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La povertà

di Majid Rahnema - 27/10/2010


Senza dubbio, la povertà così come è al giorno d’oggi, confusa con la miseria socialmente costruita, è uno
scandalo inammissibile. La rivolta viscerale suscitata dallo stato di cose è più comprensibile per il fatto che la
propagazione generalizzata di questa miseria è direttamente connessa a dei sistemi di produzione e di
governo che possono teoricamente mettervi fine. Il binomio tecnologia –economia è, in effetti, più che mai, in
grado di fare beneficiare tutte le popolazioni del mondo di ciò che sarebbe loro necessario per vivere
dignitosamente. Per limitarci all’ambito dell’alimentazione, questo binomio produce già di che nutrire nove
miliardi di persone, più di una volta e mezzo la popolazione mondiale attuale. Questo non impedisce che
circa un miliardo e mezzo di persone siano ancora malnutrite o sotto la minaccia della fame. Negli stessi
Stati Uniti, paese che è considerato tra i più ricchi e democratici del mondo, circa un milione di bambini non
mangia ogni giorno quanto dovrebbe.
L’indignazione generale provocata dalla “povertà”, l’ha resa un tema così popolare che il catalogo mondiale
dei libri sul web mostra già più di 60000 opere e lavori di ricerca su questo argomento. Parallelamente, il
numero di questi studi così come le ricerche volte alla “soluzione” dei “problemi” legati a questa questione
sono in continuo aumento. Questo fatto non esclude che le campagne che si impegnano allo sradicamento
della povertà partecipino a loro volta al processo di creazione della miseria. Peggio ancora, dopo che
durante i millenni la povertà incarnata dai modi di vita semplice e frugale aveva costituito per i poveri un
rimedio potente contro la miseria, i processi mondializzati di creazione della miseria socialmente prodotta
rischiano oggi di soppiantare questa povertà rigeneratrice. I bisogni creati sistematicamente dall’enorme
macchina tecno-economica cominciano a minare così intensamente le tradizioni locali di vita semplice e
frugale che non soltanto i responsabili di questo processo, ma anche, in molti casi, i poveri stessi, si trovano
implicati nella propagazione accelerata della miseria nel mondo.
Ci sono ragioni epistemologiche e sociali che hanno costretto gli uni e gli altri in questo vicolo cieco. Un
primo ostacolo per una percezione più lucida della problematica detta della povertà, risiede in una questione
semplice: non soltanto la povertà non ha mai avuto lo stesso significato in tutto il mondo, ma essa resta una
costruzione sociale impossibile da definire sul piano universale. Ne risulta che ciò che viene fatto per i poveri
non ha spesso niente a che fare con coloro che lo sono.
I. Nessun povero assomiglia all’altro
Nel corso dei millenni, un sostantivo corrispondente a ciò che noi oggi indichiamo con termini come povero o
povertà era stato assente da tutti i vocabolari del mondo. E’ sempre esistito un aggettivo “povero”che si
applicava a dei nomi- come ad un suolo, alla salute, ad una situazione di mancanza- un aggettivo che
serviva sovente a indicare gli aspetti relativamente poco lusinghieri del nome al quale era attribuito. In
questo modo, ogni individuo era povero - o ricco - di qualcosa, senza essere per intero un povero.
L’invenzione dei sostantivi povero e povertà risale ad un periodo relativamente recente. Sarebbe apparsa
grazie alla evoluzione economica che ha avuto luogo tra il X e l’VIII secolo a.C., e che ha favorito un piccolo
numero di proprietari fondiari, avidi di costringere i piccoli produttori agricoli a cedere loro i terreni e ad
arricchirsi alle loro spalle1.
Ma anche allora le persone cosiddette abbienti avevano tra loro molte più differenze che punti in comune. A
questo si aggiunga che il fatto che le innumerevoli lingue del mondo sembrano essersi fatte concorrenza per
produrre in gran numero un’incredibile varietà di parole e locuzioni per definire i loro “poveri” e tutte le
situazioni e le condizioni connesse alla molteplice percezione della povertà. In persiano, sono state ritrovate
circa 80 parole che possono essere tradotte come “poveri” o “miserabili”. Nelle lingue africane, il numero di
queste parole supera la decina.
La Torah utilizza almeno otto parole a questo scopo2. Nel Medio Evo, i termini latini che coprono la gamma
delle condizioni relative a questa situazione superano la quarantina. Alla varietà impressionante di parole
che figurano scritte nei dizionari se ne aggiunge poi un’altra, ancor più ricca, quella dei motti arguti, dei detti
e proverbi o delle espressioni popolari il cui numero si estende a perdita d’occhio. Nella maggior parte dei
1 Si veda A Gelin, S. Léchasse ect. “Pauvreté chrétienne”, in “Dictionnaira de spiritualitè”, fasc. LXXXVI, Paris,
Beauchesne, 1983-84
2 Encyclopaedia Judaica, “Poverty”
casi, è estremamente difficile stabilire esattamente i sensi e le sfumature di queste espressioni e parole, ed
ancor di più è difficile tradurle in altre lingue.
D’altra parte è interessante notare che l’antinomia povero-ricco è ugualmente di data recente. In Europa, fino
al Medio Evo, e quasi dappertutto fino a date ben più recenti, il pauper era piuttosto il contrario di potens
(potente). Nel IX secolo il pauper era considerato come un uomo libero la cui libertà era minacciata soltanto
da questi potenti. In molti paesi si entrava nell’universo della povertà o dell’indigenza sia quando si cadeva in
basso rispetto alla posizione sociale alla quale si apparteneva, sia quando si perdevano gli strumenti
necessari al proprio lavoro o al riconoscimento sociale (per un chierico la perdita dei suoi libri, per un nobile
la perdita dei suoi cavalli o delle armi), sia quando si era esclusi dalla comunità di appartenenza. Per le
popolazioni Tswana dell’Africa del Sud, i poveri si distinguevano dai potenti per la loro reazione
all’apparizione delle cavallette. I primi erano quelli che si rallegravano del loro arrivo nella speranza di
gustare cibi più generosi, i secondi erano coloro che le detestavano perché le cavallette mangiavano l’erba
che faceva vivere il loro bestiame3.
Le miriadi di poveri relegati alla povertà virtuale della neolingua
Tutte le culture umane hanno dunque conosciuto le ambiguità proprie delle molte parole che sono servite a
definire i loro poveri, i loro indigenti, i loro miserabili. Una differenza fondamentale separa tuttavia tutti questi
tentativi di definizione dal “povero” che, ai nostri tempi, si cerca di definire su di un piano universale. I poveri
vivevano dentro spazi familiari di dimensione relativamente ridotta. Il povero è, di contro, un personaggio
inventato di sana pianta da una “neolingua” moderna, uno sconosciuto programmato per essere trapiantato
dal suo suolo natale nel “villaggio planetario”; un’entità astratta con pretese di universalità il cui profilo
stereotipato non ha nulla in comune con i poveri al plurale, che questo personaggio virtuale tende a
fagocitare.
Nei villaggi reali dove vivevano questi ultimi, il nome che era stato attribuito loro era spesso tanto preciso da
consentire in genere ai vicini di sapere, o almeno di indovinare, ciò di cui soffrivano, e in casi evidenti, ciò di
cui essi avrebbero potuto aver bisogno per affrontare meglio il loro destino. Di fronte ad un soggetto che si
chiamava bi kas (in persiano) o ki amul nit (in Wolof), i vicini intorno a lui sapevano, per esempio, che era
letteralmente “senza nessuno”, senza qualcuno che gli parlasse o gli tenesse compagnia, senza chi lo
potesse inserire bene o male in un gruppo in grado di porre fine alla sua solitudine. Dal momento in cui
questo povero attraversava i confini della sua comunità, diveniva uno straniero, una persona ambigua e
difficile da riconoscere.
Tutto cambierà totalmente allorché crescerà la dimensione del mondo di cui questo povero aveva fatto parte,
allorché egli non sarà che un personaggio anonimo, detentore di una carta di identità o di assistenza
sanitaria certificante che il suo reddito giornaliero è al di sotto di una certa soglia di povertà” – soglia
oggigiorno stabilita dalla Banca Mondiale in un dollaro al giorno per tutti i poveri del mondo.
In questo stato di cose, a qualunque spazio o tempo appartenga, e quali che siano i criteri dei quali ci si
serva per qualificare un soggetto come povero, questa designazione non può essere fatta che su base
arbitraria. In uno spazio mondializzato nel quale questo soggetto è stato, per di più, sradicato e disperso nel
magma dell’anonimato di masse atomizzate, questa definizione diviene ancora meno pertinente. Al limite,
essa tende molto di più a informarci sulle istanze caricate sulla sua designazione piuttosto che sulle
specificità proprie di chi è definito povero. In queste condizioni risulta evidente che la povertà è sicuramente
una nozione troppo generale, troppo ambigua, troppo relativa e contestuale perché sia possibile, allo stesso
tempo, definirla e precisarne la natura su un piano generale ed universale. Questa impossibilità teorica è
rafforzata da un’altra ragione: le “mancanze” che in un caso possono servire come criterio di base per
stabilire una certa definizione della povertà sono spesso state percepite da altri come segni di ricchezza, o
sono anche state usate per dimostrare che la povertà è spesso il modo di vivere più idoneo per combattere
la miseria e l’indigenza.
E’ vero che nessuna definizione è in grado di rispecchiare la complessità di un soggetto avente dimensioni
indefinibili. Tuttavia ce ne sono alcune che riescono a dare una idea almeno intuitiva di ciò che cercano di
significare: sono tali, per esempio, la fame, la malattia, la sofferenza, il desiderio, la solitudine o la gioia. Ma
la povertà non appartiene a questa famiglia di parole. L’inventario degli individui classificati come poveri e
delle percezioni della povertà non si è, in effetti, mai limitato ai soli individui mal nutriti, ai deboli, agli infermi,
3 John Iliffe, “The African Poor: a History”, Cambridge University Press, 1987, p.78
ai senza-mezzi, ai mendicanti e ai “bi-kas”, i senza nessuno. Si riprenda la celebre lista del Cardinal d’Ostie4:
vi si includeva mezzo mondo, cioè le vedove, gli orfani, i lebbrosi, i folli, i prigionieri, gli infelici rifugiati in
chiesa, i pellegrini e anche i mercanti. Senza dimenticare che la stessa figlia di un re o la moglie di un
cavaliere morto nelle crociate erano anch’esse sulla lista dei poveri, o che dei santi o degli asceti di qualità
morali eccezionali erano ugualmente qualificati come poveri.
Povertà e miseria
Ancora, per proseguire una conversazione che ci eviti una confusione legata alla molteplicità delle parole e
del loro senso, ci è sembrato essenziale, all’inizio, ricollocare i fenomeni di povertà e di miseria nel loro
contesto storico. In altri termini, andare al di là delle parole e delle loro interpretazioni per cercare di ritrovare
il loro posto - spesso fondamentale - nella lotta delle società umane contro la necessità e per una vita
migliore. Una lotta nella quale lo scopo non era, d’altronde, circoscritto alla sola sopravvivenza, ma che,
secondo un saggio Borana, doveva sfociare per tutti i membri di una comunità in quello che lui chiamava,
nella lingua dei suoi antenati, fidnaa o gabbina, o “la luminosità di una persona ben nutrita e libera da ogni
preoccupazione” 5
E’ con questo spirito che siamo stati condotti a riprendere una distinzione molto antica tra la povertà e la
miseria; una distinzione attribuita a san Tommaso, per il quale la povertà rappresentava la mancanza del
superfluo, mentre la miseria significava mancanza del necessario. E’ in questo senso che ben più tardi,
Proudhon parlerà della povertà come “la condizione normale dell’uomo nella civilizzazione”6 che Pèguy
comparerà la povertà con un rifugio, un sacro asilo, che permette a colui che lì si rifugia di non correre alcun
rischio di finire in miseria7 e che lo storico Michel Mollat, infine, ha concluso che la miseria era, fino alla
Rivoluzione industriale, un accidente piuttosto che un fenomeno sociologico.
Partendo da questa distinzione, la povertà sarebbe così uno stile di vita, una condizione fondata
essenzialmente su principi di semplicità, di frugalità e di considerazione per i propri vicini. Sarebbe un modo
di vita impregnato dei concetti di qana’at (questa parola vuol dire, in persiano ed in arabo, accontentarsi di
ciò che si ha e di ciò che si è ricevuto come parte di ciascuno nell’ordine cosmico), della convivialità e della
condivisione con altri membri della propria comunità. Rappresenterebbe un’etica ed una volontà di vivere
insieme, secondo dei criteri culturalmente definiti di giustizia, di solidarietà e di coesione sociale, tutte qualità
necessarie a qualsiasi forma culturale concepita per affrontare la necessità.
La miseria rappresenterebbe, di contro, una condizione profondamente diversa. Esprimerebbe la caduta in
un mondo senza riparo, nel quale l’individuo si sente, all’improvviso, privato di tutte le forze individuali e
sociali che gli sono necessarie per poter prendere in mano il proprio destino. Depauperato dei suoi mezzi di
difesa e caduto in uno stato di completa impotenza, il soggetto, abbattuto sia nel corpo sia nell’anima, fa
venire in mente la sorte di un naufrago in pericolo di vita che soltanto una boa di salvataggio lanciata da altri
può eventualmente salvare. In queste condizioni l’estrema infelicità e la disperazione rischiano di provocare
nello sfortunato un’alterazione della tempra e del carattere. Come constata Simone Weil, il suo io è allora
distrutto da fattori esterni, “quell’io essendo tanto più velocemente ucciso di colui che ha la disgrazia di avere
un carattere più debole”
La miseria morale che disumanizza le sue vittime, non sarebbe tuttavia un problema dei soli indigenti. Essa
colpisce forse in maniera ancora più perniciosa i ricchi e i possidenti avidi del superfluo. In quest’ultimo caso,
essa rappresenterebbe l’ossessione patologica dell’avere di più e l’insensibilità totale nei confronti degli altri;
è pure all’origine di quella perversa alleanza che si vede spesso formarsi tra i miseri più disperati e i
protagonisti dei movimenti estremisti fascisti o fascistizzanti, populisti e fondamentalisti che disonorano i
poveri con il pretesto di salvarli.
II. Povertà e miseria nelle società vernacolari
4 Simone Wattelet, in “Les miserabile personae”, citato da Philippe Sassier, Du bon usage des pauvres, Paris, Fayard,
p.64
5 Si veda Gudrun Dahl e Cemetchu Megerssa, “ The spiral of the Ram’s horn: Boran Concepts of Development”, in
M.Rahnema con Victoria Bawtree, “the post development reader, Londres, Zed Books, 1997, p.52
6 Pierre Joseph Proudhon, La guerre et la paix (1861), in Oeuvres, sotto la direzione di C.Bouglé e H. Moysset, Genève,
Slatkine, 1982, vol.6, p.346
7 Charles Péguy, L’Argent, in Oeuvres completes, Paris, NRF, vol.3, p.418-20
La distinzione fondamentale che è stata appena proposta fra le condizioni di povertà e di miseria, ci può
mettere ora in condizione di distinguere almeno tre grandi gruppi di povertà e due di miseria: le povertà
conviviali, volontarie e modernizzate, e le miserie vernacolari e modernizzate.
1. Le povertà conviviali. Le povertà conviviali corrispondono a modi di vita che sono fioriti particolarmente
nelle società vernacolari8.
Osservata dal di fuori, la società vernacolare ha le sembianze di un mondo semplice, direi primitivo. Essa
tuttavia costituisce un vero microcosmo di indizi, di simboli, di comportamenti, di discorsi, di linguaggi, di
credenze, di miti, di costumi, di tradizioni che hanno senso tra i membri del gruppo e che li uniscono fra di
loro. Detentore della saggezza, del sapere e del saper-fare di generazioni di antenati, questo microcosmo è
simile ad una cellula vivente che nasconde tutti i segreti “genetici” che le consentono di mantenere e
rigenerare in perpetuo i suoi meccanismi di difesa immunitaria. Inoltre, ogni volta che gli equilibri umani,
sociali e ambientali tradizionalmente stabiliti da questo microcosmo vengono minacciati, gli habitus acquisiti
dai poveri li aiutano ad organizzarsi per esorcizzare la miseria.
Va da sé che questo genere di povertà, fatta di semplicità e di un profondo senso di appartenenza al corpo
sociale, non avrebbe potuto svilupparsi al di fuori delle condizioni di vita proprie delle comunità vernacolari,
condizioni di cui almeno sei meritano di essere ricordate:
a) queste, le comunità, sono di dimensioni relativamente ridotte;
b) sono costituite da un tessuto vivente di relazioni sociali e culturali che assicurano a tutti i membri una
protezione paragonabile a quella di un sistema di difesa immunitario;
c) le risorse necessarie alla loro sussistenza sono determinate e prodotte localmente;
d) non hanno bisogni nel senso moderno della parola, ma ciò che a loro sembra necessario ed augurabile
nella loro lotta comune contro la necessità è perpetuamente ridefinito e riequilibrato in funzione delle
esigenze di questa lotta;
e) non cercano di incrementare a tutti i costi le loro risorse fisiche, ma di sviluppare nel loro seno tutte le
ricchezze che sembrano importanti per sconfiggere la miseria: tra l’altro la coesione del tessuto sociale,
la convivialità, il senso della misura e il rispetto degli equilibri sociali e naturali indispensabile al
benessere del gruppo;
f) le loro attività economiche sono principalmente orientate alla soddisfazione dei bisogni del corpo sociale,
piuttosto che alla ricerca del profitto.
Per ragioni simili, la povertà conviviale, come stile di vita, incoraggia delle pratiche nate e dettate dalle
stesse preoccupazioni. Per esempio, l’ospitalità, l’inquadramento dei bisogni, il controllo sociale dei desideri.
Queste pratiche sono tutte ispirate da considerazioni di buon senso e le esigenze etiche e sociali sono
legate alla loro vita in comune.
2. Le povertà volontarie. Una seconda categoria di povertà, comune alle società vernacolari, è stata
qualificata come volontaria, nel senso che rappresenta la libera scelta di un modo di vivere improntato ad
una semplicità radicale, essendo questa scelta fondata sulla convinzione che la via dell’esser di più non è
quella dell’avere di più. Per i loro autori, questa scelta è, in effetti, sentita come una ricerca di ricchezze di
una natura superiore e di una vita che faccia a meno di ogni forma di dipendenza materiale. E’ questa
visione che ha condotto Socrate a dire che la sua povertà nel vestire l’aveva aiutato a godere di una totale
libertà e di una ricchezza incomparabile a quella dei più ricchi 9
3. Le miserie. Siamo infine giunti alla miseria della quale abbiamo già indicato le differenze rispetto alla
povertà. Nelle sue forme vernacolari, questa ha rappresentato un accidente piuttosto che un fenomeno
sociologico. Coloro che cadevano in miseria erano sovente una minoranza più o meno esclusa o
8 Per maggior precisione, intendiamo per società vernacolare ogni società in cui le attività sociali e produttive dei suoi
membri, come pure i modi di soddisfare i loro bisogni, sono fondati su tradizioni culturali proprie della loro storia.
Vernaculum designava tutto ciò che era elevato, tessuto coltivato e confezionato a casa, contrapposto a ciò che ci si
procurava mediante scambio, il termine- utilizzato per la prima volta da Ivan Illich nel suo libro “Il lavoro ombra”- ci
sembra più approprio per descrivere le società preindustriali, nella misura in cui permette anche di evitare la
connotazione negativa associata all’economia di sussistenza tradizionali che sono spesso assimilate alle società chiuse
(in contrapposizione alle società cosiddette aperte). Una società vernacolare, come la lingua dello stesso nome, è anche
fatta di abitudine e di rapporti sviluppati localmente tra i suoi membri piuttosto che di apporti provenienti dall’esterno.
9 Xénophon, Le Banquet, III, 9, Paris:Gallimard, “Tel”, 1992, p.72
abbandonata dalle società vernacolari. Erano loro il cui stato pietoso per molto tempo è servito come
pretesto per screditare la povertà e trattare le sue vittime alla stregua del villano del Roman de Renart, il
“povero uomo, che non ha averi/fu fatto con la merda del diavolo”.
III. La modernizzazione delle povertà e delle miserie
Il nuovo ordine di produzione inaugurato dalla Rivoluzione Industriale ha indubbiamente rappresentato una
frattura sociale ed epistemologica nella maggior parte dei campi dell’attività umana. E’ stato all’origine di
cambiamenti di carattere radicale nella percezione di ciò che, fino a allora, era stato definito usualmente
come ricchezza e povertà. Producendo sistematicamente nuovi bisogni, ha dato un colpo fatale agli equilibri
quasi organici propri delle società vernacolari. Tanto la definizione dei bisogni e dei loro modi di
soddisfazione che le norme stabilite, che da sempre erano servite a distinguere il necessario dal superfluo,
sono ugualmente state in seguito cambiate.
La povertà modernizzata: conseguenza diretta del nuovo sistema di produzione.
La povertà modernizzata è dunque il risultato diretto della frattura causata dall’instaurazione di un nuovo
modo di produzione come pure delle pressioni, dei miraggi e delle attese legate alle promesse
dell’economia.
Questi fenomeni hanno avuto l’effetto di mettere i perdenti di questo ordine di fronte a nuovi tipi di povertà
indotte contro le quali non erano affatto preparati.
La novità radicale di questa condizione deriva dal fatto che, per la prima volta nella storia, il sistema tecnoeconomico
che si è imposto alla società, sostenendo che doveva condurre all’abbondanza, era allo stesso
tempo strutturalmente implicato nella produzione della povertà e delle miserie moderne. Se questo secondo
aspetto del sistema resta meno conosciuto, ciò è dovuto alla sua considerevole capacità di colonizzare
l’immaginario della maggior parte delle sue vittime, a tal punto che molte tra loro continuano a vedere in esso
una risposta ai loro bisogni insoddisfatti. Grazie a questa sua capacità, il sistema è già riuscito a trasformare
buona parte delle sue vittime in agenti più o meno attivi della propria rovina.
La povertà modernizzata incarna tutte le contraddizioni di questo sistema: in particolare, quella che oppone
la sua realtà di moltiplicazione dei bisogni con uno scopo essenzialmente di lucro al suo discorso fondato
sulle promesse di trasformare la povertà in abbondanza al fine di farne beneficiare tutti i consumatori. Sono
questi gli aspetti del moderno sistema di produzione che ne fanno un Giano Bifronte: una faccia lo presenta
come il creatore indiscutibile di una “abbondanza” senza precedenti di beni e di prodotti; l’altra, ben
nascosta, gli serve per una produzione di genere diverso: le povertà costruite e fabbricate socialmente,
conseguenze dirette della sua smisurata produzione di “beni” e “servizi”. Tale scarsezza indotta, ben
differente da quella naturale, è al giorno d’oggi la causa principale della maggior parte delle nuove privazioni
di cui soffrono i poveri. Forte del suo primo volto visibile e dei suoi potenti meccanismi di sostegno e di
pubblicità, il sistema ha potuto far credere ad un buon numero delle sue vittime che fosse possibile anche
per loro partecipare a quel paradiso terrestre fatto di gioie illimitate fino a quel momento riservate ai soli
ricchi. Nel frattempo, la grande maggioranza dei poveri si trova esposta a frustrazioni che Ivan Illich ha
paragonato al supplizio di Tantalo. Vivono in un mondo di “pienezza” dove tutto è apparentemente alla loro
portata. Ma più gli oggetti del loro desiderio si moltiplicano davanti ai loro occhi, più essi si rendono conto
che questi restano il privilegio unicamente di coloro che sono in grado di pagarne il prezzo.
L’essenza della povertà moderna risiede in queste nuove frustrazioni esistenziali, spesso umilianti e
distruttive, con le quali si trovano a che fare intere popolazioni che, da una parte sono state intossicate con i
bisogni che sono stati creati per loro, dall’altra sono stati privati sempre più dei mezzi necessari alla loro
soddisfazione.
La miseria modernizzata
L’incredibile produzione di bisogni indotti è stata perciò all’origine di tutta una serie di nuove forme di miseria
e di indigenza, che si potrebbero sintetizzare nel termine miseria modernizzata. E’ questa miseria che gli
storici della Rivoluzione Industriale hanno chiamato il pauperismo: una condizione che rappresenta la
cancellazione della povertà conviviale, esposta alla distruzione violenta della sua nicchia vernacolare e
sistematicamente attaccata nelle sue caratteristiche di povertà tradizionale. Una variante ancor più tragica di
questa miseria è poi esportata verso il Mondo cosiddetto Terzo, quel luogo dove, a detta dell’antropologa
Lucie Mair “la miseria (era) è impossibile; (perché) non era in discussione il fatto che se qualcuno avesse
avuto bisogno di essere aiutato, non lo fosse”10.
In questi paesi, la politica di ricolonizzazione portata avanti sotto la bandiera dello “sviluppo”, l’importazione
massiccia dei “valori” e dei prodotti dell’economia dominante, infine la distruzione sistematica delle economie
morali di sussistenza, si sono così congiunte per trasformare la vita sociale in un ‘brodo di cultura’
particolarmente virulento per la produzione in massa di forme ancora più abiette di miseria.
Paradossalmente, queste nuove forme di degradazione hanno avuto gran parte anche nella nascita dei
movimenti definiti come fondamentalisti.
IV. L’aiuto ai poveri: imposture e metamorfosi
E’ in tale contesto che, nel mondo economico , i poteri dominanti hanno messo a punto le diverse forme di
aiuto o assistenza ai poveri e le cosiddette campagne di sradicamento della povertà, campagne che, nei
fatti, hanno contribuito finora molto più alla fragilizzazione – cioè allo sradicamento - dei poveri che non allo
sradicamento della miseria.
La parola aiuto ha subito un tale processo di corruzione che ciò che un tempo si indicava con quel nome è
divenuto il suo contrario. La celebre parabola di Gesù, conosciuta con il nome del Buon Samaritano, ha
potuto ben esprimere la ricchezza profonda che questa parola aveva alle sue origini. Il gesto spontaneo di
quel samaritano rappresenta, in effetti, la compassione allo stato puro, quella di un essere umano che
scopre la presenza di un altro in difficoltà e ne è così toccato che va verso di lui per aiutarlo senza nemmeno
fermarsi a riflettere.
Un esame archeologico di questo aiuto mostrerebbe come esso subisca almeno tre metamorfosi. La prima
porta la data dell’invenzione stessa del povero, allorché fu per la prima volta identificato nell’immagine
sociale che era stata creata. L’istituzionalizzazione del concetto da parte delle Chiese di diverse confessioni,
e insieme delle istituzioni secolari (in primo luogo lo Stato), può rappresentare le sue metamorfosi
successive, ciò che avrebbe infine fatto dell’aiuto una minaccia sistematica al prossimo in difficoltà poiché
queste forme di istituzionalizzazione dell’aiuto porteranno, anche sotto le forme più caritatevoli, a creare
presso gli assistiti delle dipendenze spesso schiavizzanti.
Su un altro fronte, la corruzione dell’aiuto ha ugualmente avuto i suoi effetti su una interpretazione
semplicistica del senso di prossimo inteso da Cristo.
Rileggendo la sua parabola, si vede in effetti chiaramente che il prossimo era per lui chiunque. E’ il gesto
caritatevole che fa di qualcuno il prossimo. L’aiuto istituzionalizzato si applica oggi ad ogni sorta di intervento
che non ha niente a che vedere con un’azione verso il prossimo, per il fatto che si cerca di fare dell’“aiuto”
uno strumento di potere nelle mani di “colui che aiuta”.
Non è un caso se il grosso delle spese fatte sotto questa etichetta viene impiegato principalmente per la
costruzione di “infrastrutture” necessarie al mantenimento e al rafforzamento delle dipendenze, in particolare
dei dispositivi di controllo e di repressione delle popolazioni prese di mira dalle istituzioni economiche,
finanziarie e soprattutto militari che sono ben lontane dal poter aiutare la lotta dei poveri contro la miseria.
Ed ancora è importante che, in un discorso sull’aiuto, si chiarisca in partenza cosa si intende con questa
nozione, cosa si cerca di fare esattamente “aiutando” certe persone o certe popolazioni.
E’ il momento di porre domande più precise e sostanziali. Precisamente, chi aiuta chi? Di che tipo di “aiuto” i
“poveri” hanno veramente bisogno? E, più esattamente, ne avrebbero avuto bisogno se li avessimo lasciati
tranquilli, se non continuassimo con tutti i mezzi a nostra disposizione a costringerli ad abbandonare i loro
modi di vita e di produzione, se non ci si fosse accaniti sui loro propri modi di “aiutarsi”?
Un’indagine approfondita di queste questioni dimostrerebbe che l’aiuto oggi elargito sotto questo nome non
è ormai altro che un aiuto autocentrato, rovesciato, con ritorno di vantaggi.
V. Elementi di riflessione per un approccio alternativo
Se le risposte a queste domande ora poste, come a quelle che le hanno precedute, sono state spesso
sconcertanti, è perché le sofferenze, le tribolazioni e le aspirazioni dei poveri sono state “diagnosticate”
indipendentemente dalla società che le aveva fatte nascere. Per parafrasare Gorge Simmel, l’uomo povero
come persona e la sua propria percezione della sua condizione hanno per loro così poca importanza quanta
ne hanno agli occhi del donatore che dona l’elemosina per la salvezza della propria anima11.
10 L. P. MAIR , An African People in the Twentieth Century, 1934, citato da Polanyi, Op.Cit., p. 220
11 G. Simmel, Les Pauvres, Paris, PUF, p. 45
I politici ed i loro esperti della povertà si rifiutano di mettere in discussione le ragioni profonde dei fenomeni di
impoverimento. Non cercano mai di vedere se è possibile eliminare le disparità sociali e i meccanismi di
produzione della povertà. Ciò che interessa loro è piuttosto attenuare taluni effetti rivoluzionari di queste
disparità al fine di preservare meglio le strutture esistenti della società che le ha create. Preoccupati dai loro
problemi ben più che da quelli dei poveri, continuano a proporre senza sosta misure di carattere sedativo e
soluzioni illusorie che, nei fatti, accrescono di giorno in giorno la loro dipendenza strutturale dai rapporti di
forza che li sfruttano.
E’ per evitare di cadere negli stessi vicoli ciechi che, a rischio di deludere il lettore, questa esposizione non
giungerà ad alcuna proposta finale di soluzione. Quello che, al contrario, si tenterà di fare, come
conclusione, sarà di condividere alcuni elementi per la riflessione a partire da un’analisi delle differenti
dimensioni di questa particolare condizione.
La povertà non è un “problema”
Non c’è, per iniziare, alcun motivo per pensare che un modo di vivere basato sulla semplicità, la frugalità, la
misura e il rispetto degli altri e della natura, uno stile di vita che è stato “la condizione normale dell’uomo
civilizzato”, dovrebbe essere un problema per chicchessia. Lo è tuttavia divenuto a partire dal momento in
cui questo modo di vivere è stato “problematicizzato” per giustificare un certo discorso e di pratiche rese
necessarie per il mantenimento di una società strutturalmente pauperizzante. E’ questo tipo di
problematizzazione che ha consentito alla società dei non poveri di ridurre la povertà ad un semplice
pacchetto di mancanze.
E’ infine grazie a problematicizzazioni di questo genere che l’economicizzazione graduale delle società
umana aveva permesso ai suoi protagonisti di portare avanti le loro battaglie di cinque secoli contro il modo
di vivere dei poveri e la loro economia di sussistenza.
Il problema dei poveri non è mai stato la loro povertà, ma la configurazione dei saperi, dei poteri e dei modi
di intervento che li hanno sistematicamente privati dei loro strumenti di lotta contro la miseria, gli stessi fattori
che continuano ai nostri tempi a produrre la povertà come prodotto sociale e, di conseguenza, le miserie che
servono a scacciare o a corrompere la povertà. E’ illusorio pensare di poter mettere fine a questo stato di
cose fintanto che questo tipo di problematicizzazione servirà ai poteri dominanti per sostituire i loro obiettivi
di profitto e di “progresso” tecnico alle finalità di giustizia sociale e di rispetto degli equilibri e della misura,
tanto necessari al cambiamento della situazione in favore dei poveri.
Bisogna fare a meno dell’economia?
L’economia moderna propriamente detta rappresenta una delle cause principali della attuale diffusione della
povertà nel mondo. Poiché, contrariamente alla oekonomia antica che le ha dato il nome, questa economia
ha smesso di essere l’arte del venire incontro ai bisogni della società che essa è chiamata a servire. Da
quando l’economia si è sganciata dalla società per imporle la sua logica di espansione al servizio del profitto,
ciò che essa produce non è altro che a servizio delle classi sociali che cercano di manipolarla secondo i loro
propri interessi.
Per questi motivi l’economia di mercato mondializzata ha creato una situazione paradossale nella quale tutto
sembra, al contempo, possibile e bloccato. Possibile perché il binomio tecnologia-economia può senza
dubbio immettere sul mercato una quantità senza precedenti di servizi e venire incontro teoricamente ai
bisogni primari di tutte le popolazioni. Bloccato, dal momento che la macchina che produce l’abbondanza è
la stessa che fabbrica sistematicamente la miseria.
La via da seguire non sarebbe dunque né quella di un’economia produttivista, che resterebbe sottomessa
alla legge del profitto, né, beninteso, il rifiuto di ogni istituzione economica.
Non dovrebbe essere, però, come dice Gandhi, una egonomia al servizio dei più abbienti, ma un’economia
nuovamente agganciata alla società, che rispondesse, in primo luogo, ai bisogni del corpo sociale nel suo
insieme, ed in particolare delle sue parti più maltrattate.
Il ruolo ambiguo dei sostegni dall’esterno nel problema della povertà
Uno degli aspetti paralizzanti dell’economia produttiva moderna è la sua pretesa di rimediare a tutte le
carenze di cui soffrono i poveri con un afflusso di apporti esterni: da qui la sua convinzione che una crescita
economica forte e durevole sarebbe la soluzione ultima a queste mancanze. Tuttavia, in alcune società
umane, il benessere dei loro membri non è dipeso dal solo miglioramento delle condizioni esterne alla loro
vita. Le società vernacolari hanno, in verità, sempre saputo far fronte alla miseria con il minimo apporto da
fuori. Per i loro membri non c’erano delle mancanze da soddisfare attraverso dei processi meccanici.
Esisteva piuttosto un processo di risonanza e di tensione creatrice tra alcune mancanze sentite da un dato
soggetto e la sua percezione di ciò che gli sembrava necessario per farvi fronte: sia nel procurarsi i mezzi
materiali con i quali soddisfare la necessità, sia rifugiandosi nella frugalità, sia, infine, sublimando il suo
desiderio di alleviarle con altri mezzi radicati nella propria tradizione. La mancanza si trasformava così molto
spesso in un esercizio arricchente che dava al suo autore forze addizionali per affrontare le necessità. Sul
piano sociale questa tensione, assai spesso dolorosa, ma sempre vivificante, ha costituito infatti la ricchezza
principale di queste società nella misura in cui essa le stimolava di continuo a sviluppare le loro capacità di
vivere meglio con quello che avevano, forgiando contemporaneamente i legami umani, gli equilibri sociali e
naturali e l’equilibrio che era loro vitale conservare.
Cercando di ridurre il problema della mancanza a dei semplici apporti esterni - apporti che, d’altra parte,
hanno sempre coinciso con l’imperativo del profitto - l’economa moderna ha soprattutto esposto i suoi
consumatori a dei bisogni che li rendono sempre più dipendenti dal suo potere. Questo potere li ha indeboliti
nella loro autonoma capacità di percepire queste mancanze, di valutarne l’importanza e la portata, infine di
rispondere loro secondo i mezzi propri e gli equilibri umani e ambientali necessari alla loro vita sociale.
Il povero, protagonista principale del suo destino
Questa ultima considerazione ci rimanda ad un punto capitale al quale l’economia produttiva moderna è
sempre stata indifferente: cioè il posto centrale che i poveri continuano ad occupare nel loro destino. Quale
che sia l’idea che si può avere del povero, o la definizione che ne viene data, è in fin dei conti a questo
soggetto, braccato da avversità di ogni sorta che spetta di trovare delle risposte, da solo o insieme ai suoi
amici e vicini. E’ dalla sua tempra e dal suo carattere , dalla sua saggezza ed intelligenza, dalla sua capacità
di organizzazione e di resistenza alle disgrazie, come dalla forza del suo gruppo umano, che dipende l’esito
della sua lotta permanente contro la miseria. I sostegni fisici o sociali che gli provengono dall’esterno sono
sempre apprezzati fintanto che non divengono strumenti potenziali del suo asservimento. Ma è in fin dei
conti il povero, lui solo che può trasformare ogni mancanza ed ogni minaccia alla sua integrità in una nuova
possibilità di arricchimento e di vittoria su sé stesso. E’ ancora, in primo ed ultimo luogo, lui che è nella
posizione migliore per trovare la risposta giusta e la soluzione più realistica ai suoi problemi.
“Lasciate i poveri tranquilli”
Forte di questa certezza basata sulla sua grande conoscenza dei poveri, Gandhi aveva, a suo tempo,
esortato tutti gli esperti in povertà a “lasciare i poveri tranquilli” o, più precisamente, a “non pesare sulle loro
spalle” (get off their back). Egli aveva perfettamente compreso che i suoi amici poveri sarebbero ben più
aiutati se soltanto si smettesse di vincolarli alla miseria sotto la bandiera dell’aiuto e dello sviluppo, creando
in loro sistematicamente nuovi bisogni aggiuntivi, convertendoli alle tecnologie schiavizzanti, a dei “beni” e
dei “servizi” che li rendono sempre più dipendenti da fattori che sfuggono al loro controllo, spossessandoli
infine dei loro mezzi propri di sussistenza. “Lasciate i poveri tranquilli” era anche, per lui, un frase che
esprimeva la volontà di far sì che continuassero ad aiutarsi tra loro, collaborando come avevano fatto
attraverso i secoli.
Smettere di seminare la miseria piuttosto che tentare di sradicare la povertà
Lasciare i poveri tranquilli non vuol dire, tuttavia, che una società, degna di questo nome, debba estendere
lo stesso principio a tutte le persone ed istituzioni che partecipano alla creazione ed alla semina della
miseria. Tanto i poveri devono essere protetti dalle forze che colpiscono la loro capacità autonoma di
combattere la miseria, tanto è importante per la società intera vegliare a che la produzione di miseria sia
arrestata con tutti i mezzi e a tutti i livelli. La sorte dei poveri nelle società economicizzate dei nostri tempi
ricorda, a ben vedere, quella delle molte persone imbarcate a bordo di un vecchio battello sovraccarico che
fanno naufragio e ai quali le organizzazioni di salvataggio lanciano le boe di salvataggio. E’ questo tipo di
operazione che è spesso definita come aiuto ai poveri o come lotta alla povertà. E più si riesce a salvare
qualche naufrago, più le persone che assistono al salvataggio sono portate a dimenticare completamente
tutto ciò che ha preceduto e causato il naufragio. In particolare i legami quasi strutturali tra le cause che
hanno condotto i naufraghi a questo genere di viaggio e le operazioni di salvataggio. L’esistenza risaputa di
4 miliardi di persone sulla terra il cui reddito giornaliero è inferiore a 2 dollari ne costituisce una chiara prova.
Gli smisurati “progressi” economici e tecnologici, non hanno significato per i poveri altro che una
mondializzazione della miseria. In queste condizioni non basta più soltanto lasciare i poveri tranquilli, ma è
necessario re-inventare senza sosta i modi di pensare e di agire al fine di frenare la produzione della miseria
a tutti i livelli. E questo non attraverso operazioni di chirurgia estetica su di un corpo aggredito da un cancro
produttivo, ma andando al fondo delle cose. Tutto questo è necessario anche per comprendere meglio i
meccanismi di produzione della miseria, e in seguito per convincere tutti gli attori sociali a prendere
coscienza dei loro rispettivi ruoli in questa produzione ed infine perché una tale presa di coscienza li esorti a
indirizzare i loro sforzi in una direzione opposta.
Le strade apparentemente impossibili
E’ ben vero che nei rapporti di forza odierni il cammino prospettato sembra appartenere, di primo acchito, al
dominio dell’impossibile e dell’utopico. Il nuovo ordine produttivo instaurato dal binomio economia-tecnologia
ha già avviato tutti gli attori sociali quali noi siamo su di una strada veramente tragica, nel senso greco della
parola. Come è già stato detto questo binomio non è più il solo ed unico produttore della povertà
socialmente fabbricata. Esso é riuscito soltanto a realizzare il sogno antico di ogni potere dominante: saper
trasformare la maggior parte degli attori sociali, ivi comprese le vittime più abusate, in agenti della propria
rovina. In tutti i campi in cui questi attori esercitano le loro attività quotidiane - siano esse di ordine
tecnologico, sociale, politico, culturale, educativo, ecologico o teorico – essi sono effettivamente indotti a
partecipare alla produzione della miseria. Detto altrimenti: i giochi del sapere e del potere che sono legati al
doppio sistema di produzione delle merci e dei bisogni tendono oggigiorno a fare di tutti gli attori sociali,
senza eccezione alcuna, i collaboratori potenziali alla diffusione della miseria, senza che questi ultimi
neppure se ne rendano necessariamente conto12.
Cambiare il paradigma
Di fronte a delle ‘impasses’ così preoccupanti, è ancora immaginabile per i poveri e per i loro amici ristabilire,
su basi nuove, gli equilibri che avevano spesso saputo creare e mantenere nelle società vernacolari per
sfuggire alla miseria?
Gli innumerevoli tentativi di adattare la crescita e lo sviluppo ai bisogni di un più gran numero di persone
hanno mostrato la loro incapacità di arrestare gli aspetti impoverenti di questa economia. I migliori risultati
del PIL spesso non hanno fatto che aggravare le sofferenze dei poveri. Nella maggior parte dei casi questi
hanno rappresentato per i poveri nient'altro che lo sradicamento, l’esodo verso la città e la perdita di tutti i
loro strumenti di lotta contro la miseria. E’ ovvio che, in queste condizioni, i vecchi paradigmi nati dalle fede
cieca nella mano invisibile dell’economia, soprattutto il mito del trickling down (‘sgocciolamento’), sono
diventi obsoleti. Altri devono prendere il loro posto, altri che dovranno portare ad una percezione del tutto
diversa della ricchezza dei poveri e delle forme di azione e di interazione per evitare il peggio.
Se è evidente che i paradigmi sono ormai vecchi, è tuttavia chiaro che una guerra frontale contro di essi non
è possibile. Non è neppure dal ‘di fuori’ né ‘dall’alto’ di chi è estraneo all’esperienza vissuta dai poveri che
potranno nascere i nuovi paradigmi dei quali essi hanno bisogno per reinventare il loro presente.Da ciò la
necessità di un ascolto attento ai numerosi movimenti di resistenza alla forza del mercato che si verificano
praticamente dappertutto nel mondo da almeno quattro o cinque decenni.
Il modello di una povertà basata su di una vita semplice e frugale è adottato da un numero crescente di
individui appartenenti a tutte le classi sociali. Anche nella società dei grandi consumi, malgrado
l’occupazione sempre maggiore degli spazi di vita vernacolare da parte dei fattori economici, la semplicità
volontaria sembra essere nuovamente percepita come un’arma efficace per resistere a questo
assoggettamento13.
Inoltre essa trascende le tradizionali classificazioni geografiche o economiche, dal momento che riguarda
indifferentemente tutte le regioni del mondo: la ricerca di modi di vita liberati dai bisogni inventati da altri
sembra distinguersi sia per le sue qualità di innovazione che per la sua ampiezza.
Più in particolare, i giovani del mondo sembrano aver imparato la lezione degli ultimi due secoli nei quali i
loro antenati avevano riposto speranze nelle grandi rivoluzioni popolari che promettevano di trasformare il
mondo in qualche decennio. Essi non credono più in una umanità astratta ed ideologicamente costruita.
L’amarezza nella quale vivono milioni di persone sfiduciate dalle promesse vuote di politici corrotti o di profeti
12 Si veda a questo proposito gli studi particolarmente significativi di Lakshman Yapa, sul sito della Pennsylvania State
University (suo indirizzo: lxy3@psu.edu). In francese, il suo articolo "Déconstruire le développement" in Défaire le
développement; Refaire le monde», Paris, Parangon/l'Aventurine, 2003
13 Si può consultare con profitto Duane Elgin, Voluntary Simplicity : Toward a Way that is outwardly Simple, Inwardly
Rich, New York, Morrow, 1981 (et as riche bibliographies), David E. Shin, The Simple Life : Plain Living and High
Thinking in American Culture, New York, Oxford University Press, 1985, et Serge Monee, La Simplicity voluntaries,
Montréal, Québec/Americus, 1985.
sensibili al potere, sembra piuttosto aver rigenerato in essi il gusto dell’amicizia e di un rapporto più vivo con
gli altri e con la natura, il desiderio di scoprire il proprio mondo interiore, la sorpresa di scoprire le differenze
e le gioie dell’incontro.
Di fronte al potere perverso delle istituzioni dominanti ed alle tentazioni del denaro e del successo personale,
un altro mondo sta per nascere, un mondo che sembra attirato da un’etica ben differente. Si abbandonano i
grandi miti astratti per interessarsi “alle fessure dalle quali penetra la luce” (canzone di Leonard Cohen), non
si crede più alla logica binaria che vuole il mondo diviso in sviluppato o sottosviluppato, in scientifico o
superstizioso, in bianco o nero, certi che tutti i colori dell’arcobaleno siano sorgenti di luce e di sapere. Non si
crede più che i vasi di ferro o di plastica moderni siano migliori, unicamente perché sono più forti o più a
buon mercato dei vasi di terracotta, più fragili, che venivano fabbricati mille anni fa da antichi vasai. Un
nuovo epistema e nuove forme di azione, di interazione e di alleanza si vanno creando, forme che riuniscono
intorno ad esse tutti gli uomini e tutte le donne che comprendono e sentono la bellezza della vita semplice e
frugale, libera dall’ossessione dell’avere sempre di più. La nascita di questo epistema in cui si ritrovano tutti i
poveri del mondo è presagio di un mondo che potrebbe apportar loro delle risposte più costruttive alle loro
sofferenze. Un mondo nel quale i diversi attori sociali potrebbero, per esempio, cominciare con l’esaminare i
meccanismi della loro partecipazione alla creazione delle povertà per poi tentare di alleggerire la parte del
fardello che il loro modo di vita presente scarica sulle spalle di altre persone. Dove gli uni e gli altri
potrebbero approfittare di ogni azione sociale, di ogni lavoro o di ogni impegno collettivo per far cadere le
maschere e rifiutare le idee ricevute. Dove ciascuno sarebbe come una piccola candela nell’oscurità,
disposta a dividere il frutto delle proprie esperienze e il proprio sapere con amici e vicini. Occorre invitare
ciascuno a realizzare nell’umiltà quel poco che sarà per lui possibile fare per qualcuno in pericolo piuttosto
che lanciarsi alla don Chisciotte contro obiettivi enormi ed irraggiungibili che sarebbero utili più al proprio ego
che ai poveri. In quel mondo, “il sogno di un mondo privo di miseria” non passerebbe necessariamente
attraverso misure dirette di aiuto ai bisognosi, ma attraverso una lotta lucida e condotta su più fronti contro
tutti processi di produzione della povertà, contro tutti i sistemi politici, economici e sociali che perpetuano la
violenza, la cupidigia e la miseria. Questa lotta coinvolgerebbe, naturalmente, tutte le forme di resistenza e di
lotta contro le pratiche geopolitiche dette di “aiuto” o di “cooperazione” da parte dei produttori di armi
distruttive o repressive e dai loro protetti e vassalli (governi e forze di opposizione al loro servizio), pratiche
delle quali i poveri sono le vittime permanenti.
La scelta volontaria della semplicità come risposta alle forme imposte di miseria
In conclusione, sembra giunto il momento di gettare uno sguardo nuovo sulla povertà, di rigenerare la
tradizione delle povertà volontarie o conviviali, sia per porre fine alle dipendenze disumanizzanti create dal
regno del denaro, sia per attivare la lotta contro l’abiezione delle miserie fisiche e morali.
Un tale sguardo ci permetterà di vedere meglio gli orrori di un mondo di individui e di nazioni ossessionati
dall’avere sempre di più, il cui comportamento non è soltanto dannoso per i poveri, ma anche al proprio
miglioramento. E ci farà anche vedere le possibilità reali di una lotta costante contro ogni forma di
impoverimento. Sempre di più le donne e gli uomini coscienti della loro dignità si arrendono all’evidenza che
è teoricamente possibile oggigiorno soddisfare tutti i propri bisogni se solo ci si libera dalla cupidigia. Non
dimentichiamo che l’Era economica, come tutte quelle che la hanno preceduta, non è eterna. Le crisi
profonde che la investono a tutti i livelli, le minacce che pongono all’avvenire stesso del pianeta, fanno già
presagire l’avvento di un’altra Era. La fioritura di nuove forme di povertà conviviale sembra così l’ultima
speranza degli esseri umani per creare società fondate sulla felicità dell’essere di più, piuttosto che
dell’avere di più.