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La tragedia e la farsa

di Massimiliano Viviani - 18/10/2010







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Affrontando con diverse persone il tema della differenza tra i nostri tempi e quelli passati- in particolar modo di quelli preindustriali, secondo la concezione finiana dell'antimodernità- in risposta alla mia affermazione secondo cui in tali epoche complessivamente si viveva meglio di oggi, mi sento spesso ribattere che facendo tali paragoni, e rivisitando il passato, è facile cadere nella tentazione di dipingere tali epoche come più belle di quanto in realtà non fossero state, sia perchè il ricordo distorce le cose, sia perchè in fondo a tali epoche tendiamo ad attribuire le caratteristiche che piacciono a noi. Insomma, si rinfaccia quasi sempre che i "bei tempi andati" non erano poi così belli.
A questo punto credo sia doveroso chiarire un equivoco che ricorre ogniqualvolta si dibatte di antimodernità in questo senso. Chiunque tratta di questi temi infatti, chiunque li studia e li affronta in modo serio, solitamente non afferma affatto che i tempi passati fossero belli o felici. Ossia che siano mai esistiti dei "bei tempi andati". Se non lo si è, infatti, bisogna essere consapevoli di quanto fosse dura la vita dei tempi preindustriali: la famiglia patriarcale non era sempre quel luogo di armonia comunitaria che spesso ci dipingiamo, perchè spesso era teatro di conflitti e di sopraffazione; il lavoro artigianale o contadino che fosse, era un lavoro sereno e spensierato, ma nel contempo duro, spesso fisicamente, che permetteva per lo più di portare a casa quello che serviva per dar da mangiare un paio di pasti a tutta la famiglia; la vita di comunità era solidale certo, ma non priva di ingiustizie, soprusi e angherie; le condizioni igieniche erano precarie e la mortalità infantile era una realtà molto frequente. Insomma, niente di diverso da quello che sappiamo sui tempi premoderni, ma nemmeno niente a che vedere con una vita bucolica o arcadica, ossia "felice" nel senso che intendiamo noi moderni con questa parola.
Ma allora da tali premesse dobbiamo giungere a una sorta di "relativismo" generale? Se l'esistenza umana si manifesta ovunque e sempre nella sua perenne tragicità, perchè stiamo a dibattere sulle caratteristiche dei tempi moderni? In realtà la differenza sussiste eccome. Perchè a parità di condizioni "oggettive", altro è affermare un'amara verità, altro è dipingere una dorata menzogna. E' in questo che consiste la grande differenza tra le civiltà tradizionali e i tempi moderni, più che nella condizione della vità in sè. E non è una differenza di poco conto: le società premoderne sapevano benissimo che la durezza della vita è ineliminabile per ogni creatura, e che qualsiasi cambiamento strutturale, qualsiasi "rivoluzione" come la chiameremmo noi, non avrebbe fatto altro che spostare il problema, nasconderlo, camuffarlo, ma mai eliminarlo. Perchè l'uomo del passato la durezza della vita la guardava in faccia, e sapeva com'era e come affrontarla: essa aveva un nome, ma avevano un nome anche i mezzi con cui scongiurarla, vincerla, e nel caso non la si potesse vincere, con cui consolarsi. La superstizione del progresso invece ha nascosto la durezza della vita, ma non l'ha affatto eliminata, con la differenza non da poco che l'uomo moderno non ha più i mezzi per affrontarla. Egli è solo, sperduto, confuso, allo sbando. Perchè non è la stessa cosa provare dolore per qualcosa che ha un nome e un cognome, un inizio e una fine -sia esso la morte di un caro o un nemico alle porte- e provare invece quel senso di smarrimento, di vuoto, di inutilità tipico della nostra epoca, che corrode l'animo fin nelle fondamenta, giorno e notte, anno dopo anno, e non lascia via d'uscita se non la disperazione.
L'uomo moderno, perennemente illuso e puntualmente deluso, si trova quindi di fronte a una sofferenza senza nome, confusa, che gli sfugge in continuazione e che non può affrontare. Per questo su di lui la durezza della vita si manifesta in modo ancora più feroce: perchè non ha più il modo di vederla, nascosta dietro il luccichìo di un vacuo progresso, nè ha i mezzi per affrontarla, perchè è stato privato di tutto, comunità, famiglia, religione, autoproduzione economica. E a ben vedere, non potendo più guardare in faccia il dolore, ha perduto anche la soddisfazione di affrontarlo, e di misurarsi a viso aperto con gli ostacoli della vita. Dal che, quella mancanza di coraggio, di orgoglio, tipica dei tempi nostri.
Per questo il progresso è dei deboli di spirito, dei sofferenti, degli infantili, dei falliti, o di chi tale si sente. Progresso è fuggire, è non volere guardare in faccia la realtà. E' costruire con la fantasia un mondo irreale e puramente immaginario, in cui proiettare i nostri sogni di uomini perdenti o presunti tali. Altro che "bei tempi andati"! Sono i progressisti con i loro miraggi tecnologici, scientifici, sociali ed economici, con le loro utopie razionali, sono loro che dipingono in continuazione un paradiso venturo che è puro frutto della loro immaginazione! Sono questi i tempi bucolici che rinfacciano a noi di rimpiangere! Ma noi non rimpiangiamo nessuna arcadia: noi vogliamo solo che quella meravigliosa tragedia che è l'esistenza umana non venga trasformata in una buffonata o in una farsa.