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L'albero sul crinale. Figli e padri nella letteratura

di Andrea Sciffo - 04/10/2010


 

“Il Selvatico nella società liquida” -  Rovato (Bs), 2 ottobre 2010

 

        

         Il padre è quell’uomo che viene troppo presto considerato obsoleto o superato, e i cui figli trovano difficilissimo parlargli proprio nei momenti in cui sarebbe decisivo, o risolutivo o di conforto: questo accade, perché la paternità vive in una specie di separatezza e cresce alimentandosi di silenzi. Il padre sarebbe dunque la persona giusta da interpellare proprio quando non la si va a chiamare, così che la vita adulta smetterebbe di essere segnata dallo sfregio più diffuso: quello che avremmo voluto dire a nostro padre, ma non siamo riusciti a trovare l’occasione, condannandoci perciò a esser orfani prima del tempo.

         Il padre è l’altro radicale, senza il quale però non esisteremmo: cioè la dimostrazione vivente che non ci generiamo da soli, e soprattutto che la vita universale procede mediante rapporti potentissimi ma invisibili. Che rinunciano persino al segno delle tracce materiali di una discendenza, alle somiglianze somatiche, alle affinità biologiche: il riconoscimento della paternità si rivela in un istante di solito brevissimo, ma di un’intensità capace di generare[1] mondi. In questo senso si capovolge una ovvietà del diritto, per cui occorrerebbe dire PATER SEMPER CERTUS, MATER INCERTA. Ecco perché chi fosse convinto che le fedi monoteistiche rivolte a un Dio-Padre siano un retaggio di un passato patriarcale, ossia una rappresentazione maschile e oppressiva destinata a un meritato oblio, difficilmente potrà trovare il sentiero che conduce alla riconciliazione con se stesso, cioè con i Padri.

         La madre (voglio dire “la cultura delle madri” come forma di un Matriarcato infinito che non ha mai cessato di esistere e di agire sino a oggi) si trova dalle origini in un dilemma: se essere madre controvoglia, o volentieri. La maggioranza delle donne vive la maternità innanzitutto controvoglia, perché l’istinto materno non è un istinto; molte però riescono a pronunciare il sì, il “fiat mihi” e allora, quando questo accade, il focolare domestico può essere fondato e prosperare.

         Ma torniamo nell’orbita del paterno. Il padre può sbagliare nei suoi giudizi e nei suoi atti, e difatti spesso erra: determinando in tale modo la rovina. Ma quando le sue sentenze si liberano dall’arbitrario e cadono sopra i figli (o sui sottoposti) a tempo giusto, allora il soggetto giudicato viene liberato e trova la via verso la realtà. Una decisione paterna è giusta quando appare “impersonale” ovvero sembra dura e insensibile: come nella provocatoria giustizia di Re Salomone di fronte al bambino conteso tra due madri[2]; come nei capitoli monastici medievali in cui decideva l’Abate ma in nome di tutto l’albero[3] della famiglia monastica, dei vivi e dei morti. I consigli d’amministrazione moderni, le convenienze borghesi di classe, e le strategie di selezione del personale in azienda sono oggi una parodia pervertita dello spirito vero di una simile procedura.

         Dopo la morte dell’antico PATER FAMILIAS dell’età classica, divenuto anacronistico in seguito alla rivoluzione cristiana del III secolo, da allora tutti diventano figli: con il compito arduo di uscire dalla condizione di minori pur rimanendo legati, cioè senza comportarsi da irresponsabili. È la sfida, persa, della modernità occidentale. Occorre vedere se la cosiddetta “morte di dio” nella filosofia e nella prassi degli ultimi due secoli non abbia portato alla morte del Puer, prima del Puer Æternus poi dei “pueri” in carne e ossa. D’altra parte, se tutti siamo figli, in quale direzione resta aperta la prospettiva, la speranza di diventare prima o poi padri?

         In questo passaggio da figlio-a-padre mi pare che la letteratura possa dare delle indicazioni, che qui elenco:

·         primo, che tutte le società sono sempre “senza padre”: lo si verifica nell’intreccio di un romanzo di culto diffuso in tutto il mondo, Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien (e in un analogo capolavoro, Il cavallo rosso di Eugenio Corti);

·         secondo, che la discrezione paterna segue la legge dell’Et-Et anche quando sembra prediligere l’Aut-Aut: io lo vedo chiaramente nell’opera culturale e personale di figure colossali del ’900 come il russo Pavel A. Florenskij e il polacco Karol Wojtyła;

·         terzo, che solamente l’impronta paterna può sbloccare la logica maledetta dell’ideologia industriale/mercantilista oggi dominante, per la quale si lotta per la scarsità in un mondo in cui trionfa l’abbondanza dei Beni: qui ci soccorre lo studio geniale di un sociologo come Ivan Illich;

·         quarto, che di contro a una civiltà dell’interesse economico, e dunque del cinico dissimulato disinteresse per tutto il resto, la grande letteratura rivela i lineamenti del padre come il vero “interessato” (dal latino INTER-ESSE = stare in mezzo a… essere nel cuore del…): la natura del padre è quella di aggiustare, riparare, cioè compiere il miracolo del Ricongiungimento. Rimando qui all’incompiuto romanzo di Hugo von Hofmannsthal Andrea o I ricongiunti (1918) e alla Bibliografia che accludo.

 

È infine evidente come il compito paterno consista nel portare i pesi, in poesia soprattutto il peso delle parole, ma che un simile compito non sia affatto un compito ingrato: la sensazione è ben nota a chi ha ancora dei figli piccoli e li porta in spalla, come un novello San Cristoforo. Si può parlare di “dolce peso”.

              Ciò avviene anche e soprattutto ora, nel nostro tempo, nonostante pochi padri riescano a perseverare sino alla fine; la crisi dei cinquant’anni[4] e lo spauracchio dell’invecchiamento vitale e professionale hanno avuto effetti devastanti. Ma non per questo il compito del padre cambia: è e rimane quello della tenuta, bisogna tenere. La lingua italiana offre un illuminante doppiosenso al proposito: quando si dice che uno “ha retto” o “non ha retto”, si usa lo stesso vocabolo che designa l’uomo giusto, retto; non lasciamo ai mercati azionari la prerogativa di “tenere”: sono i padri, corporali o spirituali, a dover tenere soprattutto di fronte all’incertezza dell’altro, degli altri, di tutto.

 

Andrea Sciffo

BIBLIOGRAFIA

 

Jacopo da Varagine, Legenda aurea                        (1295 ca.)

Italo Svevo, La coscienza di Zeno                 (1923)

Pavel A. Florenskij, Ai miei figli                (1925)

John R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza (Lettere 1914-1973)

Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore   (1953)

Karol Wojtyła, Raggi di paternità                (1964)

Rodolfo Quadrelli, La tradizione tradita     (1973-’76; rist.1995)

Eugenio Corti, Il cavallo rosso                     (1983)

Jan Dobraczinky, L’ombra del padre                       (????)

Jean Guitton, La mia autobiografia             (????)

Claudio Napoleoni, Cercate ancora             (1990)

Alx Langer, Il viaggiatore leggero                  (1996)

Ivan Illich, La perdita dei sensi                     (2004; 2009)

Ivan Illich, I fiumi a nord del futuro              (2005; 2009)  

 

 

ANTOLOGIA

 

Ulisse si fa riconoscere dal padre Laerte, nel Libro XXIV (vv.205-385)

 

“La cara imagine paterna … come l’uom s’etterna”: Dante a Brunetto Latini, Inferno XV

 

Svevo

Calvino

Cesare Pavese

Florenskij

 

Karol Wojtyla, Raggi di paternità (Cracovia, 1964: sotto lo pseudonimo di Andrzej Jawień, atto II 3.1)

 

[Adamo]

L’indomani ci capitò di camminare nel folto

del bosco. Sul limitare della selva,

là dove finiscono i magnifici pini d’alto fusto

e con loro l’ombra, là dove gli alberi finiscono

e con loro gli aghi e il muschio, là dove

finisce il morbido sottobosco e inizia una radura:

un intrico di cespugli e polloni, attraverso cui

occorre aprirsi un varco per raccogliere lamponi e more.

                           Il nostro cammino passa per di là.

Però non basta guardare dal di fuori. Devi entrarci.

La boscaglia che è in me tu la conosci: quanti uomini

si convinceranno che nessuno di noi

è una totalità chiusa e definitiva?

 

Veglia Pasquale 1966, “Storia dell’albero ferito” (II,1)

…anche attraverso me cresce l’albero ferito (zranione drzewo).

 

[4]  Disse l’albero:

non temere, se sto morendo – non temere di morire con me,

non temere la morte – perché, guarda, rivivo:

non temere di morire con me per rivivere.

[5] Dissi: ebbene, cresci e superami…

Si crea allora uno spazio dove ognuno ha il suo posto –

e ognuno resta se stesso  pure ricominciando la vita.

 



[1] È infatti l’esatto opposto della Gravidanza, con la sua lunga Gestazione e con il suo doloroso “varco” finale del Travaglio, che consente al Nascituro di venire al mondo.

[2] I Libro dei Re, 3,16: le due donne erano, peraltro, delle prostitute.

[3] Si confronti l’immagine della ramificazione vivente dei “figli-padri” nell’Ordine Benedettino.

[4] Riccardo Paradisi, ABBATTERE LA GENERAZIONE L (dei cinquantenni postrivoluzionari ora al potere), su IL DOMENICALE, 12 luglio 2003