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La voglia matta di andare oltre: storia, repressioni e confusione

di Alessandra Colla - 29/10/2010


Qualche giorno fa, per un caso fortuito ma soprattutto fortunato, ho avuto il bene di rivedere un pezzetto di La voglia matta, capolavoro di Luciano Salce interpretato da Ugo Tognazzi e da un’esordiente Catherine Spaak (non mi dilungo, in rete trovate tutto quello che c’è da sapere su questo cult-movie del 1962). Per un sovrappiù di buona sorte, la mezz’oretta che ho visto comprendeva tre chicche — nell’ordine:
# un ragazzo fischietta un motivo, e all’amica che gli chiede «cos’è?» risponde «l’inno delle SS»;
# il protagonista va a trovare il figlio in collegio, e qui la madre superiora gli illustra il ruolo che il ragazzino avrà nella recita scolastica: «lui è Ugola Nera, un capo indiano che si converte al cristianesimo e poi noi gli tagliamo la testa»;
# un gruppo di ragazzi cerca un tema di conversazione, uno propone «parliamo di Stalin», un altro ribatte «e perché non di Hitler?» e una ragazza conclude «che noia, sempre con Stalin e Hitler! Ma perché non parliamo di Sinatra?».

Mentre mi godevo questi pochi fotogrammi non ho potuto fare a meno di chiedermi se oggi — a distanza di 48 anni dal film, di 65 anni dalla morte dei sunnominati personaggi politici e in un clima di dissacrazione diffusa — sarebbe possibile infilare in un film delle battutine analoghe senza farsi del male in modo irreparabile.
Mi sono anche data una risposta: no. E non lo dico per mera convinzione personale, ma perché mi pare che sia sufficiente dare un’occhiata in giro per rendersi conto che non è un momento propizio alla trattazione di certi argomenti. Non parlo tanto della frecciatina anticattolica (deliziosa, ne converrete), quanto piuttosto dell’evocazione di certi nomi sulfurei che ancora riesce a scatenare furori degni di miglior causa: perché, sinceramente, se tutto quello che un gruppo “politico” riesce a produrre è una conferenza su un personaggio discutibile o una scritta su un muro nella ricorrenza di un evento storico del secolo scorso, credo che le istituzioni democratiche possano dormire sonni tranquilli.

Più preoccupante per le medesime istituzioni potrebbe essere invece la voglia matta di fare storia portata recentemente alla ribalta dal caso Claudio Moffa — ottimo spunto per ribadire che non è il negazionismo olocaustico la pietra dello scandalo, bensì la pretesa di proibire la ricerca storica su un qualsivoglia tema. Al riguardo, la più corretta formulazione del problema mi sembra quella espressa nel famoso “appello per la libertà di fare storia” pubblicato il 13 dicembre 2005 sul quotidiano francese Libération e firmato da nomi illustri — Elisabeth Badinter, Marc Ferro, Jacques Le Goff, Emmanuel Leroy Ladurie, Pierre Milza, Jean-Pierre Vernant, Paul Veyne e Pierre Vidal-Naquet, fra gli altri.
Nell’appello e nelle puntualizzazioni che lo accompagnano si ribadiscono considerazioni che, senza andare a scomodare la categoria alta delle “verità fondamentali”, attengono semplicemente alla sfera del senso comune: la storia non è una religione, non è la morale, non è schiava dell’attualità, non è la memoria, non è un oggetto giuridico. Al contrario, la conoscenza storica è un’esigenza democratica — cioè del demos nella sua accezione più piena di popolo stanziato su di un territorio e unito da un patrimonio comune:

«la storia non è proprietà esclusiva degli storici. Tutto il contrario. [Questo appello] chiede libertà per la storia: non per gli storici. La storia non appartiene loro più di quanto appartenga ai politici. Le memorie sono plurali, frammentate, troppo spesso passionali e partigiane. La storia, dal canto suo, è critica e laica: essa è il bene di tutti. È proprio per preservare la libertà d’espressione e garantire a tutti il diritto di accedere alla conoscenza dei dati storici acquisiti in virtù di un lavoro scientifico liberato dal peso delle circostanze che i firmatari di questo appello si levano contro la proclamazione di verità ufficiali, indegne di un regime democratico. Che siano ricercatori o docenti, gli storici esercitano una funzione tale da crear loro più responsabilità che diritti: e lo sanno benissimo. […] Se hanno ricordato che non sta ai parlamentari stabilire la verità storica, l’hanno fatto richiamandosi a una regola giuridica imposta dalla Costituzione, a un imperativo scientifico di ricerca critica e ad un’esigenza civica» (la traduzione è mia).

Sono lieta di precisare che sottoscrivo questo appello degli storici francesi fino all’ultima virgola: ed è per i motivi in esso contenuti che, a suo tempo, firmai io stessa un altro appello meno famoso ma certo più famigerato; e a giudicare da quel che si vede e sente in giro non posso fare a meno di trovare sempre più vere le parole di Henri de Montherlant: «La libertà esiste sempre: basta pagarne il prezzo».