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Il moralismo monoteistico

di Alain de Benoist - 04/10/2010


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La «grammatica» del monoteismo giudeo-cristiano non è tanto religiosa, quanto morale.  La Bibbia è innanzitutto un libro morale, un libro dove è espressa una certa morale; un libro che caratterizza l'ipermoralismo denunciato da Arnold Gehlen (Moral und hypermoral. Eine pluralistische Ethik, Athenaúm, Frankfurt/M. - Bonn, 1969).  Il giudeo-cristianesimo moralizza tutto, l'intero campo dell'attività umana si trova ricondotto, in ultima istanza, alla morale; l'estetica o la politica, tanto per fare un esempio, perdono interamente la loro autonomia; nell'ordine degli affari umani, la Bibbia pone le condizioni per l'apparire della nomocrazia. Il primato della morale fa sì che lahvé sia innanzitutto un giudice, un comminatore di sanzioni - «il giudice di tutta la terra» (Gen. 18, 25).  Nel linguaggio della Bibbia, la prescrizione morale è del resto indissociabile dalla realizzazione di un piano divino. «In ebraico non v'è imperativo in senso stretto: per esprimerlo si impiega generalmente il futuro» (Josy Eisenberg et Armand Abecassis, Moi, le gardien de mon frère? A Bible ouverte III, cit.). Si potrebbe meglio dire che, nella Bibbia, il «tu devi» si confonde con il «questo sarà».  Ciò che deve arrivare si produrrà; ciò a cui l'uomo deve sottomettersi si realizzerà.  Non vi è più spazio per il risultato aleatorio delle azioni umane; alla lunga, la storia sboccherà necessariamente nel trionfo della morale. Il cristianesimo, dirà Nietzsche, è «la più delirante variazione che sia stata mai composta sul tema della morale» (La nascita della tragedia, Opere complete, III, 1, Adelphi, 1972).
La morale della Bibbia, poi, sia chiaro, non è dedotta né,dallo spettacolo del mondo sensibile, né dall'esperienza concreta vissuta dagli esseri umani.  Essa deriva esclusivamente dalla volontà di lahvé e dalle interdizioni da lui pronunziate.  La colpa di Adamo ed Eva, come si è visto, è consistita nel voler decidere da soli sui criteri del bene e del male.  Ora, solo lahvé possiede questo diritto.  Dato che egli è il solo a definire il bene e il male e a costituirli in assoluto, e che del resto è anche colui che ricompensa e punisce, quanto avviene all'uomo avviene necessariamente in rapporto con il valore morale dei suoi atti.  Tale sistema rinchiude l'uomo in una problematica di morbosa giustificazione: se vi sono avvenimenti (concretamente) cattivi, è perche vi sono atti (moralmente) cattivi.  Questa è l'origine del senso di colpa e della cattiva coscienza.  Invece di abbassarsi e di crocifiggersi a causa delle loro credenze, i Greci, scrive Nietzsche, si erano «al contrario serviti dei loro dèi per prevenirsi contro qualsiasi velleità di cattiva coscienza, per avere il diritto di godere in pace della loro libertà d'animo».  Nulla di tutto questo nel monoteismo giudeo-cristiano, che fa del dolore uno dei mezzi più sicuri che la morale ha per perpetuarsi. «Soltanto ciò che non cessa di far soffrire resta vivo nella memoria», osserva ancora Nietzsche.  Il mezzo migliore perché Iahvé non sia mai «dimenticato», è che egli si inscriva nel cuore dell'uomo in quanto segno di incompletezza, di sofferenza prodotta dal «peccato».  Il prete spiega la sofferenza, la malattia, la povertà, la schiavitù, con la colpa; e propone i mezzi per «espiarla».  Il dolore, per lui, è «il più potente coadiuvante della mnemotecnica». La Bibbia dà al dolore una spiegazione «inquinata»: se si soffre è perché lo si merita, perché si è peccato.  Il dolore non è soltanto doloroso, ma anche colpevole.  Accettare il principio di questa colpevolezza porta a comprendere la ragion d'essere della sofferenza, il che la attenua in una certa misura - poiché è anche enunciato il principio della speranza in una «redenzione» del peccatore, di un compenso radicale alla sua sofferenza di quaggiù - ma la rende anche interminabile, a causa della sua inclusione nel sistema più intrinsecamente proprio alla sua riproduzione.
Perché, secondo le parole di Nietzsche, la morale della Bibbia costituisce «la malattia più terribile che abbia mai infierito sugli uomini»?  A causa della visione dualista che la sottende.  Perché essa funziona secondo delle categorie astratte che non hanno il minimo rapporto con il mondo.  Perché essa impone al mondo un codice le cui fonti sono al di fuori del mondo, perché rende la vita estranea a se stessa e le impedisce di realizzarsi, perché spezza lo slancio vitale e l'energia creatrice imponendo loro delle perenni limitazioni.
«Questa lettura... della condizione umana, dato che evidentemente il bene e il male non possono coabitare, fa esplodere la coerenza, l'unità della vita.  Questa viene a trovarsi frammentata, frazionata cioè impotente a realizzarsi.  La morale definisce così la vita secondo criteri che non sono i suoi, che non determinano la propria efficacia.  Una tale problematica, imponendosi alla vita dal di fuori, le impedisce di portare a compimento le sue virtualità.  La vita non dipende più dalla propria creatività.  Dettandole arbitrariamente delle leggi che non derivano dalla legalità sua propria, quella della sua sensibilità, la morale le interdice di essere se stessa» (Yves Ledure, Nietzsche contre l'humilté, cit.).
Nel monoteismo giudeo-cristiano, la Vita non è più apprezzata secondo la sua problematica, bensì è assoggettata ad un'altra problematica.  L'uomo è giudicato non più secondo la propria legge e la propria misura, ma secondo la legge e la misura di un Tutto Altro da lui.  E' per questo che il progredire della morale cristiana nella storia può vedersi come il declino dell'energia.
La morale del cristianesimo è sostenuta dal risentimento.  Il credente accetta di abbassarsi in cambio della speranza che anche gli altri siano abbassati.  Egli aderisce ad una morale che sopprime la diversità in nome dell'«eguaglianza», che sminuisce in nome della «giustizia», che coagula in nome dell'«amore».  Una simile morale si mostra come un sistema per far fondere le energie, sgretolare la salute, distruggere la potenza. 
Essa conduce, in fin dei conti, alla fusione e alla confusione, all'entropia e alla morte.  Si rivela, una volta identificata, come negazione pura - come istinto di morte (Eros, qui, non è che la maschera dì Thanatos). «Dato che la vita è essenzialmente immorale», scrive Nietzsche, «essa apparirà sempre in torto davanti al tribunale della morale, soprattutto della morale cristiana, e quindi assoluta.  Ciò che ci si chiede, è di arrivare a sentire che la vita, schiacciata sotto il tallone del disprezzo e dell'eterna negazione, è indegna di essere desiderata, di essere sperimentata di per sé.  E la morale stessa non è forse la volontà di negare la vita, un segreto istinto di distruzione, un principio di decadenza, di scadimento, di calunnia, il principio della fine?» (La nascita della tragedia, cit.).
L'uomo, nel paganesimo, è per sua natura innocente.  Certo, nel corso della sua esistenza, egli deve assumere delle responsabilità.  L'uno o l'altro dei suoi atti, implicandolo in una situazione o nell'adattamento a certi fatti, può far nascere in lui un senso di colpa.  Ma questo senso deriva sempre dalla scelta volontaria che ha fatto.  L'uomo non eredita, nascendo, nessuna colpevolezza, nessuna imperfezione legata alla sua stessa condizione (e le sue limitazioni psichiche e fisiologiche, sono del tutto esenti da implicazioni morali). 
Egli è, in partenza, pura innocenza - innocenza incarnata.  Ed è questa innocenza che gli permette di mettere nell'azione la serietà che il bimbo mette nel gioco.  Di trasformare l'azione in gioco.  Perché solo il gioco è veramente serio: gioco dell'uomo, gioco dell'essere, gioco del mondo.  Il gioco è fondamentalmente innocente, al di là del bene e del male.  Omero, evocando l'assalto dei Troiani contro il muro eretto dagli Achei per proteggere il loro campo (Iliade, canto 15), paragone l'azione degli dèi al gioco dei bimbi.  Montherlant dice che il gioco è «la sola forma di azione...... che deve essere presa sul serio» (Paysages des Olympiques, Grasset, 1940; cfr. anche Vajouer avec cette poussière, GaIlimard, 1966). 
Schiller, infine, afferma: «L'uomo non è pienamente uomo che quando gioca».  Del resto il bambino è, nell'uomo, ciò che è più vicino al sovrumano.  Il mondo del sovrumano, per parafrasare Montherlant, è un mondo il cui principe è un fanciullo. E' un mondo fondato al di là del bene e del male, un mondo dove il senso morale dell'azione è indifferente in rapporto all'azione stessa: «Desiderare con indifferenza», dice Montherlant, «è l'essenza stessa del gioco».  Aedificabo ad destruam.
 
Nella prospettiva creazionista, l'accento è posto principalmente sul tempo e non sullo spazio: il racconto della Genesi si svolge unicamente nel tempo e mette in scena una «storia» che i Greci, ad esempio, avrebbero invece senza dubbio interpretato in senso spaziale.  E ancora, se la dottrina biblica concernente la retribuzione personale appare incerta è perché il «paradiso» vi si confonde con un prima assoluto (il giardino dell'Eden) o un dopo assoluto (l'era messianica), mentre nella tradizione pagana classica, il «paradiso» è innanzitutto un luogo (Valhalla, Campi Elisi, fino ad Atlantide o al paese di Cuccagna) e, di più, è un luogo che.non si distingue radicalmente dal mondo reale. E' questa la ragione per cui generalmente si ritiene, come ha sottolineato Ernst von Dobschutz fin dal 1902, che, nel pensiero ebraico, il tempo giochi quel ruolo di contenente esemplare che invece nel pensiero europeo antico è svolto dallo spazio.  Di conseguenza, mentre i Greci prestano soprattutto attenzione alla particolarità degli elementi del mondo sensibile, gli Ebrei invece badano soprattutto agli avvenimenti che vi si svolgono, di modo che, nella Bibbia, il tempo finisce per identificarsi con il suo contenuto, mentre, nel paganesimo, è lo spazio costituente il mondo che tende ad identificarsi con tutti gli enti che contiene.
«L'uomo ebraico», dichiara André Chouraqui, «vive in un mondo verbale dove la nozione di tempo prevale su quella di spazio, dove la dualità tra il tempo e l'eternità... non esiste» (conversazione con Question de, novembre-dicembre 1980).  Siamo qui in presenza, in effetti, di una concezione assai particolare del tempo, che si ricollega direttamente alla concezione della storia.  Il tempo, nella Bibbia, non è un tempo a misura umana.  Il tempo appartiene solo a lahvé.  La parola che serve ad indicare il tempo in ebraico, olam, non è del resto differente dal termine che esprime l'eternità (sono i Settanta ad aver tradotto olam con «eternità», creando così un'opposizione tra tempo ed eternità che non esiste in ebraico.  La traduzione di Chouraqui impiega più esattamente il termine di "perennità").  D'altra parte, l'ebraico non ha il presente; il verbo non conosce che due tempi fondamentali: il perfetto e l'imperfetto.  Nel Pentateuco, il termine quadosh, «santo», appare per la prima volta ad indicare il «settimo giorno», che Dio ha scelto come suo; e nel Decalogo, i due soli comandamenti positivi sono quelli che si riferiscono al tempo: «Ricordati del giorno di shabbat per santificarlo» (ritmo ebdomadario), «Onora tuo padre e tua madre, perché i tuoi giorni si prolunghino» (ritmo delle generazioni).  La santità nel tempo ha così la prevalenza su tutte le altre: la santità nello spazio compare solo quando gli Ebrei ricevono l'ordine di costruire un tabernacolo, che sarà consacrato da Mosè (Numeri 7, 1).
Nella tradizione europea classica, lo spazio è invece un dato talmente Primario che si arriva spesso a concepire il tempo spazialmente (Cfr.  Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, A.Signorelli, 1958).  Noi parliamo, ad esempio, di uno «spazio di tempo».  Nella Bibbia, l'espressione ebraica generalmente tradotta come «regno di Dio» («Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino», Marco 1, 15), espressione che ha una risonanza spaziale, vuol dire in effetti «dominio di Dio», espressione dalla risonanza temporale.  Noi tendiamo anche a «spazializzare» la nostra concezione dell'eternità, a immaginarla come qualcosa di «infinitamente immenso».  E ne parliamo avvertendo quel desiderio di conquista dello spazio che, dall'epoca delle grandi scoperte a quella delle «guerre stellari», non ha mai cessato di appassionarci. E questa tendenza alla «spazializzazione» del tempo che porta l'Europa, dopo la sua cristianizzazione, a reinterpretare la nozione di durata lineare in una forma che distingue in modo netto, quasi palpabile, tra il presente, il passato e ii futuro, laddove il verbo ebraico distinguendo solo tra la completezza e l'incompletezza, tende costantemente - se si ammette, con Max Múller, che il linguaggio è una filosofia implicita cristallizzata - a qualificare il tempo non dal punto di vista umano, ma dal punto di vista di un Dio la cui «natura» lo pone necessariamente al di sopra del tempo storico.
 
Il giudeo-cristianesimo, dunque, ribalta interamente la problematica pagana.  Mentre quest'ultima tende a pensare che il mondo sia eterno e non lo siano gli dèi e gli uomini, il monoteismo giudeocristiano afferma che Dio è eterno e che il mondo ha avuto un principio e avrà una fine.  Queste differenze di sensibilità si spiegano con i relativi differenti sfondi.  Come nota Gilbert Durand, commentando Spengler, «il tempo, lungi dall'essere una forma a priori della sensibilità sullo stesso piano dello spazio, è un'antinomia dello spazio.  La vera intuizione del tempo è quella di una direzione, di un senso» (Science de l'homme et tradition.  Le nouvel esprit anthropologique, Berg international, 1979).  Nello spazio, al contrario, nulla è determinato in anticipo quanto alle forme che vi saranno create.  In esso ogni cosa dipende più direttamente dall'uomo.  Affermare il primato dello spazio, è ancora una volta esaltare, indirettamente, il potere dell'uomo.  Affermare il primato del tempo e interpretarlo come sinonimo di eternità, è affermare che solo lahvé ne è il maestro.  Così, dietro l'opposizione tra lo spazio e il tempo, se ne individua un'altra, non meno fondamentale, tra il tempo-eternità sul quale regna lahvé e il tempo umano, che è un tempo propriamente órico.  Questa opposizione è quella, classica dell'antichità, tra l'intensità e la durata.  Non potendo padroneggiare il tempo nella durata a causa della sua finitezza, l'uomo, nel paganesimo, lo padroneggia con l'intensità dei suoi atti - e con l'«intensità», che ne risulta, delle costruzioni che gli sono proprie. E' questo, probabilmente, che Nietzsche allude in un celebre passaggio dell'Anticristo, dove ricorda che il cristianesimo, «vampiro» dell'imperium romanum, ha contribuito a disfare ciò che i Romani avevano fatto di maggiormente prodigioso: «conquistare il terreno su cui edificare una grande civiltà che aveva il tempo dalla sua».  Dal desiderio di intensità derivano logicamente il desiderio di creazione, il desiderio di forma e il desiderio di stile.  La Bibbia ha scelto, in tutta evidenza, la durata: l'intensità delle azioni umane, dei resto, mette alla prova, in senso proprio, la «pazienza» di lahvé.
Ritroviamo qui lo scontro tra una concezione puramente lineare del tempo e una concezione ciclica o «sferica», che ammette, tra l'altro, l'Eterno ritorno dell'Identico.  Nel monoteismo giudeo-cristiano non vi è possibilità di ritorno: la storia non potrebbe mai tornare su se stessa, essa va da qualche parte - verso un mai-visto che sarà il suo compimento e la sua fine. 0 piuttosto, se vi è «ritorno», è a tutt'altro livello: la fine della storia equivarrà ad un ritorno allo stato anteriore alla storia stessa, ma questo «ritorno» sarà un ritorno assoluto; non sarà un ritorno tra tanti altri, un eterno movimento dialettico del sempre-ricominciato,bensì affermazione radicale, il segno di una fine assoluta dei tempi, il riassorbimento di una storia umana destinata a chiudersi come una parentesi.
E, d'altra parte, non vi è certo un ritorno «spaziale» o «geografico». E' a giusto titolo che Emmanuel Lévinas, scrive: «Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca, vediamo opporre la storia di Abramo che abbandona la sua patria per una terra ancora sconosciuta e impedisce al suo servitore di ricondurre il proprio figlio al punto di partenza». Nella bibbia non bisogna tornare, bisogna partire.  Lasciare la città - Ur,Fitom, Babilonia -che è realizzazione umana e luogo di perdizione (ma anche, in seguito, luogo di redenzione: è nelle grandi città che il cristianesimo nascente fa i suoi progressi più spettacolari), per andare verso la Terra promessa. «Il destino giudeo», afferma Shmuel Trigano, «è sempre di andarsene da Ur di Caldea verso Eretz-lsraél» (conversazione con Sillages, Gerusalemme, ottobre 1980).  Quello che conta, in effetti, è solo il punto d'arrivo, determinato (allo stesso titolo del punto d'arrivo della storia) dalla «promessa» dell'Alleanza, e non il punto di origine. Eretz-lsraél non è una terra di origine; non è là che gli uomini della Bibbia sono stati generati.  Prima di essere conquistata, Eretz-lsraél è una terra donata,attribuita, promessa da lahvé.  L'uomo del paganesimo sperimenta il'luogo dove è nato attraverso un rapporto di filiazione.  Ha la sua «madre-patria».  Nel monoteismo biblico, al contrario, non vi è terra natale; non vi è che una terra finale, una terra di destinazione, che non spicca per alcun mitico fondatore, ma per una finalità e, particolarmente, per una finalità più temporale che spaziale; poiché l'appropriazione di essa costituisce un requisito del sopravvenire dei tempi messianici.  La terra d'Israele è promessa due volte: innanzitutto da lahvé a Mosè (Esodo 6, 8; 23, 20-33) quando essa appartiene ancora agli Ittiti, agli Amorrei e ai Cananei, e poi all'epoca dei profeti («lo prenderò i figli d'Israele dalle genti fra le quali sono andati e li radunerò da ogni Parte, e li ricondurrò nella loro terra: farò di loro un solo popolo nella mia terra e sui monti d'Israele», Ezechiele 37, 21-22).  Ancora, è promessa nel senso in cui si chiamava «promessa» la fidanzata di un uomo.Eretz-Israel costituisce in effetti la fidanzata ,la futura sposa degli ebrei.  La Bibbia sviluppa ampiamente il simbolismo degli sponsali.  L'evento del Sinai è interpretato come il giorno delle nozze con lahvé; la legge del  Sinai costituisce la ketuba, il contratto di matrimonio . Il popolo d'Israele non è figlio di una terra; è figlio solo di lahvé, nell'ambito di una relazione di figliolanza di cui già abbiamo cercato di mostrare tutte le ambiguità.  Non è sulla terra di Israele, per nascita ed eredità, che esso si è formato, ma in Egitto e nel deserto, attraverso un atto morale e religioso.  Eretz-lsraél è una fidanzata, una sposa, una delle madri-terre onorate da ma non può divenire una madre-una delle madri-terre onorate dagli idolatri.  Essa è una terra che non diventa natale che per procura, in modo contrattuale; è una «terra natale che non deve nulla alla nascita» (Emmanuel Lévinas, Noms propres, Fata Morgana, 1976).  Da qui l'intera teologia dell'esilio e del «ritorno» (i cui limiti abbiamo già indicato), associata a quella del silenzio e della parola.  Da qui anche, forse, più alla lontana, la già ricordata teoria freudiana del complesso di Edipo che fa della rimozione di un attaccamento non «risolto» alla madre una fonte di nevrosi - così come i profeti fanno dei persistente attaccamento alla madre-terra una fonte di «idolatria».
Nella Genesi, uno dei tratti caratteristici di Caino è il suo desiderio di frontiere.  Egli vuole materializzare la sua appartenenza.  Secondo un midrash, se Caino ha ucciso Abele è perché quest'ultimo non ha voluto rispettare una spartizione sulla quale i due fratelli si erano accordati.  In questa divisione, Caino aveva ottenuto questo mondo e Abele il «mondo futuro».  Ma Abele avrebbe in seguito avanzato pretese anche su questo mondo perché, a stretto rigore, avendo il mondo un solo creatore, non avrebbe potuto essere veramente diviso (e la collera dì Caino diventa così, a nostro avviso, ben comprensibile!).  Condannato all'esilio e installatosi «nel paese di Nod» (Genesi, 4, 16), Caino compie poi la scelta propriamente «pagana» dell'intensità contro la durata, dello spazio contro il tempo-eternità.  Costruendo una città, come abbiamo visto, egli cerca di gettare le basi visibili di un regno o di un impero - ed è in questo che risiede il suo «orgoglio».  Egli trasforma, dicono giustamente Josy Eisenberg e Armand Abecassis, la sua richiesta temporale in richiesta spaziale» (Moi, le gardien de mon frère?, cit.).
L'atteggiamento della Bibbia a proposito dello stanziamento è dunque estremamente ambiguo.  La sedentarietà, in opposizione al nomadismo, vi acquista un significato negativo.  Eisenberg e Abecassis giungono a leggervi una condanna del patriottismo, «sentimento pagano fondato sulla relazione carnale dell'uomo con la terra, identica alla relazione filiale dove l'infante è geneticamente determinato» (ibidem). «La libertà quanto alle forme sedentarie dell'esistenza è,forse, la forma umana di essere nel mondo», afferma da parte sua Lévinas (Difficile liberté, cit.) - il che è solo una mezza verità, poiché la libertà «propriamente umana» di fronte ad un habitat fisso non costituisce la legittimazione del principio del rigetto di tutti gli habitat fissi. E'anche curioso vedere come la festa di Succot, in origine tipicamente agricola (cfr.  Deuteronomio 16, 13-16), è divenuta in seguito festa nomade.  Anche dopo la costituzione della sovranità di Israele e l'installazione nella Terra promessa, la vocazione al nomadismo continuerà del resto ad essere incarnata dai gerim, la cui vita è lunga peregrinazione (maggour).  E' presso di loro che saranno reclutati, nel IX secolo prima della nostra era, i primi settari rekabiti, quando il nomadismo sarà inteso non più come un semplice modo di vita, ma come un efficace mezzo per salvare i princìpi dell'Alleanza.  Ed è pure tra i gerim che si trovano i leviti, casta che, dopo il ritorno a Canaan, si definirà come la «tribù senza terra» e continuerà a perseguire un ideale che è sembrato trionfare a partire dalla distruzione del secondo Tempio. «Rifiutando la terra», precisa André Neher, «i leviti rifiutano allo stesso tempo la civiltà cananea, essenzialmente sedentaria.  La vita economica di Canaan poggiava sull'agricoltura e il commercio... Ora, i leviti non si cananeizzarono affatto.  Soli tra tutti gli Ebrei, essi non si diedero alle attività contadine (coma fanno gli Ebrei dal momento della loro entrata a Canaan) nè al commercio, come pure faranno più tardi gli Ebrei, quando anche le parti più ricche del paese saranno loro sottomesse» (L'essence du prophétisme, Calmann-Lèvy, 1972).
Nella Bibbia l'universo è dunque concepito come un mondo senza frontiere spaziali, ma limitato nel tempo, mentre nel paganesimo è concepito come un mondo illimitato nel tempo ma in cui l'uomo ha il compito di tracciare delle frontiere spaziali.  E tali frontiere pongono l'uomo come padrone del luogo che occupa.  Le frontiere nel tempo, cesure assolute, mostrano soltanto tutto ciò che distingue l'uomo da Dio.  In un caso si ha il radicamento e la specificità; nell'altro, la vocazione all'universalismo ed alla deterritorializzazione. «L'insediamento in un paesaggio, l'attaccamento al luogo, senza il quale l'universo diventerebbe insignificante ed esisterebbe appena», scrive ancora Lévinas, «è la scissione stessa dell'umanità in autoctoni e stranieri» (Difficile liberté, cit.). Questa «scissione» non implica tuttavia in principio né il rigetto né il disprezzo.  Essa costituisce piuttosto la condizione prima per il mantenimento e il rispetto delle differenze collettive.  E' non è detto allo stesso modo dell'ideale dell'abo
lizione delle frontiere, in cui Thorleif Borman (Das hehrdische Denken im Vergleich mit dem Griechischen, Vandenhoek u. Ruprecht, Góttingen, 1954) vede, secondo la Bibbia, lo stato normale, se non la destinazione del mondo.  Ideale assai vicino, in ogni caso, all'apologia contemporanea dell'uomo dalle suole di vento, del «rizoma» deleuzo-guattariano (in opposizione alla «radice») e del nomadismo universale, in un mondo in cui il non-luogo dell'anonimato desertico tende sempre più ad essere rimpiazzato dal non-luogo dell'anonimato urbano - mentre la città «mondiali» non sono più il luogo della storia in via di compimento, ma il luogo del suo simulacro e del suo annientamento.
André Chouraqui parlava di un «mondo verbale».  Il primato del tempo-eternità va in effetti di pari passo con quello della parola.  E'l'azione (dell'uomo) che produce l'intensità, ma è la parola (di Iahvé)
che agisce sulla durata.  Nella Bibbia, la parola è la realtà decisiva del mondo dell'esperienza vissuta.  Al limite, il mondo si confonde con la parola per mezzo della quale fu creato: in ebraico lo stesso termine,davar, indica indifferentemente l'oggetto e la parola.  Nel paganesimo, la realtà decisiva del mondo dell'esperienza vissuta è il fatto che risulta dall'azione.  La frase di Goethe: «In principio era l'azione» risponde a quella delle Scritture: «In principio era il Verbo».  Di fronte alla sinfonia del mondo,che regna nelle religioni pagane, la Bibbia pone così il silenzio come forma metafisica del cosmo (André Neher), silenzio in cui risuona soltanto il logos, la parola di lahvé - benché,
in ultima istanza, l'essere di questo essere-là non possa, esso stesso, identificarsi con il silenzio.
Il mondo giudeo-cristiano è un mondo scaturito dalla parola.
E'per questo che il nome di lahvé, nome impronunciabile, è dichiarato onnipotente (cfr. salmo 8). E' la parola che crea il legame tra l'essere creato e l'essere increato.  Si legge nella Genesi: «Iddio disse: Sia la luce!» (1, 3).  Nella fase dinamica della creazione si entra attraverso l'intermediazione del logos.  Nella Bibbia il «fare» è immediatamente legato al «dire», a ciò che si enuncia e si ascolta, si proferisce e si-intende.  Detta o scritta, la parola è Rivelazione: sublimazione del comportamento verbomotore.  Quando Elohim «prende» Adamo per metterlo nel giardino dell'Eden (Genesi 2, 15), è per mezzo della parola che effettua questa presa.  E'anche l'insuccesso del «dire» di Caino ad Abele (Genesi 4, 8) che provoca il fratricidio.  Ed è pure così, infine, che il mondo è creato in dieci parole (nella tradizione rabbinica,la formula «In principio» è considerata come una parola, la decima, che si aggiunge alle altre nove), è per mezzo di dieci parole, dieci «Cornandamenti», che la legge di lahvé è consegnata a Mosè sul Sinai.

[tratto dal libro Come si può essere pagani, 1984]