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Il 68 ha distrutto l'Università

di Gianni Petrosillo - 15/10/2010

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Nei quotidiani nazionali impazzava ieri la polemica ed il piagnisteo sulla riforma dell’Università voluta dal Ministro Gelmini che starebbe per dare il colpo di grazia all’accademia italiana. Non conosco nel dettaglio il disegno di legge, ma non credo che esso potrà causare tutti quei danni irreversibili dei quali parlava, per esempio, il segretario PD Bersani sul Corriere, dimenticando che i guasti più gravi al sistema scolastico in generale li ha fatti proprio la sinistra ogni volta che ha messo mani all’istruzione.
Tuttavia, voglio dare per legittime le proteste dei giovani ricercatori che rischiano il posto, mentre conservo intatto il mio disprezzo e la mia intransigenza per la casta baronale che nessuno ha mai il coraggio di toccare davvero, nonostante, come ben si sa, il pesce marcisca sempre dalla testa. Ma il problema sostanziale è un altro e riguarda il decadimento culturale e scientifico dell’Università che nessuna riforma burocraticistica, come quelle susseguitesi in tutti questi anni, potrà mai arrestare. Direbbe Costanzo Preve: se il destinatario è irriformabile ogni innovazione o cambiamento è irricevibile. Credo che questa tesi sintetizzi perfettamente la situazione, al contempo tragica e penosa, dell’Università italiana. Il dibattito e lo scontro tra sostenitori e detrattori della riforma riproduce questa condizione di generale decadenza che non può essere, et pour cause, menomamente nobilitata dal reciproco scambio di stucchevoli accuse. Il governo difende la sua iniziativa sostenendo che si tratta di un necessario rinnovamento, la sinistra, invece, che di rinnovamenti devastanti ne sa qualcosa, si erge a paladina dello statu quo dimostrando tutto il suo conservatorismo. Il nostro paese continua così ad essere ingessato nelle stanche diatribe tra destra e sinistra, in ogni campo sociale, senza che se ne cavi un ragno dal buco. Il quadro diventa allora sempre più impietoso e desolante. Nel Belpaese il massimo del minimo è assurto ai vertici apicali di ogni sfera sociale, da quella economica, a quello politica, fino a quella culturale ed i risultati di questa involuzione complessiva sono sotto gli occhi di tutti. In Italia abbiamo una classe dirigente che non dirige più un bel nulla e si limita a fottere il prossimo al solo scopo di preservare i propri appannaggi di casta e di corporazione recintata. Per questa vale quanto Tommasi di Lampedusa fa dire alla fine del Gattopardo a Don Fabrizio “…per noi un palliativo che promette di durare cent’anni equivale all’eternità”. Ma nel caso specifico cent’anni sono una proiezione troppo ottimistica, considerato che costoro sono gli ultimi uomini di un sistema marcito fino alle fondamenta. Nel mondo economico imperano drappelli parassitari che devono appoggiarsi allo Stato e ai contribuenti per non essere inghiottiti dalla concorrenza nel mercato; nell’arco costituzionale si innestano partiti delegittimati che utilizzano l’arma del ricatto e del discredito personale per abbattere l’avversario mentre restano costantemente a digiuno di proposte programmatiche per rilanciare il paese; nel campo culturale, infine, soprattutto scuola e Università, si sono insinuati ceti cattedratici semicolti e cialtroni, quasi tutti di matrice sessantottina, che hanno rammollito i cervelli dei discenti e che ora si lamentano dell’effetto della loro opera. Insieme, quindi, il peggio di questi poteri putrescenti unificatisi sta privando il sistema-paese della possibilità di modernizzarsi e di adeguare la sua struttura sociale alle metamorfosi richieste dalla fase storica. La prova di tanta poltiglia culturalistica, anche se non ce n'era bisogno, me l’ha fornita un amico ex dottorando che mi ha raccontato di un improbabile corso di due giorni, attivato nella facoltà d’ingegneria di Potenza, dal titolo evocativo del nulla (Linguaggi, futuro e possibilità, come attivare un insieme di processi cognitivi, emotivi, relazionali e motori che educhino la persona ad una corretta gestione di sé e ad una più adeguata integrazione sociale e lavorativa, trovate qui il suo pezzo) in cui è sprofondato il sapere cattedratico che pretende di estendersi all’umanità intera. E stiamo parlando di facoltà scientifiche... Il vero cancro, tuttavia, si annida nelle aule umanistiche divenute ricettacolo di arroganti e presuntuosi ex incendiari “sessantottardi” convinti di avere in mano le "Supreme Verità" del mondo mentre quest’ultimo viaggia in tutt’altra direzione. È in questi fortini umanistici che i luddisti dell’istituzione scolastica si sono asserragliati per far precipitare del tutto il livello intellettuale generale di questo pauvre pays. Per quanto attiene poi a tutte le altre degenerazioni sistemiche universitarie, dal nepotismo ai concorsi accomodati (che, rammentiamolo, erano vizi presenti anche nelle passate stagioni ma in un clima culturale non ancora così imbolsito e imbarbarito), esse sono il risultato di quella mutazione genetica portata alle sue estreme conseguenze dall’orda impazzita dei figli di papà con l’eskimo e la kefiah (ed una interpretazione errata del General Intellect marxiano nella testa) che, nei ’60, ha messo definitivamente in ginocchio l’istituzione scolastica a tutti i livelli. Questi  post-barricaderos passati poi dall’altra parte del fronte, con la cravatta ben annodata e la camicia inamidata, hanno messo in pratica quel livellamento al ribasso, celandolo dietro la retorica dell’equità e dell’uguaglianza, al fine di poter propalare le loro mediocrità senza che nessuno se ne accorgesse. Se detti luminari si sono ben piazzati, nonostante le baggianate che somministrano agli studenti, è perché nessuno sa più riconoscere la differenza tra teoria scientifica e grande narrazione.
Oggi, purtroppo non c’è più nulla da salvare, occorre amputare ed intervenire col bisturi per evitare ulteriori danni. Un buon inizio sarebbe la chiusura delle facoltà umanistiche, da Lettere a Filosofia e ammennicoli vari, preservando forse Storia dove vige ancora un certo rigore scientifico e una discreta propensione alla ricerca Non sarebbe una grande perdita perché, in ogni caso, la grande filosofia (o letteratura) crescerebbe più rigogliosa e vivace lontano dai sepolcri spettrali universitari. Potrà sembrare una provocazione ma non lo è affatto, bisogna snidare gli impostori saccenti nelle loro tane e farli soccombere sotto le macerie delle loro edificazioni pseudo-razionali.  La verità è che questi “maestri-ex-cattivi-maestri” così indignati dell’ignoranza altrui hanno prima ossificato il sapere e poi hanno preteso che gli studenti si nutrissero allegramente di tale cibo, privo sostanza, senza battere ciglio. Concludo, allora, questa lunga invettiva (forse poco colta? Pazienza, non mi interessa il politically correct…e nemmeno un posto da dottorando) con una vera provocazione che farà rabbrividire il ceto similprogressita di codesta Accademia:  “Sappiamo…che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali. Soltanto per caso e per semplice coincidenza - raccoglie tanta di quella gente! - la scuola può essere il laboratorio di nuove verità. Essa non è, per sua natura, una creazione, un'opera spirituale ma un semplice organismo e strumento pratico. Non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E non adempie bene neppure a quest'ultimo ufficio - perché le trasmette male o trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre conoscenze nuove e migliori”. (Giovanni Papini, 1914)