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Donne di mais

di Esther Vivas - 04/10/2010




Si calcola che nei paesi del Sud del mondo ricada sulle donne tra il 60 e  l'80%  della produzione alimentare (un 50% a livello mondiale): sono esse che si occupano della lavorazione della terra, della manutenzione delle sementi, della raccolta e dell'acqua. Sono loro che portano avanti le coltivazioni di alimenti, quali riso, grano e mais, che sfamano le popolazioni più povere del Sud del mondo, ma nonostante il loro ruolo fondamentale sono proprio le donne, insieme ai bambini, coloro che soffrono di più la fame.
Per secoli le donne contadine sono state responsabili dei molteplici compiti domestici portati avanti contemporaneamente al lavoro nei campi per l'auto consumo e la vendita delle eccedenze dell'orto, dovendosi dunque far carico del triplice lavoro riproduttivo, produttivo e comunitario ed occupando nonostante tutto una sfera privata assolutamente invisibile. Al contrario, le principali transazioni economiche agricole, sono state tradizionalmente compito degli uomini, che hanno rivestito da sempre un ruolo dominante nella sfera pubblica contadina partecipando alle fiere per la compravendita di animali e la commercializzazione dei prodotti del campo.
Questa divisione dei ruoli ha così da sempre assegnato alle donne la cura della casa, dell'educazione e della salute della famiglia ed agli uomini l'amministrazione delle terre e dei macchinari - in sostanza la “tecnica” - mantenendo intatti i ruoli predefiniti come maschili e femminili che ancora oggi perdurano nella nostra società.
In molte regioni del Sud del mondo, come America Latina, Africa sub-sahariana e  sud Asia, esiste una notevole “femminizzazione” del lavoro agricolo salariato. Tra il 1994 e il 2000 si è registrata una forte presenza femminile (circa l'83%) nel settore dell'esportazione agricola non tradizionale, ma con una divisione di genere di fondo: nelle piantagioni le donne realizzavano compiti non qualificati come la raccolta e l'impacchettamento, mentre agli uomini era assegnato il controllo delle piantagioni.
L'incorporazione della donna in un ambito lavorativo retribuito implica però un doppio sforzo dovendo esse farsi carico contemporaneamente della sfera lavorativa e familiare. Inoltre la loro attività professionale risulta per la maggior parte delle volte precaria, con bassi compensi e condizioni lavorative peggiori dei loro colleghi uomini, obbligandole a lavorare più tempo per raggiungere gli stessi guadagni.
Un altro problema presente è l'accesso alla terra. In vari paesi del Sud del mondo sono le leggi stesse a proibire questo diritto e, dove a livello legale è permesso, sono le tradizioni e le consuetudini che lo impediscono. Anche in Europa, ad esempio, sono molte le contadine che non vedono riconosciuti i loro diritti e nonostante lavorino come i loro colleghi uomini ad esse non viene concessa la titolarità della proprietà, il pagamento della previdenza sociale, ecc. Di conseguenza, al momento della pensione, le donne non possono contare su alcuna remunerazione post lavorativa, sussidio o assegno.
Il crollo del lavoro nei campi nei paesi del Sud del mondo e l'intensificazione della migrazione verso le città hanno provocato un fenomeno di “decontadinizzazione” delle zone rurali  di cui le donne sono una componente essenziale: questi flussi migratori nazionali ed internazionali provocano la disarticolazione e l'abbandono delle famiglie, della terra e dei processi di produzione e al tempo stesso aumentano il carico di lavoro familiare e comunitario delle donne che rimangono. Nei Paesi come Stati Uniti e Canada o in Europa le donne immigrate ricoprono i lavori che anni addietro realizzavano le donne del posto, dovendo assumere un eccessivo carico di lavoro: si viene così a riprodurre una spirale di oppressione e a creare una sorta di invisibilità dei servizi, oltre che sovraccaricare i costi sociali ed economici che gravano sulle comunità di origine delle donne migranti.
Nei paesi occidentali l'incorporazione delle donne nel mercato lavorativo e l'invecchiamento della popolazione hanno portato ad un'importazione massiva di mano d'opera femminile dai paesi del Sud del mondo, destinata ai lavori remunerati di cura della casa e della famiglia, vista l'inesistente risposta da parte dello Stato a questi bisogni.
Di fronte a questo modello agricolo neo-liberale, intensivo e non sostenibile, che si è dimostrato totalmente incapace di soddisfare i bisogni alimentari delle persone e di rispettare l'ambiente, nonchè particolarmente violento con le donne, viene proposta come alternativa il modello della sovranità alimentare. Si tratterebbe di recuperare il nostro diritto a decidere su cosa, come e dove si produce ciò che mangiamo, della riappropriazione della terra, dell'acqua e delle sementi da parte dei contadini e di combattere il monopolio lungo la catena agroalimentare.
È necessario che la sovranità alimentare sia profondamente femminista ed internazionalista visto che sarà possibile ottenerla solo a partire dalla piena uguaglianza tra uomini e donne e il libero accesso ai mezzi di produzione, distribuzione e consumo degli alimenti, così come a partire dalla solidarietà tra i popoli, lontano da proclamazioni scioviniste.
É necessario rivendicare il ruolo delle contadine nella produzione agroalimentare, riconoscere il ruolo delle “donne di mais” che lavorano la terra facendo dell'invisibile una cosa visibile e promuovere alleanze tra donne che vivono in un contesto rurale ed urbano da nord a sud. Globalizzare la resistenza. Al femminile.

*Esther Vivas, giornalista e sociologa, è coordinatrice dei libri in spagnolo «Supermarchés, non merci» (Supermercati, no grazie!) et «Où va le commerce»?(Dove va il commercio?).

+ info: http://esthervivas.wordpress.com/italiano