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Dove sei?

di Francesco Lamendola - 08/10/2010





Da alcune settimane non ti sento più e non so nulla di te.
Non so a che punto sia giunta la tua malattia e, non avendo il tuo indirizzo, non ho alcun modo per saperlo.
So solo che non hai voluto parlarne ad alcuno, tranne a me: e adesso eccomi qui, che ignoro perfino se tu sia ancora qui, fra noi, oppure se…
Non ti ho dimenticata e spesso mi vieni in mente.
L’immagine del tuo viso, che non conosco e di cui so solo che assomiglia a quello di una nota scrittrice, sembra guardarmi dalla terza pagina di copertina dei romanzi di quest’ultima, quando essi per caso mi capitano in mano.
È un viso molto bello, ma come avvolto da un alone di profonda malinconia; gli occhi, specialmente, sembrano brillare per un loro malessere profondo e misterioso, pur somigliando a due stelle luminose nella calma notte estiva.
Sulla bocca regolare, sulle labbra sottili aleggia un vago accenno di sorriso, come inseguendo un suo pensiero segreto, che non si può comunicare agli altri.
E i capelli soffici, tagliati in modo semplice e regolare, disegnano come un alone intorno a quel viso un po’ enigmatico: un alone luminoso, pur essendo scuri.
Guardando quel viso, che somiglia al tuo; lasciandomi intrigare da quello sguardo un po’ allusivo, da quel sorriso indecifrabile, che fa pensare al sorriso della Gioconda o a quello di San Giovanni Battista, nelle due omonime tele di Leonardo, vedo la conferma di una mia antica convinzione: che esiste un mistero veramente abissale in ogni essere umano; un mistero che niente e nessuno possono scandagliare e illuminare sino al fondo…
Forse anche perché non c’è alcun fondo, ma ancora mistero; e poi ancora, e ancora…
Un mistero che arriva fino al centro della Terra, fino al centro dell’Essere: un mistero sacro, davanti al quale occorre avvicinarsi togliendosi le scarpe, per non fare più rumore di quanto ne potrebbe provocare una farfalla che voli sul prato…
E di quel mistero sacro che si cela al fondo di ognuno di noi, anzi, al fondo di ogni essere e di ogni cosa - ammesso e non concesso che vi siano “cose” non viventi e non senzienti - fa parte il mistero ulteriore della vita e della morte.
È strano, non riuscire a pensarti in una dimensione ben precisa.
Ti sento ancora presente, ma non so in quale dimensione: la morte, infatti, è solo una porta che dà accesso ad un ulteriore piano di esistenza.
Non si cessa di esistere con la morte, né si cessa di essere presenti; cambia solo il modo, cambiano solo le circostanze esteriori.
Ma esiste, poi, una distinzione netta e decisiva fra i due stati?
Tanto per fare un esempio: che tipo di esistenza è quella che conduciamo nei nostri sogni, quella che viviamo nella fitta trama dei nostri sogni notturni?
Appartiene alla stessa dimensione di quella che conduciamo allo stato di veglia, giorno dopo giorno, con la nostra mente sempre vigile ed attenta, sempre agitata e irrequieta, ma della quale ci riteniamo - nondimeno - i padroni, in forza della nostra volontà?
E qual è, dopo tutto, il nostro vero «io»: quello del sogno o quest’altro, della veglia e della mente dominata dalla volontà cosciente?
Se tu sei ancora presente, allora non è poi così importante sapere da che parte ti trovi rispetto al «confine» che, prima o poi, dobbiamo tutti attraversare.
Sei andata in avanscoperta; ci precedi di un poco: tutto qui.
Forse non è un confine così netto come si crede.
Forse esiste una vasta zona di nessuno, una vasta «terra nullius», nella quale l’anima si raccoglie in vista del grande evento, del passaggio verso una dimensione ulteriore dell’esistenza, diversa da quella materiale.

*  *  *
È veramente strano parlare così con qualcuno che, forse, non è più vivo; meno strano, pensando che questo qualcuno non l’abbiamo mai visto di persona, pur se con lui vi è stato uno scambio di amicizia su un piano profondo, quale raramente si manifesta tra persone che, se lo vogliono, hanno la possibilità di vedersi e interloquire faccia a faccia in qualsiasi momento.
Ma che cosa vuol dire, poi, l’espressione “non più vivo”?
C’è qualcosa di non vivo, al mondo?
Le persone che fisicamente ci hanno lasciati per sempre, davvero non sono più “vive”?
E cosa sono, allora?
Non sono più nulla?
Lasciamo che così credano i seguaci del riduzionismo, chiusi per principio a qualunque possibilità che esista una dimensione“altra” rispetto a quella puramente materiale.
In quella amicizia vi sono stati dei momenti assai toccanti ed alcuni altri, perché negarlo, di forte tensione.
Accade che la propria malattia, magari del tutto inconsapevolmente, possa venire adoperata come una forma di potere,  nemmeno tanto occulto;  se non, addirittura, come una vera e propria arma psicologica.
È  abbastanza normale, dopotutto. Il malato non è un alieno, ma un normalissimo essere umano che si trova a dover portare sulle spalle un fardello  più pesante del previsto, cui forse non era preparato: e chi può dirsi davvero preparato ad una esperienza del genere?
Nessuno lo è, perché solo quando si viene messi alla prova, si scopre quanta forza si possieda realmente.
A parole, possiamo sentirci tutti forti, sereni e ben centrati in noi stessi.
Se, poi, per una serie di valutazioni - giuste o sbagliate che siano - colui che viene colpito dal male sceglie di non dire a nessuno della propria malattia, agevolato in questo dall’assenza di gravi sintomi esterni, e di non intraprendere alcun tentativo di cura, tranne la fede e la preghiera; ma di aprire interamente la propria anima ad un’altra persona, magari conosciuta per via virtuale e che non ha mai visto, né mai vedrà in carne ed ossa, allora vi sarebbe da meravigliarsi se la cosa non presentasse dei rischi e dei momenti di difficoltà, insieme ad altri di gratificante sintonia e di sincera condivisione.
Del resto, cara amica, la domanda: «Dove sei tu, adesso?», potrebbe essere facilmente rovesciata in quest’altra, molto più impegnativa e imbarazzante, perché ci interpella tutti in prima persona:«Dove sono io; dove siamo noi tutti, in questo momento?».
Allo stesso modo, a ben  riflettere - il paragone un po’ scherzoso potrebbe sembrare fuori luogo, ma l’intento è proprio quello di sdrammatizzare l’atmosfera -, si potrebbe tranquillamente rovesciare la targa «Centro di salute mentale» (una volta si diceva «Manicomio», punto e basta) dall’esterno verso l’interno di una di quelle strutture psichiatriche; suggerendo che, forse, i veri matti non sono là “dentro”, ma qui “fuori…”.
I vivi - vivi in permesso temporaneo, non dimentichiamocelo mai - sono fermamente persuasi, per qualche strana ragione che non si sono presi la briga di analizzare, di essere i soli inquilini “reali” del palazzo chiamato Vita; e che i defunti- così come, del resto, i non ancora nati - godano, per così dire, di uno statuto ontologico di serie B, essendo scaduta la validità dei loro documenti. Concezione, al tempo stesso, ingenua e presuntuosa, che tradisce una profonda ignoranza ed un allarmante livello di inconsapevolezza.
In effetti, gli esseri umani sono tutti, in un certo senso, morti: la maggioranza, le infinite generazioni che ci hanno preceduti, già lo sono; gli altri, in attesa di esserlo.
Ma che cosa significa, realmente, essere morti?
Nulla scompare del tutto; ogni cosa permane, ogni cosa ritorna.
I morti sono dei vivi che hanno raggiunto un ulteriore livello della loro evoluzione; non sono morti nel senso di “finiti”, ma nel senso di “compiuti” e, quindi, perfetti rispetto alla vocazione fondamentale della vita, che è quella di rinnovare incessantemente se medesima.
Siamo noi, i cosiddetti vivi, ad essere imperfetti: perché dobbiamo ancora passare attraverso la soglia di quel rinnovamento.
In quanto vivi, siamo altamente imperfetti, vale a dire “non compiuti”: come una statua appena sbozzata, ma non ancora ultimata dalle mani di un abile scultore.
Balbettiamo, incespichiamo per avanzare verso la pienezza: e solo la porta stretta della morte potrà darci il modo di raggiungerla; così come solo la porta stretta dell’utero materno, può dare accesso alla vita fisica, per il bambino che viene alla luce.

*  *  *
E così, cara amica, ti ringrazio per avermi aiutato a riflettere su queste cose.
Ci sono dei “vivi” che tali non sono mai stati, nemmeno per un giorno; mentre i “morti” sono più che mai qui, presenti.
Sicché tu starai leggendo queste righe in ogni caso, in un modo o nell’altro.
O meglio: solo se sei “viva” potresti anche non leggerle, qualora non avessi deciso di installare nuovamente Internet; mentre, se hai oltrepassato la soglia della morte, non più limitata dallo spazio e dal tempo, sicuramente le starai leggendo. Si fa per dire; certo, non “leggendo” nel senso letterale del termine.
Chi ha oltrepassato la barriera dello spazio e del tempo, conosce in tutti i casi i pensieri di quaggiù, che vengano messi per iscritto o che siano soltanto concepiti dalla mente.
È un errore pensare ai nostri cari defunti come a degli assenti, come a delle ombre vaghe che si aggirano, pallide e impotenti, in un umbratile aldilà.
Loro sono nella luce; siamo noi a rimanere in penombra, fino a quando le bende non ci cadranno dagli occhi e non saremo in grado di fissare la luce a nostra volta.
Non tutti i trapassati, in realtà, sono nella luce: solo quelli che si sono preparati a vedere; solo quelli che hanno affinato almeno un poco, di solito passando attraverso la sofferenza, la loro facoltà visiva interiore.
Gli altri, coloro che hanno percorso le strade della vita sprofondati nel buio dell’ignoranza, rimangono nelle tenebre anche dopo aver varcato la soglia dell’altra dimensione: dovranno fare dell’altra strada, lunga e difficile, prima di incominciare a intravedere un po’ di chiarore, a loro volta.
Questa è la legge eterna. La morte non è un lasciapassare indiscriminato: si muore come si è vissuto; si continua ad esistere, di là da quella soglia, in maniera conforme all’impegno che si è messo in questa vita, per far partorire la propria parte luminosa.
Ma le persone che hanno amato veramente, senza dubbio ora sono nella luce; e vorrebbero che anche noi lo fossimo.
Hanno perdonato le offese, e da gran tempo; non serbano più memoria del male che, forse, qualche volta abbiamo provocato loro, quando era involontario: desiderano solo il nostro bene, la nostra pace.
Sono diventati spiriti di luce, nostre guide nel cammino che ci rimane da percorrere nella presente dimensione, quella fisica.
Sappiamo che ci sono al fianco, perché il legame che ci univa, se era puro, non è stato spezzato dalla morte: nulla può la morte contro la forza dell’amore.
L’amore è invincibile, oltrepassa gli abissi dello spazio e del tempo.
E noi siamo quaggiù per amare, non per odiare.
Anche questa è la legge, la grande legge cosmica; ed è la nostra più profonda vocazione.