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Cannibali

di Chiara Camerani - Mario Grossi - 30/09/2010



Eddy Merckx il fuoriclasse campione di ciclismo era soprannominato “il cannibale” per la sua capacità di vincere sempre. Non lasciava spazio alcuno agli altri, come un perfetto serial killer inanellava vittoria su vittoria, dopo aver annichilito i suoi avversari. Partendo da questo ricordo sportivo e da questo soprannome, che in apparenza suona bonario ma che ha un retrogusto inquietante, mi sono reso conto che questa parola, che suscita paura e repulsione, un rigetto quasi automatico che produce un brivido di disgusto al solo sentirla nominare, non ci è affatto aliena, non fa parte di un mondo ai margini del vivere civile ma è incastonata nella vita di tutti i giorni. Ed è proprio da questa considerazione che prende le mosse il saggio di Chiara Camerani Cannibali edito da Castelvecchi. Siamo portati a credere che il cannibale sia un individuo ormai estinto presente in modelli di società primitivi ormai scomparsi, oppure che faccia parte di un remoto mondo mitologico che ne conserva traccia solo nelle antiche credenze che sono giunte a noi ormai come favole prive di pericolosità. Oppure che il cannibale viva nelle sceneggiature dei film o nella letteratura con una presenza che è pura finzione. Infine siamo propensi a credere che, quando la cronaca nera ce ne descrive uno in carne e ossa, questo individuo sia totalmente altro da noi, un diverso, un mostro con pulsioni perverse che appare dal buio dei più oscuri recessi che non fanno parte della nostra vita solare di tutti i giorni. Niente affatto, Chiara Camerani ci conduce, nei primi capitoli del suo saggio, in un percorso teso a dimostrarci che il cannibale ha disseminato di tracce tutta la storia dell’umanità e che è tra noi molto più di quanto non si creda. Se ne riscontrano tracce nella mitologia, con Saturno che divora i suoi figli, scena che ispirò anche la splendida tela di Goya, nella letteratura, con Dante che ci racconta la tragica storia del Conte Ugolino. Il folklore e le tradizioni popolari hanno farcito le favole di streghe cannibali come nella fiaba di Hansel e Gretel, di orchi, di vampiri, di lupi mannari. E sono solo degli scarni esempi. Poi se ne riscontra traccia anche nel nostro parlare. “Ti mangerei di baci”, espressione affettuosa rivolta all’amata, è l’esempio più inquietante della presenza del cannibale nel linguaggio comune. Insomma Chiara Camerani ci insegna, in questo brillante saggio, che gli istinti e le pulsioni del cannibale sono gli stessi che sono presenti in noi, in un intreccio di sentimenti che risalgono però ai due desideri primi di cui la natura ci ha dotati. L’impulso a mangiare per sopravvivere e l’impulso a riprodursi. L’ipotalamo, la parte più antica e rettiliana (ma necessaria) del nostro cervello sovrintende e controlla alimentazione, aggressività sessualità. È solo nell’intensità, nella forza con si esprimono ed esternano queste pulsioni, che sta la differenza tra il comportamento deviante del cannibale ed il nostro. Nella sua chiara e originale classificazione, nella sua descrizione puntuale dei maggiori casi di cannibalismo noti alle cronache, non tutti criminali in realtà se si pensa ai sopravvissuti della sciagura aerea delle Ande, che costituisce la seconda parte del saggio, Chiara Camerani credo voglia soprattutto dirci questo. Attenti a non considerare mostri e solo mostri questi individui disturbati, anch’essi, per quanto questo possa sembrarci rivoltante, fanno parte dell’umanità, attingono ai nostri stessi impulsi e per comprenderli, tentare di aiutarli, per difenderci da loro ma anche dalle nostre pulsioni che potrebbero esplodere nella nostra normalità, dobbiamo conoscerli e non considerarli solo dei criminali marginali. È uno scenario per nulla tranquillizzante quello descritto ma con cui bisogna fare i conti. Conoscere per comprendere, inutile marginalizzare e circoscrivere il problema per esorcizzarlo. Il cannibale è anche in noi, nessuno si senta escluso.

M.G.

IL CANNIBALE CHE È IN NOI
Mario Grossi intervista Chiara Camerani

Esiste qualche studio o statistica che può farci capire meglio che estrazione sociale hanno i cannibali e qual è la loro intelligenza media?

Come nel caso di altri criminali efferati, è difficile incasellarli in categorie specifiche; parliamo infatti di persone diverse con un “interesse” o “gusto” comune, quello per la carne umana. Il cannibalismo criminale appare un fenomeno trasversale che colpisce ceti agiati, come nel caso di Issei Sagawa un brillante studente, figlio di un ricco industriale giapponese che ha ucciso, deprezzato e mangiato una compagna di corso. Tra questi assassini si incontrano anche persone normali, apparentemente anonime, come il cannibale di Milhawkee, un bel giovane dinoccolato con un lavoro da operaio in una fabbrica e poche aspirazioni verso il futuro. Nella sua abitazione vennero rinvenuti numerosi bidoni contenenti parti umane. Non sono esenti da questa attitudine soggetti astuti, ciarlieri, intriganti, come Fritz Haarmann, traffichino e informatore della polizia tedesca, che durante gli incontri sessuali amava mordere i suoi giovani amanti e succhiare il sangue dal loro collo. Una interessante percentuale di casi riguarda il cannibalismo psicopatologico, una categoria che include persone affette da disturbi mentali che gli impediscono di riconoscere l’antisocialità del comportamento cannibalico o che inducono allucinazioni e deliri spingendole agire in modo così aberrante.

Nelle foto al centro del libro sono rappresentati vari ritratti di cannibali e serial killer, io per sedare la mia ansia, ho cercato, anche se non sono un lombrosiano, nei loro volti dei tratti somatici difformi, ma non ne ho trovati eccetto il ghigno di Chikatilo. Mi sembrano tutti molto normali. I cannibali chi sono?

Cannibali siamo anche noi quando mordiamo il nostro partner con passione durante un amplesso, quando sentiamo quell’irresistibile desiderio di “mangiare” di baci il nostro nipotino paffutello. Quella sensazione, che scatta dal nostro cervello fino a raggiungere la bocca, facendoci digrignare i denti, ci provoca un misto di violenza, desiderio, piacere e possesso. Il criminale cannibale, quando non è affetto da una malattia mentale conclamata, è un uomo apparentemente normale ma afflitto da esperienze di vita, di pensiero e di relazione, decisamente alterate. Queste rappresentazioni mentali non si limitano ad attraversare la mente in modo figurato per poi sparire, come accade a ciascuno di noi, ma si annidano nella mente di questi individui, divenendo assillanti, concrete, predominanti, fino a rompere il confine tra realtà e fantasia e a tramutarsi in atti concreti.

A parte la saponificatrice di Correggio non sono molto presenti le donne tra i cannibali. Il cannibalismo è una tipica devianza maschile?

Sfortunatamente sì, come la maggior parte delle devianze e delle perversioni. In maniera molto semplicistica, ciò dipende da una effettiva diversità fisiologica e culturale che divide il mondo maschile da quello femminile. Non sto ovviamente esprimendo un giudizio etico, mi limito a descrivere come, l’evoluzione stessa, abbia “programmato” l’uomo verso un approccio alla vita improntato alla caccia, alla competizione ed alla violenza. Visto che da ciò derivava la sua probabilità di sopravvivere e di mantenere vivo il gruppo, questa tendenza doveva essere estremamente intensa. Per questo si è mantenuta ancora oggi, pur essendo modificato il contesto di vita in cui si trova a muoversi. Inoltre, la maggior tendenza maschile ad avere rapporti sessuali e diffondere il proprio patrimonio genetico, rende l’uomo più “assillato” dalla sessualità, anche violenta, a differenza della donna, cui la natura ha imposto una disponibilità più limitata di ovociti, unitamente a un impegno fisiologico ed emotivo maggiore e più prolungato verso i piccoli, rispetto al compagno. Nel tempo, poi, la cultura ha avuto il suo ruolo. L’educazione insegna alla bambina a mediare i conflitti, a prendersi cura dell’altro e ne scoraggia le manifestazioni aggressive, ciò avviene in misura minore e differente nel maschietto, i cui tentativi di affermazione, anche di natura sessuale e violenta, sono generalmente incoraggiati. Tutto ciò, assieme ad altre variabili ancora, spinge la femmina a rivolgere su di sé l’aggressività o, al massimo, sui propri figli che percepisce come un’estensione del proprio essere. L’uomo invece ha una aggressività che si sprigiona verso l’esterno e si concretizza più facilmente in atti violenti o sessualmente inadeguati

Il più famoso cannibale è sicuramente Hannibal reso celebre dal cinema. Viene descritto come mente luciferina, di logica contorta ma raffinata, affascinante proprio in virtù di questa sua intelligenza affilata come un rasoio. Ritiene che il cannibale corrisponda a questa descrizione da film? Il cannibale è un individuo più intelligente della media?

Come già detto, fra serial killer e cannibali ci sono casi di individui particolarmente intelligenti o affascinanti, ma ciò non è la regola. Il genio, nel crimine o nell’arte come in altri campi umani, costituisce per lo più un’eccezione.

Sempre il cinema ha cominciato a proporre vampiri innamorati e romantici. È un modo per ricordarci che i cannibali sono persone come noi, assai più simili a noi di quanto non crediamo?

Il vampiro e il cannibale, sebbene entrambi ingeriscano parti umane, sono due figure molto diverse. Il folklore e la letteratura identificano il cannibale con l’aspetto più bestiale della natura, basti pensare al lupo mannaro, che subisce una metamorfosi completa in lupo. A seguito della licantropia, l’animale sostituisce l’essere umano e ne cancella la coscienza. Il vampiro invece è un umano non morto, mantiene la sua identità e le sue emozioni (o parti di esse), è una sorta di divinità che può privare della vita o donare l’immortalità, è l’uomo che si ribella alla natura e a Dio, sconvolgendone le leggi. Il vampiro, a differenza del licantropo, è una figura sensuale, ribelle e nostalgica. Da ciò deriva il suo grande successo letterario e cinematografico.

Non trova pericolosa questa lettura troppo sdolcinata dei vampiri?

No, non è un certo il tipo di letteratura, di videogiochi o di musica ad essere pericolosa, ma il malessere della persona che ne fruisce. Questo disagio affonda sempre più spesso le radici in fattori sociali ed economici estremamente allarmanti di cui spesso fingiamo di non renderci conto, per non dovercene assumere il carico. Risulta così più semplice e meno impegnativo incolpare una letteratura di un certo tipo, piuttosto che rimboccarsi le maniche ed affrontare problematiche più serie e concrete.

Il libro sostiene una tesi che io condivido ma che fa un po’ paura. I cannibali hanno pulsioni identiche alle nostre, quello che cambia è la loro intensità. Siamo tutti potenziali cannibali?

In potenza sì, basti pensare al fatto che nella storia dell’uomo il cannibalismo è presente in svariati periodi storici e appare a diverse latitudini. Non è però così automatico che la pulsione si tramuti in realtà. La civiltà ha permesso di raccogliere i significati e le motivazioni inconsce legate al cannibalismo, trasformandole in atti simbolici; si pensi alla trasformazione del pasto cannibalico pagano nella sacra eucaristia dove simbolicamente si mangia il “corpo e il sangue di Cristo” per sancire un’alleanza con il divino. Lo stesso banchetto funebre, oggi diffuso nei paesi anglosassoni, implicava inizialmente il cibarsi di parti del morto, così da mantenere vive nei discendenti le sue qualità.

Esistono forme di cannibalismo transitorie? Una persona normale può diventare cannibale per poi rientrare nella sua normalità dopo aver commesso un crimine o il cannibalismo è una spirale crescente da cui non si può uscire?

Allo stesso modo in cui esistono omicidi isolati o occasionali, in cui una persona ne uccide un’altra per rabbia, gelosia, possesso, esaurendo con ciò le sue motivazioni a delinquere, può accadere anche che l’atto cannibalico rimanga isolato. Non possiamo però dimenticare che, a differenza della persona normale o del comune omicida (se si può usare questo termine), un assassino che commette atti perversi, sadici o cannibalici è mosso da una impostazione mentale particolare; in esso si manifestano forti vissuti di abbandono, inadeguatezza, rabbia, desiderio di possesso. Se questi vissuti trovano risposta e intensa soddisfazione nell’atto criminale o cannibalico, tendono a venire nuovamente cercati, attraverso un nuovo omicidio. Purtroppo, anche la violenza, se provoca in noi emozioni particolarmente soddisfacenti o piacevoli, tende ad essere ripetuta.

Nella tragedia delle Ande, in cui i passeggeri sopravvissuti allo schianto aereo decidono di cibarsi di carne umana per sopravvivere, alcuni scelgono il cannibalismo altri si lasciano morire di fame per non rompere il tabù dell’antropofagia. Se darwinianamente resta in vita il più adatto, questo significa che in alcune circostanze il cannibalismo è la scelta giusta?

La cultura, per tenere sotto controllo le nostre tendenze aggressive e antisociali, e garantire la sopravvivenza del gruppo, ci trasmette delle regole; una di esse sostiene che non solo la vita, ma lo stesso corpo umano è sacro, perciò inviolabile. Fondamentalmente è questione di contesti. In una società moderna e complessa dove il cibo è di facile reperibilità, il culto degli antenati va perdendosi e il culto del corpo diventa predominante a scapito dell’anima, è giusto che il cannibalismo costituisca un tabù. Ma in casi estremi, in cui il cibo è assente e la sopravvivenza del gruppo si riduce alla sussistenza, la cultura lascia spazio alla spinta naturale dell’evoluzione: si deve vivere e perciò si mangia il corpo morto di un altro uomo, alla stregua di qualsiasi altro animale.

Viene ricordato nel libro che l’Eucarestia cristiana è una forma simbolica di cannibalismo. Ma il cattolico crede nella transustanziazione nel rito dell’Eucarestia, cioè crede realmente che quel pane e quel vino si trasformino nella carne e nel sangue di Cristo. I cattolici sono realmente dei cannibali. Condivide questa lettura?

No, nonostante apprezzi il sillogismo. Stiamo parlando di forme culturali mediate, di atti simbolici che pur attingendo ad archetipi o, più semplicemente, ad un patrimonio umano comune, la maggior parte delle volte non sono nemmeno comprese nel loro significato più profondo.

In appendice mi ha molto colpito la definizione di autocannibalismo. Il mangiarsi le unghie o l’interno delle guance sarebbe un atto cannibalico. Cosa sovrintende a questa pratica? Che significato darne al di là dell’azione automatica di chi cerca di sedare un’ansia?

Se l’atto si verifica in misura moderata e in limiti accettabili, il motivo primario del gesto rimane quello di sedare un temporaneo stato di disagio. La situazione invece si aggrava in presenza di gravi patologie mentali; la persona ad esempio, può soffrire di allucinazioni e udire voci che gli intimano di mangiare parti di sé o di altri. In altri casi, possiamo includere questo comportamento nella più vasta categoria dell’autolesionismo, dove l’individuo può ricorrere alla mutilazione per sentire qualcosa (se percepisce un forte vuoto interiore) o per ottenere attenzione o, ancora, per distrarsi da un dolore emotivo più grande e devastante che rischia di annientare il suo equilibrio psichico.