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Márai, un esule triste nell’Italia comunista

di Stenio Solinas - 27/10/2010


Esce per la prima volta nella nostra lingua il romanzo che l’intellettuale, in fuga dall’Ungheria, scrisse sul periodo trascorso nel «Paese dei limoni». A Napoli, sulle orme di Croce aveva sperato di trovare la patria della giusta misura, ma si sbagliava

 
Nel 1948 Sándor Márai, esule dall’Ungheria, arrivò in Italia e fra le varie città ove fermarsi optò per Napoli. Alla base di questa decisione c’erano motivazioni diverse: la prima era che nel capoluogo campano viveva Benedetto Croce, e per un liberale conservatore e aristocratico quale Márai, quella vicinanza significava al tempo stesso un conforto morale e una scelta politica. Márai era fuggito dal proprio Paese dopo che il comunismo aveva preso il potere, e con i comunisti non voleva avere niente a che spartire. Solo che in quell’immediato dopoguerra l’Italia viveva la paradossale situazione dei una democrazia occidentale dove il Pci era la seconda forza politica, nonché l’incarnazione della resistenza al fascismo in nome della libertà e di una guerra partigiana che la retorica voleva di popolo e vittoriosa, laddove era stata un fenomeno minoritario e di scarsa importanza militare. Agli occhi di Márai, Croce e il suo entourage rappresentavano una sorta di compensazione a una deriva intellettuale per lui incomprensibile e grazie alla quale il comunismo non era una dittatura, ma una speranza...
Nell’Italia e a Napoli in particolare, Márai si illudeva inoltre di trovare ciò che nel resto dell’Europa uscita distrutta dal conflitto gli sembrava invece scomparso: una certa idea di fraternità, una povertà capace di unire invece che di dividere, un sentimento compassionevole che si nutriva di quello che nei secoli era stato il destino di un popolo invaso, occupato, dominato eppure a proprio modo unito, universale, votato alla grandezza spirituale e artistica. A Napoli, le sue coste, le isole che la fronteggiavano, Márai affidava quel sentimento della storia e della memoria tipico di un’intellighentia europea che a partire dal XVIII secolo aveva fatto del Grand Tour nella penisola il luogo deputato di ogni educazione intellettuale e di una vera e propria dolcezza del vivere. Come Goethe, anche lo scrittore ungherese vedeva nel «Paese dove fioriscono i limoni» la patria della giusta misura delle cose: baciata dalla natura, benedetta dalla luce divina. Si sbagliava, ma era in buona compagnia.
L’esilio italiano di Márai durò pochi anni, sufficienti per capire che la nostra era una nazione «fragile» e che la sua condizione di scrittore esule dall’Est Europa lo metteva nell’ambigua situazione di essere visto con sospetto in un ambiente culturale dove la via italiana al comunismo veniva sempre più presa sul serio e l’anticomunismo sempre più ritenuto un reperto reazionario. La morte di Croce, nel 1952, a 86 anni, fu in fondo l’epilogo di un pensiero liberale fiero e consapevole: dopo di allora liberali e marxisti più che avversari si scopriranno «fratelli separati», con i secondi a incarnare una sorta di inveramento rivoluzionario dei primi... Ma il 1952 è anche l’anno in cui Márai scelse di andare oltreoceano, negli Stati Uniti. Un secondo tentativo, alla fine degli anni Sessanta, a Salerno, questa volta, lo avrebbe definitivamente convinto che quello, purtroppo, non era il paese per lui.
Dell’esperienza italiana resta questo romanzo particolare, San Gennaro Vére e che ora esce tradotto in Italia per la cura di Antonio Donato Sciacovelli (Il sangue di San Gennaro, Adelphi, 346 pagine, 19 euro).Costruito su un doppio binario, Il sangue di San Gennaro non si discosta nella prima parte da quella visione della napoletanità nobile e stracciona, sconfitta eppure a suo modo vittoriosa, delle commedie di Eduardo, dei reportage di Norman Lewis, dei romanzi di Salvatore Marotta e di Curzio Malaparte, scrittori diversissimi e che però nel far convergere il loro interesse su una città ne avevano ricavato una filosofia del vivere. Ancora anni dopo, Raffaele La Capria ne avrebbe dato un compendio magistrale in Ferito a morte, un romanzo dove l’idea d un paradiso perduto per incuria e pigrizia, eccesso di sicurezza, abitudine al bello trasformatasi in passività, cinismo indolente, illumina la decadenza del Meridione d’Italia meglio di un trattato sociologico.
É nella seconda parte però che Márai emerge con prepotenza, perché Il sangue di San Gennaro racconta il dolore di chi, costretto ad andarsene dalla propria terra, sa benissimo che d’ora in poi sarà sempre e comunque uno straniero. Questo sentimento, tuttavia, non si nutre di nostalgia, desiderio di vendetta, illusione in un possibile ritorno. L’esule Márai si sentiva colpevole: si era salvato invece di sacrificarsi... «Il comunismo non è altro che la forma sociale del Nulla. Ora, non c’è niente di più profondo e di più pericoloso del Nulla». Accettarlo e/o ammetterlo significava negarsi come esseri umani. Occorreva invece «la capacità dell’uomo a liberarsi grazie a una rivoluzione spirituale interiore, a sbarazzarsi del giogo imposto dai differenti sistemi sociali». Márai non credeva «a qualsiasi soluzione d’ordine sociale». No, «credeva solo nella redenzione».
Questo atteggiamento aiuta a capire perché Il sangue di San Gennaro trovasse in Italia scarsa eco. Oltre a negare al comunismo dignità intellettuale e politica, Márai non lesinava le sue critiche agli ex comunisti, questi «piromani terrorizzati dall’incendio che hanno contribuito ad appiccare e che ora si fanno assumere da una compagnia d’assicurazione in qualità d’esperti incaricati di stimare i danni»... Questi «compagni di strada che passano il loro tempo a lamentarsi ipocritamente sui metodi “erronei” del collettivismo».
Il suo radicalismo aveva un che di religioso, lo scontro era fra chi crede che l’uomo si esaurisca nella materia e chi invece crede in una spiritualità in grado di riscattare e vincere qualsiasi miseria economica, sociale, morale. Accettando l’esilio, Márai aveva salvato la propria vita, ma sentiva d’aver perso l’anima ed era questo che non sapeva perdonarsi.
Quarant’anni dopo, si sarebbe sparato un colpo di pistola. Era vecchio, malato, non aveva più affetti, il pensiero stesso della letteratura gli procurava solo nausea e disgusto. Si uccise l’anno in cui crollò il Muro di Berlino e dall’Ungheria si moltiplicavano gli appelli intellettuali a tornare, il mea culpa di un regime in dissoluzione. «Vogliono trasformarmi in un monumento, me e i miei libri. Ripubblicano tutto, con rilegatura in pelle, me compreso. Il destino comune di ogni monumento è che i cani finiscono per pisciare sul piedistallo».