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La via del coraggio

di Mario Grossi - 25/10/2010


C’è una scena del film Barry Lindon che mi torna costantemente alla memoria: un grande campo di battaglia, un enorme prato in discesa da un lato e pianeggiante dall’altro di un colore verde smeraldo, brillante, lucido di rugiada.

I due schieramenti nemici si fronteggiano a distanza e le casacche policrome dei soldati risaltano ancora più accese sullo sfondo verde.

Le prime file di uno schieramento sono costituite da fucilieri che si stanno preparando alla prima scarica. Dall’altro s’impartisce l’ordine dell’assalto. Un assalto al passo, ordinato per file diritte e compatte. A guidarlo c’è un reggimento scozzese di cornamuse.

I musicisti soldati sono armati solo dei loro strumenti, ma avanzano al ritmo della canzone che stanno intonando. Non arretrano, non si fermano, suonano trascinandosi dietro come dei pifferai magici i soldati armati di fucile e baionetta.

La prima scarica dei fucilieri nemici è tutta per loro. Sullo schermo i corpi inanimati crollano sul prato verde, scavalcati dai soldati che seguono. Tutta la scena è sottolineata dalle dissonanze delle cornamuse che senza più fiato stridono e si afflosciano seguendo la sorte dei loro padroni.

Sembra a prima vista una crudele apocalittica scena utile a dimostrare l’insensatezza della guerra e in parte è così. Ma se si guardano attentamente i volti impassibili e i gesti irrigiditi da un ferreo protocollo dei suonatori di cornamusa si potrà scorgere in quelle maschere pietrificate l’essenza del coraggio.

Proprio a questo pensavo mentre terminavo la lettura de La via del coraggio di Riccardo Dal Monte che la Hobby & Work sta dando alle stampe.

E già dalla prefazione al libro viene sottolineato quello che è il carattere fondamentale del coraggio, sentimento strettamente connesso alla paura e anche alla moderazione.

L’autore cita Junger per questo «Senza la paura anche il coraggio sarebbe privo di senso» che rende in assoluto ciò che visivamente era riprodotto nei volti dei suonatori di cornamusa di Barry Lindon.

Il coraggio, diversamente dalla temerarietà, conosce la paura e la domina in funzione di un obiettivo superiore che travalica il mero istinto di sopravvivenza. La temerarietà è cieco slancio inconsapevole privo di ogni moderazione proprio perché assimilabile al raptus. Il coraggio gli è superiore proprio perché gesto consapevole.

L’autore partendo da questo assunto tenta un’analisi di questo sentimento ripercorrendolo in rapporto alle società che si sono succedute dagli albori ai giorni nostri.

Ogni cultura ha avuto un poema epico, un mito fondante in cui la figura dell’eroe o degli eroi è centrale e la cui caratteristica fondamentale è quella di avere un coraggio che lo distingue dagli altri e lo pone al centro di quello che è sempre stato il culto di cui è stato oggetto.

È appunto attraverso quelli che l’autore chiama i bravemen, gli uomini coraggiosi che costellano quella “via del coraggio” che dà il titolo al saggio, che si può tracciare una storia del coraggio dall’antichità fino ai nostri giorni.

Questa è la storia di quello che viene definito il coraggio fisico, tipico dei campi di battaglia, che l’autore tende a contrapporre a quello morale che si dispiega in ambiti diversi, anche se io credo che non possa esistere il coraggio fisico se non fortemente irrorato da quello morale che ne è comunque la fonte e la causa.

Il saggio è diviso in tre parti. Nella prima, nel primo capitolo, è analizzata, l’Era dei Guerrieri, dalla Grecia antica fino al Medioevo, con ampie escursioni nel mondo nordico, che fu caratterizzata dal coraggio “attivo”. Tipico esempio di questo coraggio attivo è rappresentato da Alessandro Magno che non ha mai rinunciato a lanciarsi in prima persona alla testa dei suoi in ogni campo di battaglia, mettendo sempre a repentaglio la sua vita prima che quella dei suoi soldati.

Nel secondo capitolo sono inquadrati quelli che sono stati chiamati “i Gentiluomini e Ufficiali” che copre un arco temporale a cavallo tra la metà del Seicento e la metà dell’Ottocento, in cui prevale quello che è descritto come il coraggio “passivo” in cui si è esposti ai colpi del nemico ma non si retrocede. Tipico esponente di questa categoria di bravemen è Wellington.

Nella seconda parte sono analizzati i coraggiosi delle due guerre mondiali prendendo spunto dalle tre caratteristiche che, secondo l’autore, ne fanno i più coraggiosi in assoluto: l’incredibile potenziale di morte delle armi impiegate, la lunghissima durata dei combattimenti e l’impreparazione psicologica alla guerra. A questi io ne aggiungerei un altro che fa da discrimine rispetto a quello che succedeva nel passato, almeno quello remoto, il diverso sentimento nei confronti della guerra e degli atti eroici di guerra, da parte dei cittadini non belligeranti che sempre meno sono disposti a vedere nel coraggioso e nell’eroe di guerra un esempio morale da seguire.

Nella terza parte, separato dagli altri e introdotta da un capitolo dal titolo virgolettato “il ‘coraggio’ giapponese” trova spazio infine l’analisi di quello che l’autore ritiene un fraintendimento. Il coraggio del milite giapponese sembra tale ma in realtà non lo è affatto.

E qui torna prepotente l’originalità del saggio che mette in relazione il coraggio con la società in cui questo sentimento si esplicita.

Il Giappone ha un retroterra culturale che ha ispirato anche i suoi soldati e che li ha spinti più di tutti gli altri a conformarsi a un regolamento che ne impediva in buona sostanza il coraggio, se il coraggio, come sostiene l’autore, è gesto individuale e responsabile e mai coatto.

Il concetto di fedeltà all’Imperatore, l’etica militare del Bushido, la concezione effimera della vita, il culto della morte o l’ossessionante propaganda del periodo si erano tanto radicate in ogni individuo che la manifestazione del coraggio in battaglia risultò, secondo l’autore, la normalità piuttosto che l’eccezione.

Una sorta di fango, un indottrinamento perverso, che ha incrostato il sentimento individuale rendendolo quasi riflesso condizionato e coatto, senza deliberata scelta se non quella di adeguarsi al vigente status quo emozionale.

È solo in questo capitolo finale sul Giappone che la mia opinione diverge da quella dell’autore. La figura del samurai che tanto ha influenzato anche il combattente nipponico dell’ultimo conflitto mondiale, è complessa e modulata su una serie di sentimenti contrastanti ma che ne completano il profilo caratteriale. Il samurai, pur rispondendo a delle logiche complessive di obbedienza, conserva e coltiva un’individualità che lo rende unico anche se uguale agli altri samurai. Coltiva una via che, potrei dire, è declinata sempre e comunque in modo individuale, rendendo la sua scelta, anche la più retriva, come può essere l’adesione coatta a una fedeltà quasi imposta, come scelta consapevole e maturata in seno alla sua singolarità. Ne è testimonianza, oltre alla disciplina delle armi che sfocia sempre in uno stile tecnico e sentimentale che è una sfumatura diversa da persona a persona, pur sulla stessa strada intrapresa, il coltivare le arti come la calligrafia, la poesia, la pittura per temperare la propria indole e creare dei contrappesi emotivi alla scelta cruenta della battaglia.

Ma la di là di questa opinione personale che lascia il tempo che trova, resta pregevole l’intero impianto del saggio che sa coniugare l’analisi del coraggio con i sentimenti dell’epoca in cui si è esplicitato, mettendo a confronto il gesto coraggioso con la società che l’ha prodotto, e come il gesto coraggioso si modula in funzione dell’evolversi della nostra società nel tempo.

Come pure interessantissimo è l’intreccio evolutivo delle armi da guerra che trasformandosi (solitamente verso una distruttività sempre maggiore) nel tempo determinano anche atteggiamenti e sentimenti diversi nel coraggioso, tanto da sfociare nella tesi totalmente condivisibile che sostiene, proprio in funzione delle nuove armi che appaiono sul campo di battaglia e proprio in funzione dell’evolversi dell’atteggiamento della società non belligerante nei confronti della guerra, che i più coraggiosi sono proprio i soldati dei due conflitti mondiali sottoposti a una distruttività delle armi sconosciuta fino ad allora, ad una permanenza sul campo di battaglia per un tempo infinitamente più lungo dei loro predecessori e per l’impreparazione psicologica alla guerra.

È assai più semplice, in buona sostanza, rischiare la propria vita quando si crede che le porte del Paradiso si spalancheranno all’eroe morto e che gli verranno tributati dai suoi concittadini onori enormi, piuttosto che rischiare la propria vita sapendo che nulla ci sarà di diverso nell’al di là per loro rispetto agli altri e che la società li condurrà a sepoltura quasi con vergogna se non con riprovazione.

Resterebbe da indagare la sorte del coraggioso negli scenari da guerriglia delle molte nuove guerre che ci assediano le come il coraggio si possa coniugare alle moderne “guerre pacifiste” che fondano i loro interventi su un fraintendimento ipocrita.

Guerre che non sono più azioni contro un nemico cui si riconoscono gli stessi diritti di belligeranza ma contro dei delinquenti che minano la tranquillità dell’impero.

Forse c’è bisogno di ancor più coraggio da parte dei fantaccini che scelleratamente vengono schierati su campi di battaglia sempre più lontani, sempre più regionali, sempre più incomprensibili per tutti, sempre più al soldo di interessi che stentiamo a capire.

Oppure il coraggio sta regredendo nuovamente verso quella temerarietà che è sentimento opposto e contrastante, frutto sempre più spesso della disperazione e dell’impossibilità di far altro.

Ma questo potrebbe costituire il tema di un successivo saggio da parte dell’autore che, con la sagacia dimostrata in questo, saprebbe con dovizia di argomentazioni rispondere alle inquiete domande del lettore che non si è distolto neppure un attimo da queste pagine cariche d’informazioni e dal ritmo incalzante che lo rendono facile alla lettura, avvincente ed inquietante per i molti risvolti che si riverberano e si riflettono come un’ombra incombente sulle odierne vicende cui assistiamo.