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Matteo Ricci. L’uomo che scoprì la Cina

di Renata Pisu - 31/10/2010


Le celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte del gesuita, che in Oriente preferì l´integrazione alla conquista, invitano a riflettere sui tanti aspetti non solo economici ma anche culturali di un rapporto complesso


Li Madou è uomo davvero di grande pregio e cultura ma non capisco cosa sia venuto a fare qui. Penso che se volesse sostituire i suoi insegnamenti a quelli di Confucio sarebbe cosa troppo stupida». Così scriveva nel 1589 il letterato Li Zhi che, a Nanchino, aveva frequentato padre Matteo Ricci, il missionario gesuita di Macerata il quale aveva scelto un nome cinese, appunto Li Madou, e si era fatto "cinese tra i cinesi", vestendo come i mandarini confuciani, dopo aver tentato di predicare il vangelo camuffato da bonzo buddista, con il cranio rasato, il saio lacero, per "andare verso il popolo"; ma il popolo che gli si accalcava attorno non ascoltava i suoi sermoni, limitandosi a far gran meraviglia dei suoi occhi chiari, del suo naso aquilino, dei lunghi peli che gli spuntavano su gambe e braccia.
Così Ricci aveva infine deciso di vestire i panni dei letterati e di guadagnarsi il rispetto dei notabili del grande Paese perché riteneva che «piuttosto boni cristiani che molta turba». E buoni cristiani, gente convinta e convertita alla fede con senno e ragionamento, avrebbero potuto essere in primis i letterati di alto rango che, con la loro autorità, avrebbero rassicurato coloro che temevano la novità della religione dell´Occidente, come scriveva in una lettera del febbraio 1609, quando ormai da otto anni risiedeva a Pechino, la capitale della corte dei Ming che aveva anelato di raggiungere sin da quando, nel 1582, era sbarcato a Macao.
Nei lunghi anni che trascorse in Cina, Ricci ebbe modo di incontrare molti letterati e di stupirli con le sue conoscenze. Sapeva infatti di matematica, di astronomia, di geografia, di scienze, della misurazione del tempo e dello spazio: aveva studiato tutte queste discipline al noviziato dei gesuiti, poi al Collegio romano, approfondendo anche la conoscenza di altre discipline considerate minori come il teatro, la musica, la pittura, la danza. Era insomma il compendio vivente della civiltà europea nel suo complesso, classica e cristiana. Ma con tenacia e passione era riuscito anche a impadronirsi della lingua e della cultura della Cina, spinto dall´osservazione che «qui si fa più con i libri che con le parole», e affascinava i letterati con i quali scambiava frequenti visite, sia con la sua conversazione in cinese fluente condita con dotte citazioni dai loro classici, i Quattro libri della scuola confuciana, sia con le sue opere, come il De amicitia, in cui presentava in lingua cinese dotta il pensiero dei maggiori autori dell´Occidente su quel nobile tema.
Fu però la traduzione in cinese dei testi illustrativi che accompagnavano la carta geografica del mondo così come era visto dagli europei, a suscitare l´interesse dei mandarini. Infatti, come scrive Matteo Ricci «i cinesi fino allora avevano stampato molti mappamondi i quali erano tutti, occupando il campo con le quindici provincie della Cina et all´intorno pingevano un puoco di mare nel quale facevano certe isolette , nelle quali scrivevano i nomi di tutti i Regni (stranieri)».
Tale fu il successo del suo Mappamondo che ne fece parecchie edizioni e pubblicò opere di teologia e filosofia, tradusse in cinese i primi sei libri della geometria di Euclide, avviò la riforma del calendario, incantò la corte con i suoi orologi meccanici, gli astrolabi, le sfere armillari e con altri doni provenienti dall´Europa come prismi di Venezia, pitture a olio, stoffe.
Sulla sua opera di evangelizzatore non è il caso di soffermarsi in questa sede, basta comunque ricordare che quattrocento anni fa, con la sua adesione alla cultura e alla civiltà della Cina, Ricci aveva aperto la porta non tanto alla fede cristiana ma al dialogo tra le due culture. Aveva riconosciuto nella Cina un mondo totalmente "altro" e vi si era accostato con rispetto e considerazione. Mai avrebbe tentato di cancellare gli insegnamenti di Confucio, come temeva Li Zhi, sarebbe stato "troppo stupido" davvero. E fu proprio la sua convinzione che le cerimonie in onore di Confucio non fossero contrarie alla fede cristiana, essendo onoranze di genere civile, a scatenare la "questione dei riti", la diatriba teologica che portò il papato a proibire, per i cinesi convertiti, qualsiasi cerimonia in onore del Saggio. Soltanto nel 1939 Pio XII riconobbe che di cerimonie civili si trattava. Il danno comunque era stato fatto, il dialogo avviato magistralmente da Ricci era stato interrotto e ancora fatica a essere correttamente ripreso da entrambe le parti.