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La stretta via per ridare fiato al paese

di Luca Ricolfi - 18/10/2010




La nostra inchiesta sulla prima metà della legislatura è terminata, speriamo che i dati e le analisi che per una settimana abbiamo pubblicato sulla Stampa abbiano aiutato il lettore a formarsi un’opinione fondata, non puramente impressionistica, su come le cose sono andate fin qui, sui meriti e sui demeriti del governo in carica.

A questo punto, però, il problema diventa il resto della legislatura: che cosa ci attende, che cosa ragionevolmente si può ancora fare, quali sono le priorità.

Che cosa ci attende, dunque? In parte non lo sappiamo e non possiamo saperlo. Non sappiamo se l’economia del pianeta si riprenderà in un tempo ragionevole.

Non sappiamo come finirà la guerra strisciante in atto fra le principali valute del mondo, e in particolare non sappiamo se l’euro si indebolirà, dando ossigeno all’export, o invece si rafforzerà ulteriormente, aggravando la crisi delle nostre imprese esportatrici.

Alcune cose invece le sappiamo. Sappiamo ad esempio che l’Europa, non paga della stretta sui conti pubblici imposta a primavera, ci chiederà ulteriori sacrifici, sotto forma di un piano pluriennale di riduzione del debito pubblico. Si parla di 40 miliardi l’anno, ma anche fossero «solo» 10 già sarebbe un problema non banale, se solo si pensa che dalla vendita delle frequenze del digitale terrestre (una misura miracolistica di cui molto si parla in questi giorni) non ci si aspetta di incassare più di 3 miliardi. Sappiamo anche che le amministrazioni pubbliche a tutti i livelli (Stato, Regioni, Province, Comuni) sono sommerse dai debiti e quindi ritardano sistematicamente i pagamenti, così mettendo in crisi i fornitori. Sappiamo anche che il ritardo nei pagamenti si propaga da impresa a impresa e che, combinato con la prudenza delle banche nel concedere credito, è una delle cause di molte crisi aziendali, con il loro triste seguito di cassa integrazione e licenziamenti. E sappiamo infine che il problema di fondo di molte aziende non è il costo del lavoro, ma è la debolezza degli ordinativi, che costringe a un sottoutilizzo della capacità produttiva, non di rado anticamera della chiusura definitiva. Insomma è il debito pubblico la nostra più grande palla al piede, ma è solo il ritorno alla crescita che può aiutarci a uscire dai nostri guai.

Che cosa può fare un governo in una situazione del genere?

Assai poco, a mio parere, e considero un segno di grave immaturità delle opposizioni aver fatto credere alla gente che esistessero alternative serie ai tagli di Tremonti: si può discutere a lungo della ripartizione dei tagli, ma quanto alla loro entità ci sarebbe semmai da chiedersi se possano bastare, e se alla prossima bufera finanziaria non si rischi di doverne fare di ancora maggiori.

Però, fortunatamente, ci sono anche alcune cose che si possono fare. Non solo le liberalizzazioni e semplificazioni normative, di cui molto si parla ma che, nonostante siano a costo zero, procedono a passo di lumaca chiunque sia al governo, e finora non hanno mai prodotto una riduzione significativa degli adempimenti delle imprese. Ma anche interventi più radicali, capaci di incidere rapidamente sulla crescita. Il primo è un drastico e generalizzato abbassamento delle imposte sui produttori, a partire da Irap e Ires, finanziato con un disboscamento della selva degli incentivi alle imprese, ivi compresi gli innumerevoli regimi fiscali agevolativi (una strategia spesso invocata da imprenditori e politici, e di recente ventilata dallo stesso ministro dell’Economia e che potrebbe evitare fughe di imprese all’estero come racconta l’inchiesta di Marco Alfieri che pubblichiamo alle pagine 4 e 5). È una cosa che si può fare subito, senza aspettare l’estenuante balletto di incontri, tavoli tecnici e negoziali, che inevitabilmente accompagnerà il sogno di Tremonti di ridisegnare il nostro fisco.

Il secondo intervento è un abbassamento, finanziato con parte dei proventi della lotta all’evasione fiscale, delle imposte che gravano sull’energia, che rendono proibitivo il prezzo del kilowattora italiano e pesano come un macigno sui conti delle piccole imprese, come più volte denunciato e documentato da Confartigianato (un’idea potrebbe essere quella di destinare a questo scopo una quota delle somme recuperate grazie alle nuove norme sulle compensazioni Iva).

Ma c’è anche un terzo intervento che potrebbe avere effetti benefici sulla crescita. Il governo potrebbe decidere, senza aspettare le tirate d’orecchi dell’Europa, di mandare un segnale di «virtuosità finanziaria» ai mercati internazionali, varando un piano ventennale di dismissioni del patrimonio pubblico (la quota collocabile sul mercato è di diverse centinaia di miliardi di euro). Privatizzazioni e dismissioni sono sostanzialmente ferme dal 2006, e questo a dispetto dell’impegno a farle ripartire sottoscritto nel programma elettorale del centro-destra. Rispettare quell’impegno renderebbe i conti pubblici dell’Italia meno vulnerabili alla speculazione internazionale, limitando i rischi di un innalzamento dei tassi di interesse sui nostri titoli pubblici. Ma avrebbe anche un potente effetto di rassicurazione all’interno, verso famiglie e imprese, ove fosse accompagnato dall’impegno solenne a interrompere la deriva attuale, in cui la tenuta dei conti pubblici è assicurata da tagli e dilazioni dei pagamenti, in buona sostanza dal soffocamento dell’economia.

È realistica questa via? È davvero possibile, contemporaneamente, dare ossigeno alle imprese e aggredire il debito pubblico?

Difficile dirlo, ma due riflessioni mi fanno pensare che possa esserlo. La prima è che il patrimonio pubblico è dello stesso ordine di grandezza del debito (1800 miliardi) e la parte di esso che è effettivamente collocabile sul mercato non è affatto trascurabile (almeno 400 miliardi di euro secondo le valutazioni degli specialisti). Venderne una parte non basterebbe a portarci al 60% del Pil, come vorrebbero le regole europee, ma scendere sotto il 100% sarebbe già un grande risultato. Senza considerare che un contributo non irrisorio alla riduzione del debito pubblico potrebbero darlo anche sequestri e confische dei patrimoni della criminalità organizzata, il cui ammontare è sconosciuto ma presumibilmente non inferiore a parecchie centinaia di miliardi.

Ma la riflessione più importante è un’altra. Le strade alternative per tornare a crescere, ossia investimenti in capitale umano e federalismo fiscale, sono entrambe fondamentali, ma potranno dare i loro frutti solo fra una decina d’anni. Noi tutto questo tempo non l’abbiamo, o meglio non l’abbiamo più. Il nostro declino, relativo e assoluto, è iniziato intorno al 2001, circa dieci anni fa: non possiamo aspettarne altrettanti per invertire la rotta.

Luca Ricolfi