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Avventura

di Francesco Lamendola - 28/09/2010

C’è bisogno di avventura.

Non c’è bambino che non si sia immedesimato in Sandokan, Buffalo Bill o Michele Strogoff; o, per venire agli eroi più recenti del cinema e dei fumetti (talvolta decisamente discutibili: ma questo è un altro discorso), in Mazinga, Harry Potter o, nel caso delle bambine, in Pochaontas o in Anastasia Romanov.

E non c’è adulto che, leggendo i fumetti di Tex Willer o guardando i telefilm di Star Trek, non si sia lasciato coinvolgere fino al punto di identificarsi, inconsciamente, nei suoi eroi preferiti, siano essi dei pistoleri e giustizieri del selvaggio West di fine Ottocento, oppure degli audaci astronauti di un futuro più o meno remoto.

Ciò significa che il bisogno di avventura fa parte della natura umana. Lo riconosciamo, esplicito, nei giochi del bambino, nei suoi sogni, nei suoi passatempi; lo ritroviamo, magari abilmente mascherato, nel bel mezzo dell’età adulta: segno (direbbe il Pascoli) che il fanciullino che esiste in ogni individuo, è ben vivo e vegeto a qualunque età.

L’avventura, nell’accezione comune, è quella che si esplica sul piano fisico e, possibilmente, anche geografico: giungle equatoriali pullulanti di coccodrilli e infestate da nugoli di insetti, distese ghiacciate dai riflessi d’alabastro che accendono le montagne ed i fiordi, al tramonto, di tonalità dalla struggente malinconia: tale è lo scenario ideale che ciascuno vorrebbe.

E infatti, sia nella sua versione più “popolare”, alla Kipling, alla Jack London o alla Coloane, sia in quella più raffinata e “colta”, alla Conrad, alla Malraux ed alla Prokorsch, la letteratura moderna testimonia questo eterno bisogno dell’animo umano; per non parlare di quella medievale, ad esempio con Chrétien de Troyes, ma anche con «Il Milione» di Marco Polo, e di quella antica, con le peripezie di Ulisse o con quelle degli Argonauti alla ricerca del Vello d’Oro.

Si sogna l’avventura, dunque; e, se non basta quella dei luoghi, del clima, delle bestie feroci, anche quella provocata dalle insidie degli uomini; ma sempre, possibilmente, in uno scenario esotico e selvaggio: come ne «L’isola del tesoro» di Stevenson o nei romanzi di Salgari e Verne. L’avventura ideale, infatti, è un misto di sfida alla natura, al destino, ai malintenzionati e, naturalmente, all’amore: perché, diciamo il vero, non c’è avventura che si rispetti, dalla quale sia del tutto escluso l’orizzonte sentimentale.

Con le debite eccezioni, certo, quali «Gordon Pym» e «Viaggio al centro della Terra»; e aggiungiamoci pure «Un mondo perduto» di Conan Doyle, capostipite di tutte le odierne variazioni sul tema di «Jurassik Park». L’avventura per eccellenza, infatti, è quella che culmina nella rivelazione dell’amore; e ben lo sapeva uno scrittore che di temi avventurosi se ne intendeva parecchio, come Rider Haggard, il cui romanzo più significativo è, appunto, «Lei»: prototipo di tutte le Antinea e di tutte le sovrane di regni misteriosi e dimenticati.

Ma come immaginare che il cuore di un Sandokan non batta per la Perla di Labuan, o che quello di Martin Eden non frema per un paio di begli occhi femminili; anche se quello sguardo, almeno nel secondo caso, si rivelerà l’inizio dell’autodistruzione?

Del resto, correre l’avventura vuol dire giocare consapevolmente con la possibilità della propria distruzione; significa mettersi interamente in gioco, o la va o la spacca: da una parte una vita grigia e noiosa, fatta di desolanti sicurezze e di intollerabili punti fermi; dall’altra, un buttarsi allo sbaraglio nell’ignoto, senza certezze, senza punti d’appoggio, interamente soli con le proprie forze, con la propria intelligenza, con la propria capacità d’improvvisazione.

Intendiamoci: l’avventura, nel senso più vero e profondo del termine, non è mai un mezzo, ma sempre fine a se stessa. Chi affronta l’avventura per raggiungere il denaro e il successo, o mente a se stesso o non sta cercando affatto l’avventura, la sta subendo come un passaggio obbligato, come un male inevitabile.

Non è credibile che i “conquistadores” affrontassero inenarrabili fatiche e angosciose solitudini solamente per impadronirsi dei tesori dell’Eldorado; l’Eldorado, in realtà, era solo un pretesto. In fondo alla loro anima, in fondo all’anima di un Fitzcarraldo (pensiamo al film di Werner Herzog, ma anche a tanti reali personaggi storici di quella natura e di quella tempra), essi erano rabbiosamente assetati di ben altro…

L’avventura, dunque, come esigenza dell’anima; come esigenza non solo di tipo materiale, ma anche e soprattutto come esigenza profonda, metafisica. Anche l‘avventura sentimentale, parte quasi sempre irrinunciabile del più vasto contenitore denominato “avventura”, è una spia di tale esigenza radicale, che travalica la dimensione puramente materiale.

Ed eccoci arrivati al punto.

La vera avventura è sempre, in ultima analisi, avventura dell’anima: dunque, avventura interiore e non esteriore.

Ci si può imbarcare per i mari della Malesia e magari farlo a bordo di un veliero, come ai tempi di Sandokan, e tuttavia possedere un’anima spenta e incapace di sognare l’avventura, di gustarla, di meritarla; perfino di riconoscerla, quando essa si presenta. Viceversa, si può rimanere confinati per l’intera vita dentro le mura di casa, come scelse - volontariamente – un gigante dello spirito quale Aurobindo, eppure vivere sino in fondo la più straordinaria di tutte le avventure: quella dell’incontro dell’anima con la luce divina.

Le avventure dell’anima sono sublimi e offrono molto più di quanto potrebbe mai fare qualunque avventura di tipo puramente materiale, sia in termini di bellezza e di emozioni, sia - soprattutto - in termini di arricchimento e di crescita spirituale. Non sono però scontate: anche l’anima può scegliere di restarsene al calduccio in pantofole, senza mai mettersi in discussione; e può farlo - questo è il paradosso - proprio mentre il corpo si sta agitando di qua è di là, viaggiando ai quattro angoli del globo o abbandonandosi a mille fuggevoli amori.

L’anima avventurosa è un’anima generosa, che sente il richiamo dell’infinito, così come il giovane salmone avverte il richiamo possente dell’oceano. L’anima pigra è quella che finge di non sentire alcun richiamo e che si appaga del proprio orizzonte meschino, fatto di abitudini sempre più logore e di riti sempre più ripetitivi; quella che non ama mettersi mai in gioco, ma preferisce fingerlo solamente, aspettando che a mettersi in gioco siano gli altri.

L’odore intenso, pungente della salsedine non esercita alcun richiamo su quei pesci d’acqua bassa, che preferiscono diguazzare nello stagno fangoso invece di affrontare la grande avventura di misurarsi con l’ignoto.

L’aspro odore del salmastro trasmette un richiamo irresistibile solo alle anime limpide e assetate di verità, nate per gli orizzonti sconfinati dove soffiano liberi i venti e dove galoppano come vascelli incantati i grandi nuvoloni temporaleschi, che un tramonto da fine del mondo accende per un istante dei colori più vivi ed elettrici.

Le avventure dell’anima, inoltre - a differenza di quelle che appartengono alla dimensione puramente esteriore - non sono mai soltanto di tipo edonistico. Si cerca l’avventura per l’avventura: ma, in fondo, si cerca se stessi. E questo non è uno slancio edonistico, ma è il compito più nobile e serio che un essere umano possa porre a se medesimo.

Nobile è l’anima che lascia il calduccio confortante del caminetto e si mette per la via, senza lasciarsi intimidire dal soffio possente del mistero, seguendo un richiamo che parte da lontano e di cui, forse, ignora - almeno in principio - l’esatta natura; ma della cui voce, tuttavia, si fida, così come Abramo si fidò del richiamo divino e lasciò ogni cosa per seguirlo, lui già avanti negli anni, credendo contro ogni ragionevole speranza.

Ora, non bisogna credere che correre l’avventura dell’anima sia qualche cosa che viene dato solo in circostanze eccezionali, esclusivamente ad uomini e donne eccezionali; qualcosa, insomma, che non riguarda affatto la stragrande maggioranza degli esseri umani e che a noi non capiterà mai; perché non è così.

Spiegare le vele al vento dell’avventura spirituale significa, né più né meno, aprirsi ad una maggiore consapevolezza che riguarda anche, di riflesso, la vita di tutti i giorni, la vita di noi tutti, senza eccezione alcuna. Tutti siamo chiamati a rispondere alla voce interiore, dunque tutti siamo chiamati a farci esploratori dei regni dell’anima, delle sue possibilità sconfinate.

Ecco, lo abbiamo detto: le possibilità dell’anima sono sconfinate; nessuno ne ha mai visti i confini, nessuno può dire dove essi siano.

C’è una dimensione infinita, all’interno della nostra anima, anche se noi non ne siamo consapevoli o se tendiamo a dimenticarcene con troppa facilità; c’è una scintilla divina che ci chiama a grandi cose, che fa di ciascuno di noi un privilegiato e un predestinato.

A ciascuno di noi sta la possibilità di rispondere o meno e di scegliere se realizzare, oppure no, le immense potenzialità che giacciono in noi stessi.

Come ogni avventura che si rispetti, anche quella dell’anima presenta i suoi rischi: il minimo che si possa dire, è che non si tratterà, in alcun caso, di una passeggiata.

E allora, perché mai bisognerebbe esporsi al pericolo, lasciare il certo per l’incerto, mettersi in gioco così radicalmente?

In effetti, se i rischi sono abbastanza evidenti - ogni vascello che affronti a vele spiegate dei mari ignoti, si offre per ciò stesso alla possibilità del naufragio -, si tende a dimenticare o a sottovalutare i grandi ed importanti vantaggi che offre.

Innanzitutto, quello di una maggiore consapevolezza esistenziale, di una più elevata spiritualità, da cui discendono immediatamente una pacificazione interiore (anche se relativa, perché la vita è comunque lotta) e un ritrovato benessere dell’anima con se stessa.

In secondo luogo, una maggiore resistenza alle avversità della vita, una maggior capacità di superare vittoriosamente i momenti difficili, grazie alle impensate riserve di energia spirituale che vengono ravvivate e messe in circolo.

In terzo luogo, un occhio interiore più limpido e trasparente, che ci consente di adottare anche il punto di vista altrui e, quindi, di sentirci maggiormente solidali con l’altro, di essere più misericordiosi e compassionevoli, più inclini a perdonare e ad amare in modo maturo e responsabile, cioè disinteressato.

In quarto luogo, una attitudine più benevola e più affettuosa verso tutto ciò che esiste, comprese le creature non umane; una simpatia più viva e sincera verso tutto ciò che condivide con noi il prodigioso fenomeno dell’esistenza, ivi compresi coloro che non abbiamo conosciuto (ad esempio, nonni e bisnonni) e quelli che non conosceremo mai, almeno in questa vita (ad esempio, nipoti e pronipoti), maturando gratitudine e riconoscenza verso gli uni, senso di responsabilità e lungimiranza verso gli altri.

L’anima avventurosa, infatti, che si protende coraggiosamente alla ricerca della verità, non è mai sola, né deve contare solamente su se stessa. Sa di far parte di un cosmo vivo, di una rete di presenze invisibili, ma operanti ed efficaci; e sa di poter contare sull’aiuto e sul sostegno di quelle benevole, se essa è pura e le sue intenzioni sono disinteressate.

Sa, soprattutto, di poter contare sul conforto di una forza immensa, inesauribile, luminosa: la forza dell’Essere, alla quale nessun ostacolo può resistere, nessuna volontà protervamente orientata al male può fare mai da inciampo.

L’anima che si mette in gioco sino in fondo, che corre l’avventura di realizzare il compito cui è stata chiamata, possiede una forza sovrumana, tale da consentirle di rialzarsi dopo ogni caduta, dopo ogni (apparente) sconfitta: una forza che non le viene da se stessa, ma dall’alto, e alla quale essa si apre fiduciosamente, gioiosamente, incondizionatamente.

Fino a tanto che essa si tiene collegata a tale forza, fino a tanto che essa è abbastanza umile da riconoscere la propria piccolezza e l’immensa potenza di quella, nulla e nessuno potranno fermarla, danneggiarla, sporcarla.

Infatti, come lo potrebbero?

L’anima che si apre al mistero dell’Essere, diviene una scintilla dell’Essere medesimo: e chi o che cosa potrebbero mai impedirne il cammino, spogliarla dei suoi incalcolabili tesori?