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L'orgoglio dei cileni (e del lavoro)

di Miro Renzaglia – Susanna Dolci - 14/10/2010



“CI-CI-CI-LE-LE-LE”
ORGOGLIO NAZIONALE DEL LAVORO
miro renzaglia

 

.Ce ne dimentichiamo troppo spesso. Umile quanto basta per garantirsi un tetto e un piatto di minestra per sé e per i propri figli, talvolta duro da morire o quasi, sempre più schiacciato dalle esigenze del profitto a qualunque costo, dal precariato, dai licenziamenti, delle ristrutturazioni aziendali: è il lavoro. Distratti da accadimenti che non producono un solo chicco di grano, un litro di latte, un mattone o un bullone delle nostre automobili o delle nostre biciclette, che non muovono né un autobus o un treno, dimentichiamo troppo spesso – dicevo –  che è ancora, lui: il lavoro dell’uomo, a mandare avanti il mondo in cui viviamo.

Poi, improvvisamente, da un incidente che poteva trasformarsi in tragedia, e che invece si è risolto bene, emerge una voce: «Ora non trattatemi come una star. Vi chiedo di continuare a trattarmi come Mario Sepulveda: un lavoratore, un minatore». Sono queste le parole che Mario Sepulveda ha pronunciato ieri, appena risalito alla superficie dalle viscere della terra dove, insieme a 32 compagni della miniera di rame di San José, nella provincia di Copiapò nel Nord cileno, si trovava sepolto dal 5 agosto, a seicento metri di profondità. Nessuna retorica, per carità, ma quanta orgogliosa consapevolezza, nelle sue parole, di sapersi partecipe dell’attività umana fondativa. No, non chiamatele star. Non fate di quelle facce sporche di sudore e fatica delle soubrette da studio televisivo, non incipriatele, non portatele in qualche Isola dei Famosi. Lasciateli a quella loro identità di uomini del lavoro, umile e duro, che rivendicano con piane parole di semplicità.

Quindi, tutti salvi per fortuna. Per fortuna? No: diamo a cesare quel che è di cesare e alla tecnica quel che è della tecnica. Che produrrà pure qualche guasto ambientale quando viene usata male (penso alla marea nera nel Golfo del Messico), qualche nevrosi, qualche complicazione ma, vivaddio, qualche volta i suoi progressi sono salvifici. Non era semplice, né tanto meno scontato il recupero dei minatori intrappolati sottoterra. Ricordate la vicenda di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano a Vermicino? Era il 1981 e la povera creatura era scivolata a soli 36 metri di profondità. Non ci fu verso, con le risorse di allora, di riuscire a tirarlo fuori da quel buco. Stavolta, sono riusciti  a tirar fuori 33 persone ad una profondità venti volte superiore. Fra i protagonisti di questa impresa, un posto va trovato alla “Capsula Fenix”: pura ingegneria meccanico-geologica al servizio dell’uomo. Non male, direi.

Intanto, il popolo cileno, dopo aver partecipato per più di due mesi all’angoscia dei minatori è in festa. Dal “Campamento della Esperanza”, dove erano raccolte  le famiglie dei lavoratori alle vie di San José, da Piazza Italia di Santiago fino a Washington, davanti all’ambasciata cilena, dove migliaia di immigrati hanno seguito in diretta su maxischermo le operazioni di salvataggio, le manifestazioni di entusiasmo riservate in genere solo alle partite di calcio, si sono susseguite ininterrotte. I cori «Ci, ci, ci-le, le, le», si sono rincorsi e ripetuti ad ogni riemersione. E l’inno nazionale cileno è stato intonato a ripetizione.

Serviranno analisi più approfondite di questa nota per comprendere meglio la saldatura fra orgoglio patrio e orgoglio del lavoro che ci viene dal Cile. Non basta il salvataggio di queste 33 vite umane, pure straordinario, a spiegare questa rinascenza del binomio nazione-lavoro. Pensateci bene: nel 2007, in quella stessa miniera, di proprietà della compagnia San Esteban, più volte chiusa già in precedenza per mancata osservanza delle norme di sicurezza, un minatore era rimasto ucciso. Ci fu una nuova chiusura, certo. E ci fu lutto cittadino. Ma niente di paragonabile a questa formidabile presa di coscienza a cui stiamo assistendo. La chiave va forse cercata nella metafora sempre altamente evocativa della morte e della resurrezione, della discesa agli inferi e della risalita “a riveder le stelle”, della disperazione (nelle ore immediatamente successive al disastro, i minatori venivano dati praticamente per spacciati) e del miracolo che si compie.

Ma metafore e miracoli non si ripetono a comando. Le morti bianche, gli incidenti sul lavoro che rendono vite, spesso giovani e nel pieno delle forze, mutilate e invalide non sono l’eccezione, sono la norma. L’eccezione è il salvataggio di San José. Probabilmente assisteremo nei prossimi giorni a quello che Mario Sepulveda non si augura: la spettacolarizzazione dell’evento. Va bene, viviamo pur sempre nella “società dello spettacolo”. Ma ogni volta che vedremo apparire uno di quei minatori salvi in qualche studio televisivo, ricordiamoci sempre che ovunque nel mondo, e pure qui in Italia, in questa stessa Repubblica che si vuole “fondata sul lavoro”, di lavoro si muore ogni giorno, senza che le vittime ricevano nemmeno l’attenzione di un trafiletto nelle cronache cittadine dei giornali. Se qualcosa di bello e di utile possiamo trarre da questa vicenda, oltre al sollievo per il  lieto fine, sia il ferro da battere finché è caldo: la sicurezza dei lavoratori.

LOS 33
Susanna Dolci

. Il mondo plaude al successo dell’operazione. Questa mattina, entro le 5.30 italiane è risalito, sano e salvo, anche l’ultimo dei 33 minatori cileni che per 70 giorni, dal 5 agosto scorso, sono restati intrappolati a ben 700 metri di profondità. Hanno riabbracciato le loro famiglie più o meno allargate, amanti comprese. Considerati  desaparecidos, la prima cosa, seppur fastidiosa, che hanno dovuto fare è stata quella di rilasciare le impronte digitali. C’è chi ha pianto, pregato, iniziato a correre, giocato a pallone. Tutto è stato loro concesso. Perché era giusto così. Perché così doveva essere. Campane a festa in tutto il paese. Il presidente cileno Sebastian Pinera li ha accolti uno per uno finché tutti i “suoi figli” non sono tornati a rimirar il cielo. E poi ha sigillato a vita il buco maledetto. Fiato sospeso in tutto il mondo. Nelle cronache la storia dei “Los 33” resterà come l’operazione più ardita e coraggiosa, come la maggiore al mondo di salvataggio sotterraneo. Onore alla “Capsula Fenix”, come l’uccello che da sempre si rigenera dalle sue ceneri, che ogni due ore ha riconsegnato tre minatori al mondo dei vivi. Rispetto a tutti loro che non hanno mollato la presa, che hanno dato prova di immenso coraggio, profonda dignità, splendida operosità e che sempre hanno continuato a credere senza mai cedere al pianto od alla disperazione. In una terra dura e difficile che vive con poco e fors’anche con niente. Onoriamoli come grandi eroi. In altri frangenti ed in altre occasioni sarebbero morti nelle peggiori sofferenze… Come è già successo e come di nuovo succederà…  L’uomo sa essere mirabile quando vuole impegnarsi…. Appunto quando vuole….
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