possiamo avere un vantaggio? " Ha ragione. Il problema è che il vantaggio relativo viene definito dal mercato globale, per questo il vantaggio che offre il mais messicano non ha valore. Nel mercato liberalizzato, l'unico valore è che una cosa sia a buon mercato.

La globalizzazione del fallimento del mercato ci offre un ambiente sempre più deteriorato, povertà crescente tra i produttori di generi alimentari, crescente dipendenza alimentare e fame. Per questo motivo uno dei principali colpevoli della crisi alimentare è la nostra cieca ricerca del cibo a buon mercato.

La globalizzazione svilisce tutto. Il problema è che alcune cose non devono essere svalutate. Il mercato è molto bravo a stabilire il valore di molte cose ma non è un buon sostituto per i valori umani. Le società devono determinare i propri valori umani, non lasciare che il mercato lo faccia per loro. Ci sono alcune cose essenziali, come la nostra terra e il cibo che produce e sostiene la vita, questo non deve essere svalutato.

Timothy R. Wise è Direttore del Programma di politica di ricerca sullo sviluppo globale all'Istituto per l'ambiente presso la Tufts University

Resurgence n. 259 Marzo/Aprile 2010