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Pericolo giallo (come il grano...)

di Alberto Cossu - 25/10/2010

    

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Le conseguenze della crescita esponenziale dell’economia cinese sono da tempo dibattute tra i politici e gli economisti di tutto il mondo, ma quelle che possono essere le conseguenze generali sul pianeta di questo fatto, sono prospettate in modo spesso generico dalla stampa e non sufficientemente dettagliato. Se l’entrata dei nipotini di Mao nel WTO ha sconvolto le economie occidentali in modo evidentissimo, le future conseguenze geopolitiche che l’attuale politica cinese avrà sul pianeta sono ancora poco dibattute, anche se allarmanti: il futuro, infatti, potrebbe riservarci un mondo cinesizzato, dove uno dei principali problemi sarà la difficoltà delle nazioni nel procurarsi il cibo necessario. Insomma il futuro potrebbe tristemente rassomigliare ad un film di fantascienza apocalittico se a ciò aggiungiamo anche la prevista scarsità delle risorse idriche e gli sconvolgimenti ambientali.
Dal 2000 al 2007 il reddito pro capite dei cinesi è raddoppiato, il numero delle automobili è decuplicato. Nonostante ciò la Cina è un paese ricco pieno di poveri: il reddito pro capite è un ventesimo di quello americano ed anche dopo alcuni miglioramenti retributivi avuti nel 2007 i differenziali salariali rispetto all’Occidente rimangono enormi. Nel 2006 la Cina ha sorpassato gli USA non solo economicamente, ma anche nel triste primato delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera a causa dell’aumento di centrali termoelettriche, industrie, automobili e ai maggiori consumi legati all’urbanizzazione di massa, tanto da immettere nell’atmosfera un quinto dell’anidride carbonica che viene rilasciata nel pianeta. I due terzi delle centrali termoelettriche cinesi sono a carbone, la fonte energetica più inquinante come Co2. Naturalmente anche le dimensioni demografiche costituiscono di per sé un problema, non solo per la nazione ma per il mondo intero: l’impatto della popolazione cinese sulle risorse naturali del pianeta è senza precedenti e a ciò si aggiunge che il modello di sviluppo prevalso nella fase di decollo industriale cinese ha assegnato un ruolo dominante ai settori industriali più energivori, dal cemento all’acciaio, dall’automobile all’edilizia. Su questi settori sono stati pochissimi i vincoli in termini di efficienza energetica. A causa di tutto ciò desertificazione, diminuzione delle terre coltivabili e penuria d’acqua aprono scenari allarmanti di nuove crisi alimentari e sanitarie nel Paese.
Dimensioni demografiche, aumento del reddito pro capite e industrializzazione fanno sì che oggi per la Cina e molti altri paesi emergenti l’urgenza non sia più come un tempo, conquistare il diritto ad esportare le proprie derrate agricole, bensì quella di destinarle all’approvvigionamento dei propri mercati interni in una situazione di iperinflazione e rischi di penurie. L’agricoltura cinese, infatti, non potrà mai bastare a sfamare 1,3 miliardi di persone la cui dieta diventa sempre più ricca. É sui mercati esteri che Pechino dovrà trovare accesso alle risorse naturali necessarie se vuole continuare in questa via di ipersviluppo forsennato.

Quello che sta avvenendo per ovviare alle necessità dell’economia cinese è la nascita di un rapporto privilegiato tra Cina e Medio Oriente. Europa e Stati Uniti vengono emarginati da aree che un tempo furono sotto la loro influenza strategica. L’Arabia Saudita, alleato cruciale di Washington, nel 2008 ha esportato più petrolio in Cina che in America. Tra la Repubblica Popolare e il mondo arabo nasce così un asse economico-finanziario presto destinato ad avere una proiezione geostrategica enorme. L’import-export fra Pechino e il mondo arabo si è più che decuplicato raggiungendo i 240 miliardi di dollari. Hong Kong e Dubai si sono unite per dare vita ad un asse finanziario che sfida apertamente quello tradizionale Londra-New York: centinaia di aziende asiatiche sono incoraggiate a quotarsi nelle borse dell’estremo oriente e del Golfo Persico. Tra queste due aree del mondo in crescita non ci sono frizioni per dumping sociale, rivendicazioni di diritti, conquiste sindacali, regole ambientali. Le ragioni del business prevalgono, i governi appoggiano le alleanze tra capitalisti spesso di Stato, un laissez-faire dirigista, dove un protagonista potente sono i fondi sovrani che gestiscono le riserve valutarie delle banche centrali.
Per capire invece come il governo di Pechino intende risolvere il problema alimentare dobbiamo fare un passo indietro alla crisi dei cereali del 2008 che ha colpito l’Asia e il Medio Oriente. Questa crisi ha avuto caratteristiche inedite nel colpire non solo i diseredati, ma anche le popolazioni urbane dei paesi emergenti che si erano affrancate dalla fame e che erano state beneficiate dalla crescita economica recente. Basti pensare che un paese come l’Egitto ha concesso aumenti salariali del 25% ai propri dipendenti pubblici che non sono certo il ceto più debole della nazione. Soprattutto questa crisi ha però, una tipologia diversa da quelle del passato anche perché la causa scatenante non è un crollo dei raccolti dovuto a calamità naturali, né l’effetto collaterale di emergenze come guerre civili e conflitti militari. L’insufficienza di alimenti non è stata provocata da una crisi nell’offerta ma dalla domanda a causa dell’esplosione dei consumi alimentari in aree del mondo a forte crescita economica: Cina e India. Naturalmente a ciò si aggiunge la produttività bassa dell’agricoltura delle nazioni più povere, la politica del sostegno ai biocarburanti perseguita da Stati Uniti ed Europa (la domanda di granoturco per il bioetanolo è entrata in diretta concorrenza con l’uso del granoturco come mangime animale anche grazie agli incentivi fiscali elargiti dagli Stati, anche se ormai è dimostrato che i biocarburanti non riducono le emissioni di Co2) e il cambiamento climatico. Questa crisi alimentare è generata dal benessere più che dalla miseria, non è un problema umanitario ma finanziario: paesi come Cina e India, infatti, premono sulla capacità agricola mondiale per ottenere il cibo necessario.
Ecco perché la soluzione trovata dai burocrati del governo capital-comunista cinese è andare a caccia di grandi terreni agricoli da comprare in tutto il mondo per sfamare la sua popolazione, anche in caso di iperinflazione e crisi dei raccolti. Spaziando dall’America Latina all’Africa, dall’Asia all’Oceania. In molte materie prime agricole la Cina ha, infatti, smesso di esportare perché i suoi raccolti nazionali sono tutti assorbiti dal mercato interno e spesso non bastano più: per la soia la Cina è già diventata così dipendente dall’estero da importare il 60% del suo fabbisogno. Nel lungo periodo non può assolutamente farcela da sola: entro le frontiere della Repubblica Popolare vive il 21% della popolazione mondiale, ma la sua agricoltura ha solo il 9% delle terre arabili del pianeta, l’8% delle riserve d’acqua del pianeta e a ciò si aggiunge che un terzo della superficie nazionale è fatto di deserti che avanzano di anno in anno.  Ecco il perché del progetto di conquista dei “granai del pianeta”. Il piano è una direttiva preparata nel 2008 dal Ministero dell’Agricoltura che spinge le grandi società agroalimentari ad investire nell’acquisizione di superfici coltivabili in tutto il mondo. Il principale ostacolo da superare però sono le ovvie resistenze politiche dei governi stranieri su un tema strategico come l’autosufficienza alimentare. Tanto più che Pechino ha un’abitudine poco gradita dai paesi che ospitano i suoi investimenti: nelle sue aziende all’estero spesso preferisce impiegare manodopera cinese. Poiché nelle sue campagne la Repubblica Popolare ha ancora 700 milioni di contadini, l’acquisto di terre coltivabili in America Latina e in Africa può diventare anche uno sbocco per una nuova forma di emigrazione, l’esportazione di “coloni” cinesi per aumentare ad esempio i raccolti di zucchero in Brasile o di arachidi in Nigeria. Per superare le resistenze politiche comunque Pechino ha escogitato argomenti molto persuasivi: seguire quanto già fatto in precedenza per gli accordi con i paesi africani nei settori del petrolio e dei metalli rari, costruire a proprie spese strade, ferrovie, aeroporti e ospedali. È questo il patto, o meglio il ricatto, che la Cina propone a molte nazioni emergenti per mettere le mani sulle loro materie prime. Pochi paesi in quelle condizioni possono permettersi di rifiutare l’offerta, contribuendo ad un’espansione economica e fisica della Cina che in futuro potrebbe creare gravi problemi non solo a questi Paesi e all’Occidente, ma al mondo intero. Oltre al predominio economico si delineano, infatti, un controllo della produzione alimentare mondiale e un’emigrazione di coloni sempre più forte oltre che un aumento del peso politico a livello mondiale del governo di Pechino. Se a ciò aggiungiamo il debito degli Stati Uniti nei confronti della Cina, il quadro è veramente spaventoso.
Tutto questo oltre che aumentare l’influenza cinese su tutto il globo potrebbe legarsi ai problemi climatici e ambientali e alla possibile futura scarsità delle fonti idriche, favorendo in futuro scenari quasi apocalittici dove l’andamento dei prezzi delle materie prime e soprattutto del cibo, influenzato pesantemente da Pechino e altri paesi ora emergenti come l’India, potrebbe lasciare noi occidentali e soprattutto noi europei in condizioni di gravi difficoltà economiche, alimentari e in una condizione politica servile. Il “pericolo giallo” non è quindi una fantasia o populismo ma una reale minaccia cui l’Occidente e la nostra Europa devono reagire se non vogliono davvero finire schiacciati.