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Ma dove vanno gli innamorati?

di Francesco Lamendola - 21/10/2010




Una romantica, malinconica, agrodolce canzone di Gino Paoli del 1961, «Gli innamorati sono sempre soli», metteva sul tappeto - la bellezza di mezzo secolo fa - un problema che alla società sembra del tutto trascurabile, se non inesistente, in virtù di una di quelle ipocrisie che rendono invisibile e inesprimibile, a livello collettivo, ciò che è fondamentale per il singolo individuo: la difficoltà, per gli innamorati, di trovare un po’ di intimità, nell’ambiente frettoloso e indifferente dei moderni centri urbani.
La canzone recitava così:

«Gli innamorati sono sempre soli
soli sulla strada, soli sulla Luna.
Ogni panchina è la loro casa,
ogni stella in cielo un ricordo d’amore.

Gli altri, che non sanno;
gli altri, che non ricordano;
gli altri che, che non capiscono;
gli altri che non capiscono
e non sorridono…

E voi amatevi davanti a tutto il mondo
perché state tranquilli… che siete voi,
voi, gli unici, padroni,
padroni del mondo!»

Se la memoria non ci tradisce, l’ispirazione per questa bella e struggente canzone (ci stava sfuggendo dalla penna, non senza ragioni, la parola “poesia”) venne a Paoli da un banale fatterello di cronaca: la multa, comminata dai vigili urbani, a due innamorati che si erano macchiati del “reato” di baciarsi in un giardino pubblico di Milano.
Sono passati quarantanove anni, ma la canzone di Paoli - se voleva essere, anche, una forma di denuncia sociale - è più che mai di attualità, nel senso che la situazione non è cambiata per niente: l’amore fra due persone continua a fare scandalo, se mostrato in pubblico; diciamo che non è previsto, nel quadro bene ordinato delle nostre metropoli efficienti ed industriose; e i solerti tutori dell’ordine non esitano a prendersela, talvolta, con due ragazzi che si baciano, piuttosto che con le bande di teppisti, di spacciatori di droga, di protettori di prostitute, che infestano impunemente le nostre strade ed i nostri quartieri, specie dopo il tramonto.
Certo, l’amore è un sentimento essenzialmente privato; e nulla dà più fastidio della sua esibizione gratuita e compiaciuta. Ma qui non stiamo parlando di questo; stiamo parlando del problema, estremamente reale, di tutte quelle coppie, di giovani e di meno giovani, che non hanno un luogo privato in cui appartarsi e che si vedono sempre più respinte ai margini, se non addirittura criminalizzate, in tempi di crescente intolleranza borghese.
Ovviamente, questo problema non esiste per quanti possono disporre di un appartamento o, comunque, di denaro; e, nel complesso, i giovani di oggi godono di circostanze complessive più favorevoli di quelli dei tempi di Paoli, data la maggiore indulgenza delle famiglie e la maggiore disponibilità di denaro, sempre statisticamente parlando. Tuttavia rimane per molte altre persone, e la società lo ignora o, peggio, lo tratta come una questione di mero ordine pubblico.
Da qualche tempo, ad esempio, nel “ricco” Nordest (che tanto ricco comincia a non esserlo più), dominato da una borghesia benpensante, che un tempo era monoliticamente democristiana, così come oggi è monoliticamente leghista o berlusconiana, numerosi sindaci e amministrazioni comunali hanno lanciato una vera e propria crociata moralizzatrice, per “ripulire” le strade, gli argini dei fiumi, i prati di periferia, dalla scomoda e sgradita presenza di tutti gli “irregolari” che, soprattutto la sera, frequentano quei luoghi.
Dal punto di vista cultuale e sociologico, si tratta di un fenomeno interessante e, per certi aspetti, inedito: perché, sull’onda della (giusta) esasperazione dei residenti per il degrado dei quartieri e dei luoghi pubblici, infestati da una folla di piccoli criminali e da un continuo via vai di prostitute con i loro clienti (che sono, peraltro, i figli e i mariti di quelle brave signore che tanto si lamentano di tali emergenze), si finisce per fare di tutta l’erba un fascio e per mettere nello stesso mazzo persone e situazioni che non hanno proprio nulla in comune.
Che cosa vi è in comune fra uno spacciatore di droga o un protettore di prostitute, con le sue “ragazze”, e due persone che si vogliono bene e che cercano soltanto un po’ di riservatezza per incontrarsi e passare qualche momento insieme? Assolutamente niente: e l’aver sospinto gli uni e gli altri nella medesima categoria, mobilitando contro di loro vigili urbani, forze dell’ordine e persino bande di volontari in funzione di ordine pubblico, che se ne vanno in giro la notte, armati di torce elettriche, per snidare il “nemico” e precludergli l’accesso alle zone tranquille fuori dai centri urbani, rispecchia quella stessa ipocrisia della quale dicevamo prima.
Che fa parte, del resto, di una più vasta ipocrisia, tipica di una certa borghesia italiana: quella stessa borghesia che detesta gli immigrati in quanto tali, che vota in massa per quei partiti che promettono (ma non applicano) misure draconiane contro i clandestini; però non trova né contraddittorio, né immorale, assumere quegli stessi clandestini nelle fabbriche, a metà paga, incoraggiando tanti altri a intraprendere la stessa strada, ossia l’ingresso illegale nel nostro Paese.
Insomma, in pubblico si proclamano grandi principî e si fanno solenni dichiarazioni; in privato, si sfruttano le situazioni di disordine quanto più è possibile, senza un’ombra di rimorso o di disagio, anzi, con la massima naturalezza e disinvoltura. Né ci si pone minimamente il quesito se sia giusto, assumendo come operai degli stranieri clandestini, ma sottopagati, contribuire alla disoccupazione dilagante dei nostri giovani e dei nostri meno giovani; dei nostri cittadini, che pagano regolarmente le tasse, fino all’ultimo centesimo.
Quanta ipocrisia, quanta falsità dietro simili atteggiamenti; e, come sempre accade, i primi a stracciarsi le vesti per le conseguenze negative di certe politiche sociali e di certi comportamenti, i primi a intonare il lamento: «O tempora, o mores!», sollecitando drastiche misure legalitarie da parte dello Stato, sono proprio quelli che, in privato, razzolano peggio degli altri; quelli che vanno in cerca delle prostitute polacche o nigeriane, col favore delle tenebre, sui viali di periferia; o quelli che assumono “in nero”, truffando il fisco e impoverendo i propri concittadini, operai e lavoratori clandestini, sfruttandoli oltre ogni limite della decenza e contribuendo a farli vivere in condizioni bestiali, in baracche sudice e cadenti.
Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano; per cui, chiudiamo la parentesi e torniamo a parlare degli innamorati.
Si direbbe proprio che, nelle nostre città e nei nostri paesi, non ci sia più posto per loro: le persone dovrebbero passare direttamente dalla casa dei genitori a quella in cui vivono col rispettivo coniuge, senza mai farsi notare in pubblico; il loro amore, il loro desiderio di stare insieme, dovrebbero essere talmente discreti da sconfinare nell’assoluta invisibilità.
Questa situazione specifica, peraltro, non è che il riflesso di una situazione più generale, che possiamo così descrivere: le nostre città non sono fatte a misura d’uomo, ma a misura di denaro; le nostre strade, le nostre piazze, i nostri (rari) giardini pubblici, non sono stati pensati perché vi si trovino a proprio agio gli uomini e le donne che li frequentano, ma perché i lavoratori producano il massimo e il più velocemente possibile, perché i contribuenti paghino le tasse senza fare domande scomode, perché la ruota dell’economia giri il più in fretta e il più efficientemente che sia realizzabile.
La città non deve essere un luogo conviviale, ma un luogo di produzione: se proprio vuoi fermarti per tirare il fiato, devi pagare. Anche per soddisfare una urgente necessità fisiologica, devi pagare: entrando in un bar (sempre che i servizi igienici siano agibili) e consumando qualcosa. Stessa cosa se sei stanco (e ciò vale, in particolare, per le persone anziane): se ti vuoi sedere, devi pagare la seggiola e ordinare qualcosa. Non è previsto che tu sia stanco e basta.
La panchina è un oggetto in via di estinzione. La si guarda con sospetto, anche perché - negli ultimi anni - è stata presa d’assalto da una vera folla di immigrati stranieri; i quali, avendo tutta un’altra cultura dello spazio pubblico, non si fanno problemi ad occuparla per ore ed ore, formando dei capannelli vocianti e piuttosto rumorosi.
Parecchi sindaci sono corsi ai ripari, dichiarando guerra alle panchine; di fatto, ormai è raro vederle persino nelle stazioni ferroviarie o nelle sale d’aspetto degli aeroporti (tanto, come è noto, i voli nostrani spaccano il secondo, per cui non c’è bisogno di sedersi ad attendere che arrivi il proprio aereo). E, per lo steso motivo, hanno dichiarato guerra anche alle fontane pubbliche: chi ha sete, vada al bar, se è una persona per bene; altrimenti, non merita di bere.
In un certo senso, una società si può giudicare da come si pone di fronte all’esigenza di intimità degli innamorati; da come si pone di fronte all’esigenza di sedersi, delle persone stanche o anziane; da come si pone di fronte all’esigenza di tutti di soddisfare i propri bisogni fisiologici o di bere una sorsata d’acqua fresca, nelle afose giornate d’agosto.
Vale a dire che ci si può fare un’idea del livello civile di una determinata società, osservando le risposte che essa offre (o che essa nega) ad alcuni bisogni essenziali, grandi e piccoli, del singolo individuo, indipendentemente da ogni idea di guadagnarvi sopra qualcosa; perché, si sa, pagando si può sempre ottenere qualsiasi cosa.
Una panchina pubblica si distingue dalla sedia di un bar per il fatto che servirsene non costa nulla: nessuno si presenta a chiedere il conto e nessuno sta a guardare l’orologio per vedere quando tempo vi si rimane seduti. Una panchina pubblica, come un giardino pubblico, come un servizio igienico pubblico, sono gratuiti; o meglio: sono pagati con il denaro dei contribuenti, ma so a disposizione di tutti e di nessuno in particolare.
Ebbene, questi servizi pubblici stanno scomparendo o stanno venendo sottoposti a restrizioni e controlli sempre più pesanti.
E non si venga a dire che ciò dipende dalla crisi economica, visto che le amministrazioni comunali trovano comunque il denaro per realizzare opere pubbliche che costano cifre favolose e non sempre sono così urgenti o necessarie (certe rotatorie stradali, per dirne una, in punti di traffico stradale quasi inesistente), ma che, in compenso, offrono il massimo della visibilità e, cosa non secondaria, una percentuale di profitto agli amministratori stessi.
Né si venga a dire che ciò dipende solo dal timore di favorire un uso massiccio, e magari improprio, di tali strutture, da parte degli stranieri trasferitisi nel nostro Paese: perché sarebbe come dire che si vuol combattere l‘alcolismo chiudendo tutti i bar, o che si vuol eliminare il traffico, mettendo fuori legge tutte le automobili: ispirandosi, cioè, alla massima per cui, se si vuol combattere il mal di testa, bisogna procedere con le decapitazioni.
Non che vedervi gli effetti delle difficoltà economiche che stiamo attraversando o un riflesso di timori relativi all’ordine pubblico, noi siamo propensi a scorgere nella scomparsa di luoghi e delle strutture pubbliche idonei alla convivialità, la pura e semplice conseguenza di una filosofia di vita arida e brutale, ciecamente utilitarista e ipocritamente moralista, che sa ragionare solo con la partita doppia del commercialista e con il cinismo dello speculatore di borsa.
Essa, del resto, è la filosofia pratica della borghesia dominante italiana, da sempre abituata non solo al privilegio, ma all’impostazione di rapporti quasi feudali con il resto della società: una borghesia che, se deve preoccuparsi della stanchezza o della sete dei propri anziani, lo fa con i giardini privati e con i camerieri privati; se vuole pensare agli amori dei propri figli adolescenti, lo fa mettendo loro in mano le chiavi dello chalet in montagna o della villa al mare.
E gli altri, che s’arrangino.
Non penseranno mica che la politica sia fatta per occuparsi dei loro piccoli problemi quotidiani?