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Cosa si nasconde dietro l’avversione implacabile della donna nei confronti delle altre?

di Francesco Lamendola - 14/10/2010





«Homo homini lupus», sentenziava quattro secoli fa il filosofo Hobbes; e definiva la vita in generale: «Bellum omnium contra omnes».
Forse la cosa andrebbe chiarita ulteriormente, guardandola più da vicino.
Se vogliamo essere imparziali osservatori, non tarderemo ad accorgerci che le idee di Hobbes non si applicano al genere umano indistintamente, ma alla metà di esso che corrisponde all’universo femminile.
Anche qui, però, l’affermazione va precisata.
Non si tratta solo della profonda, tenace, implacabile ostilità della donna nei confronti delle altre donne, che sorge immediata come un riflesso condizionato e che non demorde neppure davanti ad una evidente sproporzione di età, di condizione sociale o di livello culturale; né del fatto che si tratta di un moto assolutamente istintivo e primario dell’animo femminile, quantunque con alcune, rarissime eccezioni.
Si tratta anche del fatto che tale ostilità non scatta solamente in presenza di condizioni di minaccia, reale o potenziale, come la paura di incontrare una rivale che le sottragga il bene amato dell’uomo (che può essere il proprio compagno, ma anche un uomo qualsiasi, che POTREBBE interessarla, forse domani, forse mai); ma sempre e indistintamente, senza remissione e senza pietà: fino a immaginare, progettare ed, eventualmente, mettere in atto le più raffinate cattiverie, pur di “far fuori” l’altra.
L’altra: questa è la vera, la profonda ossessione della donna; l’altra da odiare, da disprezzare, da temere, da voler eliminare a qualunque costo, con qualunque mezzo, ma preferibilmente con le armi della insinuazione, della maldicenza, della calunnia.
Un uomo normale non prova nulla di simile nei confronti degli altri maschi: è più probabile che li ignori; ma è anche abbastanza frequente il caso che egli si metta in un atteggiamento di calma disponibilità e di benevolenza verso di essi; a meno, naturalmente, che non si senta concretamente minacciato a livello personale.
Insomma, un uomo normale (e sottolineiamo “normale”; perché ultimamente sta avanzando a passi da gigante un tipo d’uomo che di virile possiede solo l’anatomia) non prova affatto una animosità istintiva e viscerale verso gli altri maschi; mentre la donna non solo la prova verso le altre femmine, ma si potrebbe quasi dire che viva di essa.
Se una donna si compra un vestito nuovo, non lo fa per piacere all’uomo e neanche a se stessa, ma per far crepare d’invidia le sue amiche ed anche le sconosciute; se va in giro lanciando i suoi sorrisi assassini, non lo fa per sedurre il maschio, ma per esercitare una superiorità sessuale sulle altre donne; se si guarda continuamente allo specchio, compreso lo specchietto retrovisore dell’automobile, e si passa a ogni momento il rossetto sulle labbra, non lo fa per il piacere di essere sempre impeccabile e attraente, ma per fare ombra alle altre, per sopraffarle, schiacciarle ed umiliarle.
Se si parla di una donna con un’altra donna, immancabilmente usciranno delle mezze frasi di diffidenza, di critica o, quanto meno, dei silenzi carichi di ostilità; cosa che non succede affatto ogni volta che si parla di un uomo con un altro uomo.
La prova di ciò si è vista negli anni ruggenti del femminismo, quando molte donne teorizzavano la bellezza di vivere senza il maschio sfruttatore e padrone: il lesbismo trionfante, che ne era la naturale conseguenza, non faceva che riprodurre le dinamiche di potere della coppia eterosessuale, ma con una carica assai maggiore di aggressività e di esasperata sopraffazione. E le femministe oneste erano, poi, le prime a riconoscerlo.
Alla donna non basta parlar male dell’altra donna, metterla in cattiva luce, evidenziarne in ogni modo i difetti e rimarcarne gli errori; no, la vorrebbe annientare, sopprimere, cancellare dalla faccia della terra e spargere il sale sulla sua tomba; vorrebbe far sì che non fosse mai esistita, che ne sparisse per sempre anche il ricordo.
Quando una donna entra in un locale pubblico, i suoi primi sguardi non sono per gli uomini presenti in sala, bensì per le altre donne; e, specialmente se ne vede una giovane e carina (ma non solo in quel caso), subito la passa ai raggi X per scovarne il punto debole, il varco attraverso il quale coglierla impreparata e, se appena ciò diviene possibile, per colpirla, ridicolizzarla, distruggerla. E ciò non solo per prepararsi a togliere di mezzo una possibile rivale, ma proprio per il piacere della malignità fine a se stessa.
Questo atteggiamento è stato ben descritto in un brano del racconto «Sogno ed ebbrezza di una giovane», della scrittrice  argentina, ma di origini ebraico-ucraine, Clarice Lispector (dal suo libro «Legami familiari» (titolo originale: «Laços de família», traduzione italiana di Adelina Aletti, Milano, Feltrinelli, 1986, p.12):

«Che disprezzo per le persone aride della sala, non un uomo che fosse un uomo davvero, o che almeno fosse triste. Che disprezzo per le persone aride della sala, mentre lei era pingue e pesante, e illimitatamente generosa. E tutti nel ristorante erano così distanti tra loro, come se nessuno potesse parlare con gli altri. Ognuno per sé, e Dio per tutti.
I suoi occhi tornarono a fissare quella ragazza che già all’ingresso le aveva fatto saltare la mosca al naso. Già all’ingresso ‘aveva vista seduta al tavolo col suo uomo, tutta fronzoli, dorata come uno zecchino, con quell’aria innocente e delicata - che meraviglioso cappello aveva! - e sicuramente non era neanche sposata, nonostante ‘aria da santarellina. Col suo elegante cappello messo. Buon pro ti faccia la tua bigotteria  e che la boria non ti cada nella minestra. Le più santarelline erano poi le più scaltre. E il cameriere, quel grosso idiota, che la serviva pieno di attenzioni, il furbacchione: e l’uomo giallastro che l’accompagnava  che fingeva di non vedere niente. E la santarellina tutta compiaciuta nel cappello, tutta modesta nel suo vitino di vespa, magari non era nemmeno capace di dare un figlio al suo uomo. In verità non aveva niente da spartire con lei, tuttavia già all’ingresso le era venuta voglia di Andare al suo tavolo e di riempirle la faccia con una buna dose di ceffoni,, quella faccia di santa bionda della ragazza, quella superbia col cappello. Che poi non era neanche un po’ tornita  ed era piatta di seno; probabilmente con tutti i suoi capelli non era altro che una ortolana travestita da gran dama.
Oh, come si sentiva umiliata per essere venuta alla trattoria senza cappello, la sua testa le sembrava nuda. E l’altra con le sue arie da signora, che fingeva di avere stile. “Lo so io cosa ti manca, nobiluzza, a te e al tuo uomo giallastro! E se credi che abbia invidia di te, e del tuo seno piatto, sappi invece che mi rodo unicamente per il tuo cappello. Le stronze come te, che si fanno pregare, io le riempio di schiaffi”.
Nella sua giusta ira, allungò la mano con difficoltà e prese un o stuzzicadenti.»

La “semplice” rivalità non basta a spiegare siffatto atteggiamento, che arriva fino a capovolgere totalmente il comune sentire e qualsiasi moto di solidarietà morale: come nel caso, largamente diffuso e non tratto da un testo letterario, ma dalla realtà della vita di ogni giorno, riferito a proposito della usanza feudale dello «ius primae noctis» (da: Luigi Scocco, «Guida turistica del Gargano», Manfredonia, Tip. Prencipe, 1968, p33):

«Lo “Jus primae noctis” era un’antica usanza, le cui origini sono ignote,  ma che nei paesi del Gargano era in atto fino a pochi secoli addietro…Tale usanza assurda e barbara sembrerebbe impossibile, eppure storicamente ci è stata storicamente tramandata di generazione in generazione…A volte capitava che la vittima predestinata a tale turpe sacrificio venisse rimandata… indenne allo sposo in attesa, o perché non fosse stata gradita al castellano o perché il medesimo avesse in serbo… merce migliore. Contrariamente ad ogni logica tale ripudio, in quei tempi, costituiva un demerito per la sposa, la quale, quando veniva a diverbio con le amiche, doveva ingoiare questo tremendo insulto alla sua femminilità: “Va là, che a te nemmeno il Principe ti ha voluta!…”»

Insomma tutto va bene ad una donna, ma proprio tutto, pur di colpire nel modo più duro e spietato un’altra donna; perfino l’arma più impropria, più inverosimile.
Sbagliano totalmente, perciò, coloro i quali pensano che il mondo sarebbe migliore, se a governarlo fossero le donne; sbagliano quanto coloro i quali pensano che vivremmo in Paradiso, se a governarlo fossero i bambini.
Un mondo governato dai bambini lasciati a se stessi sarebbe qualche cosa di molto simile all’Inferno, così come appare nel romanzo di William Golding «Il signore delle mosche»: brutale, sfrenatamente egoistico, senza un’ombra di misericordia.
Gli adoratori della “dolcezza” femminile sono, probabilmente, gli stessi che adorano la “dolcezza” di colombe e caprioli: gli animali probabilmente più spietati che esistano nei confronti dei propri simili, a dispetto del fatto - o magari proprio a causa del fatto - che non possiedono potenti armi di offesa naturali.
Davanti alla cattiveria e alla malevolenza inesauribili, implacabili e assoltamente spontanee della donna verso le altre donne, viene da domandarsi se l’istintiva gelosia sia sufficiente a spiegarle; se, cioè, tutto sia riconducibile alla scarsa stima di sé, al timore di vedersi sorpassata e soppiantata da una rivale più bella, più giovane, più intelligente, più elegante.
Crediamo di no.
C’è qualcosa di più profondo, di più viscerale, di più inconfessabile in una così immensa carica di avversione, che non conosce pietà e non concede quartiere, mai, per nessuna ragione al mondo; qualche cosa di torbido.
Si rifletta che l’odio più grande non è altro che una forma mascherata e stravolta di amore: di amore respinto, di amore frustrato, di amore inconfessabile. Le persone che ci sono indifferenti non suscitano mai il nostro odio; solo quelle che segretamente ci attraggono, lo fanno; e lo fanno tanto più impetuosamente, quanto più noi ci sforziamo, con la nostra parte razionale e volitiva, di negare la verità dei nostri sentimenti. Spesso tutti gli altri vedono chiaramente come stanno le cose; solo noi non lo vediamo; solo noi crediamo di poter continuare all’infinito la commedia, ignari del ridicolo che ci stiamo attirando addosso.
E dunque, con buona pace di Freud e di tutti gli acclamati stregoni della psicanalisi, il tarlo fondamentale della donna non è affatto l’invidia del pene, ma un amore indicibile per l’altra: un amore così potente ed istintivo, che, per camuffarlo anche a se stessa, non le resta che rivestirlo con gli abiti dell’odio, e andare in cerca di mille pretesti - la bellezza, la giovinezza, l’intelligenza, l’eleganza - per renderlo plausibile anche a se medesima.
Ci sono delle verità talmente sconvolgenti, che non potremmo continuare a vivere in pace con noi stessi, se le ammettessimo e le portassimo alla luce del sole.
Il guaio è che non si riesce a vivere in pace nemmeno negandole ferocemente e travestendole da qualche cosa d’altro; anzi, in quel caso la pace si allontana ancora di più.
Ecco una spiaggia estiva, ecco dei corpi seminudi e abbronzati sotto gli ombrelloni, lucidi di sudore e di crema solare; ed ecco lo sguardo implacabile della donna che cerca l’altra donna, in apparenza per scovarne i difetti, per soppesarne la minaccia, per individuarne il punto debole e prenderne buona nota, in caso di attacco.
Ma si tratta solo di questo? O c’è qualche cosa d’altro, di meno semplice e di meno facilmente riconoscibile?
Forse non è vero affatto che la donna possieda meno stima di sé, di quanta ne abbia l‘uomo; forse, nel profondo, ella si sente a lui superiore: e non può fare a meno di essere attirata, affascinata, oscuramente sedotta dalle altre donne.
Le percepisce come più belle, più vitali, più desiderabili dell’uomo; e ciò con tanta più forza, quanto più la società moderna si è erotizzata, enfatizzando ed esasperando - e sia pure per ragioni meramente commerciali, che niente hanno a che fare col nostro discorso - la seduttività del corpo femminile: perfino il corpo delle preadolescenti, perfino il corpo delle anziane, perfino il corpo delle donne in stato avanzato di gravidanza.
Data anche la maggiore intimità fisica che, rispetto agli uomini,  regna da sempre fra le donne, fra le amiche, fra le colleghe, ci sarebbe semmai da meravigliarsi se tutta questa ondata di erotismo non avesse finito per produrre anche degli effetti collaterali, come quello di irretire nel suo gioco malizioso proprio quelle che credono di servirsene a loro esclusivo piacimento.
Questa è solo una ipotesi, naturalmente; tuttavia…
Che cosa c’è dietro l’apparente frigidità della Mirandolina di Goldoni, che non si stanca di sedurre gli uomini per poi subito deriderli, senza mai concedere loro qualcosa e restando sempre, anzi, perfettamente lucida e fredda?
Che cosa c’è dietro l’isterismo, le convulsioni e la pazzia della Fosca di Tarchetti o della Malombra di Fogazzaro?
Che cosa c’è dietro la fuga dalla casa del marito da parte della Nora di Ibsen, dietro la crudeltà mentale della moglie di Strindberg verso il suo sposo?
Oppure dietro la protagonista de «la donna e il burattino» di Pierre Loüys, che gioca a far impazzire di desiderio il suo spasimante, senza però abbandonarsi mai?
Che cosa si nasconde dietro la fremente indignazione della nobile Katerina Ivanovna davanti al ripudio di una donna dalla dubbia reputazione come la Grušenka: solo orgoglio ferito verso la donna che l’ha umiliata davanti a tutti e che le ha “soffiato” il fidanzato (ma già ormai non amato), Dimitrij Karamazov; oppure un sentimento più oscuro, una pulsione più torbida, nei confronti della rivale?
E cosa c’è dietro la perenne, sfibrante, autodistruttiva insoddisfazione di Madame Bovary, di Anna Karenina e di tanti altri personaggi femminili, tutti ugualmente inquieti e dolenti, fino alle opere di Marcel Proust, di Carlo Cassola, di Marise Ferro, di Kate Chopin, di Virginia Woolf, di Mary McCarthy, di Carson McCullers?
Che cosa c’è dietro le mille, le centomila, i milioni di donne che non si appagano né della maternità, né dell’amore del loro uomo, né della professione o del successo sociale, ma che si rodono di gelosia e si arrovellano per rovinare la propria sorella, la propria vicina, la propria compagna di classe, la propria collega, in una guerra sotterranea e non dichiarata che consuma letteralmente le loro energie vitali, senza mai tregua, sino allo sfinimento, sino al delirio?
Forse qualcosa che non osano confessare nemmeno a se stesse?