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Eco-compatibilità

di Nicola Sessa - 17/10/2010



 


Le minacce all'ambiente, gli impianti industriali e le conseguenze economiche

La fanghiglia rossa che ha inondato l'area di Kolontar, in Ungheria, ha riaperto il dibattito sulle numerose "bombe a orologeria" ecologiche presenti in tutta l'area attraversata dal Danubio. Dal momento in cui il liquido corrosivo ha tracimato rompendo gli argini di una mega cisterna da dieci ettari, la terra intorno alla piccola cittadina ungherese si è trasformata in una "no man's land": inutile pensare alla ricostruzione poiché gli effetti venefici del piombo e del cadmio, dell'arsenico e del cromo hanno reso invivibile tutta l'area. La Mal Allumini di Ajkal è la responsabile di uno dei peggiori disastri ambientali degli ultimi anni, un disastro che secondo il Wwf poteva essere evitato dal momento che già tre mesi fa - sulla base di una accurata documentazione fotografica - era riscontrabile l'inizio del cedimento in un argine del bacino. E adesso il Wwf, che in tema di ambiente e preservazione degli ecosistemi non ha mai abbassato la guardia, ha aggiornato la mappa dei siti pericolosi che potrebbero causare danni anche maggiori. Ad Almasfuzito, 60 chilometri a  nord di Budapest, ci sono altre sette cisterne (vedi foto, fonte Google maps) che contengono dodici milioni di tonnellate di fanghiglie industriali - raccolte a partire dal 1945 - altamente tossiche: una quantità dodici volte superiore a quella stipata nella cisterna di Ajkal. Lo stabilimento di Borsodchem, sempre in Ungheria, produce centomila tonnellate di scarto di Pvc pronte a sprigionare diossina; il terreno della Slovacchia orientale è inquinato da policlorobifenili (Pbc); la Bulgaria - che nella sua storia ricorda la tragedia di Zgorigrad dove nel 1966 morirono 488 persone travolte dai fanghi tossici - sull'onda emotiva dei fatti di Kolontar, ha ordinato controlli in tutti gli impianti a rischio. Minacce simili - che hanno avuto riscontri nel recente passato - si registrano anche in Romania, Serbia e Russia.

La situazione di pericolo riguarda maggiormente i paesi dell'ex blocco socialista a cui l'Unione Sovietica, a partire dal secondo dopoguerra, ha demandato la produzione industriale chimica e metallurgica. Ma se si può - a ben ragione - rilevare la scarsa sensibilità per i problemi ambientalistici di cui erano dotati i governi socialisti, dall'altro lato sarebbe giusto indagare sulle responsabilità degli investitori privati che subito dopo la caduta della Cortina di ferro hanno rilevato le ex proprietà statali concentrandosi molto sul profitto e poco - o nulla - sulla messa in sicurezza degli stabilimenti di produzione. I generosi contributi dell'Unione europea per riparare ai danni del passato si perdono nei rivoli della burocrazia dei Paesi membri beneficiari e la Direttiva Ue sullo smaltimento delle scorie è stato indebolita dalle attività della potente lobby industriale. Quale sarebbe una soluzione valida per porre fine a queste incombenti minacce? La chiusura delle attività? Uno stop temporaneo per provvedere allo stoccaggio dei rifiuti?

Trovare il giusto equilibrio tra il rispetto dell'ambiente e la preservazione dell'economia locale (e in qualche caso nazionale) non è affatto semplice e la storia della città di Karabash, Russia, può dire qualcosa in merito. Karabash, regione di Chelyabinsk, con i suoi 16 mila abitanti si è guadagnata la fama di città più inquinata della Russia e tra le più ecologicamente devastate al mondo. Più di cento anni di fumi e scorie chimiche prodotte dalla grande fonderia di rame hanno ridotto l'ambiente circostante in una fotografia desolante e plumbea: montagne scure di rifiuti industriali circondano la cittadina chiusa sotto un tappo di aria nera irrespirabile e gassosa. Le conseguenze sulla salute degli abitanti sono facilmente intuibili: problemi respiratori e all'apparato digerente e cardio-circolatorio con un'alta incidenza sulle malattie tumorali. Le aspettative di vita sono ben più basse che nel resto della Russia. Nel 1987, l'Unione Sovietica dichiarò lo stato d'emergenza e la fonderia venne chiusa con il risultato che la città affondò nella depressione, non solo economica. Dieci anni dopo, quando lo stabilimento fu riaperto, per la popolazione ci fu grande sollievo: sebbene consapevoli dei gravi danni alla salute, gli operai avevano almeno i mezzi per provvedere ai fabbisogni delle proprie famiglie.