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Il pensiero unico sulla psiche che normalizza il mondo

di Roberto Esposito - 23/10/2010

I padroni dell’anima. Nell’era della psicocrazia


Depressione, anoressia, stress, insonnia: malattie tipiche dei paesi ricchi, che ora l´Occidente ha iniziato a "esportare". L´elenco dei sintomi si allunga sempre di più. Ogni comportamento individuale viene catalogato, chiunque può essere riconosciuto come affetto da una patologia. E l´industria dei disturbi mentali ha bisogno di nuovi "clienti". Con il rischio che il pensiero unico sulla psiche normalizzi il mondo

Chiesero al morente di sete se non lo disturbasse il gocciolio della cella vicina, e promisero di porre rimedio"; "Complementari ai tecnocrati gli psicocrati". Chi sa se, quando scrisse questi taglienti frammenti, Paul Celan di cui Einaudi ha appena tradotto una nuova raccolta di poesie con il titolo Oscurato (a cura di Dario Borso e con un saggio di Giorgio Orelli) avrebbe immaginato una rapida estensione planetaria di quanto gli toccava sperimentare in prima persona. Perché è proprio un crescente potere sulle menti, complementare a quello sui corpi, che sempre più si va affermando attraverso processi generalmente riconducibili alla categoria di biopolitica. Ethan Watters, in un saggio intitolato Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione, già segnalato su queste pagine da Massimo Ammaniti, e ora tradotto in italiano da Bruno Mondadori, ne ha riconosciuto la fenomenologia in una sorta di globalizzazione di disturbi mentali inizialmente diagnosticati negli Stati Uniti e da lì esportati nel resto del mondo con un effetto di contagio inarrestabile.

Studiando la mutazione della percezione di determinate malattie della mente, in un primo momento catalogate secondo i parametri culturali dei paesi interessati - dalla Cina alla Tanzania - Watters osserva come, ad un certo punto, la loro definizione si omologhi a quella occidentale sotto la spinta di potenti campagne pubblicitarie promosse dalle grandi industrie farmaceutiche. A diffondersi, come in una vera e propria epidemia - i cui virus sono i nostri stessi modi di pensare - , è una catena di conseguenze, simboliche e reali, in base alle quali non soltanto la malattia in questione muta faccia, ma finisce per penetrare anche in spazi socio-culturali dove prima non aveva accesso, come se gli anticorpi socio-culturali che fino allora li avevano protetti fossero ceduti di schianto. Una volta che i malati possono conferire ai loro sintomi una definizione apparentemente oggettiva - desunta dai protocolli ufficiali elaborati di solito in America, come l´onnipresente DPM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) - , si sentono autorizzati a proiettare i propri problemi personali in qualcosa di più forte di loro, che insieme li assoggetta e li legittima come soggetti di quel male.
Non è difficile ricondurre queste dinamiche a ciò che filosofi contemporanei come Foucault e Deleuze hanno definito con il termine "dispositivo", intendendo con esso un apparato teso a controllare e modificare gli atteggiamenti mentali o le azioni di determinati individui - non forzandoli dall´esterno, ma rendendoli essi stessi partecipi del proprio assoggettamento. Da questo punto di vista la società contemporanea risulta un grande corpo, attraversato da un numero crescente di dispositivi destinati a caratterizzare le nostre idee ed orientare i nostri comportamenti in base ad interessi di cui è ormai difficile individuare la provenienza. Ciò non toglie che la medicina ne costituisca uno dei tratti più tipici, perché rappresenta precisamente il punto di contatto, e di crescente indistinzione, tra sfera del corpo e sfera dell´anima o come altro si voglia chiamare ciò che eccede l´ambito della mera biologia.
Non a caso la direzione sempre più mirata che vanno assumendo gli attuali processi di medicalizzazione è quella di uno schiacciamento progressivo dello psichico sul corporeo. Così ciò che inizialmente era diagnosticato come un disagio di carattere personale o sociale è sempre più spesso curato con strumenti chimici. Come attestato da numerosi studi - come quello di Philippe Pignarre su L´industria della depressione, tradotto da poco da Bollati Boringhieri o Manufacturing Depression di Gary Greenberg - i veri motivi della crescita esponenziale della sindrome depressiva, ormai diffusa quanto le malattie cardiovascolari, vanno individuati non in fattori di ordine sociologico o clinico, ma nell´uso degli stessi psicofarmaci che intendono combatterla. Ciò avviene attraverso quella sorta di circolo vizioso, implicito nel protocollo medico ufficiale, che definisce depressione "quella vasta area di disagio psichico curabile con gli antidepressivi".
E´ evidente che, una volta configurata la malattia in base alla terapia, questa, mentre la cura, è destinata a riprodurla per autoriprodursi, estendendosi a zone sempre più ampie di società. Tutto sta, per le industrie farmaceutiche e per quei medici che ne diventano sempre più i semplici terminali operativi, ad ampliare la lista dei sintomi, al punto di comprendere tra essi anche fenomeni reciprocamente contrari come l´appetito eccessivo e l´inappetenza, l´irrequietezza e la spossatezza, l´impotenza o la dipendenza dal sesso.
A questo punto ben pochi individui possono sottrarsi ad una catalogazione potenzialmente estendibile a tutti. E infatti è proprio questa la tendenza ipertrofica delle campagne di sensibilizzazione contro, ma in realtà funzionali alla diffusione della sindrome. Il cardiologo Marco Bobbio, in un libro intitolato Il malato immaginario. I rischi di una medicina senza limiti, edito da Einaudi e già recensito su questo giornale da Maria Novella De Luca, ricorda come l´Italia detenga il record europeo di consumo di farmaci pro capite e il più alto numero di medici per determinate quote di cittadini, nonostante che i tagli progressivi al sistema sanitario mettano in forse il welfare, magari negando una TAC a chi ne ha veramente bisogno.
E´ un´altra forma di quella biopolitica dei corpi e delle anime cui da tempo siamo soggetti - nel doppio senso che ne siamo prodotti e produttori: all´ipersalutismo propagandato dai media come nuovo obiettivo di una vita sempre più lunga e felice fa riscontro l´ipocondria crescente di fasce sempre più ampie di popolazione. Ad unificare, sovrapponendole, queste due spinte è l´idea della caduta di ogni limite per un uomo sottratto al suo destino di finitezza. Quella "psicocrazia" che paventava Paul Celan prima di suicidarsi è ormai diventata una compiuta biocrazia in cui mente e corpo sono insieme l´oggetto e la posta in gioco di una partita di cui è sempre più difficile riconoscere i giocatori, ma di cui è necessario prendere coscienza. Non per cercare, invano, di arrestarla, ma almeno per coglierne la logica e valutarne le conseguenze.