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Anche la morte è degna di essere vissuta

di Marcello Veneziani - 01/11/2010


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Vengono a prenderci i nostri cari quando è l’ora di morire.
Scusate l’irruzione violenta di un tabù, anzi del Tabù, in un luogo improprio. Ma vorrei parlarvi di un tema proibito e indecente che non si addice a un articolo di quotidiano, anche se in America Clint Eastwood ne ha fatto ora un film, Aldilà (Hereafter). Quel tema è il massimo dell’attualità, anche perché oggi è la vigilia del giorno dei morti, ed è il massimo dell’inattualità, perché non narra di bunga bunga o Pm, ma di qualcosa che ci tocca in modo essenziale.
Dunque, dicevo, vengono a prenderci i nostri cari quando è l’ora di morire. La solitudine del morente è solo apparente e riguarda il mondo dei viventi. Quando la vita sta per abbandonarci, il più caro tra i nostri cari scomparsi viene a prelevarci per il passaggio all’altra riva, come succedeva da bambini quando uscivamo da scuola. Ci aspetta sulla soglia, nella luce, invitante nello sguardo, a volte tende la mano e il morente lo chiama stupito ad alta voce, ha desiderio di combaciare all’invito, qualcosa lo trattiene al di qua della soglia, fino a che si libera e procede verso il suo accompagnatore definitivo. Tanti lo sanno, attraverso l’esperienza indiretta dei loro cari, ma raramente questa strana incursione finale si affaccia nei pubblici discorsi. Il pudore che avevamo sul sesso si è trasferito sulla morte, abbiamo vergogna a denudare queste conoscenze e le esperienze del dolore; abbiamo vergogna della morte. E temiamo di passare per superstiziosi primitivi, in cerca di consolazioni puerili; piccole stregonerie kitsch che non si addicono alla ragione civile e moderna. Eppure è un pensiero dolce e assai confortante che promette un ritorno, una ricongiunzione nella luce. Le rare esperienze di passaggio a cui ho assistito e le altre che mi sono state riferite confermano tutte questo percorso: quando il morente è alla fine, la persona più amata che ha perso in vita - solitamente il padre, la madre, la moglie - gli riappare e lo conduce oltre. Anche persone che ignoravano la ricorrenza di questa visione finale la riferiscono con disarmante puntualità ma spesso con disattenzione, come un marginale dettaglio. E invece quella testimonianza è importante per noi perché ci dice una cosa straordinaria. Non si muore soli, al buio, nella cecità estrema della vita, ma mediante una visione, una fonte di luce e si va via in compagnia.
Quell’esperienza elementare, così diffusa e così vera perché non si ha voglia di fingere in punto di morte, racconta il destino della nostra vita più di teorie scientifiche, mediche o psicofisiche. La spiegazione scientifica di quella visione è che il pathos delirante dell’agonia porta all’allucinazione; la concentrazione sulla vita che se ne va, evoca il trauma di quando morì la persona più cara e risveglia il suo ricordo onirico in uno stato di semilucidità che ha le sembianze della veggenza. Ma è una spiegazione che nulla spiega, o comunque spiega in modo insufficiente i moti dell’anima, le visioni della mente e la meticolosa ricorrenza di questi incontri finali.
La prima osservazione che si può fare riguarda la curvatura del tempo, ovvero la riemersione del passato insieme al futuro. Il tempo si curva e ciò che fu, ritorna; la sequenza lineare del tempo profano si sfalda nella pienezza assoluta di un istante apicale, ove tutto è presente. Al morente è data in extremis questa veggenza profetica della vita e questa visione sferica del tempo, preludio di uno stato ultraterreno o combustione finale del tempo al momento del congedo.
La seconda, promettente osservazione è che chi è scomparso non è inghiottito nel nulla e nel buco senza fondo del tempo passato, ma vive come un’idea (l’eidos di Origene); è presente alla vita dei suoi cari ed è vicino nei loro passaggi cruciali. Qualcosa sopravvive alla vita, e chi ama porta dentro di sé la presenza dell'amato: l’amore è il suo respiro, amare è come dire tu vivi anche se non sei più qui, nel corpo e sulla terra.
La terza implicazione discende dalla precedente: la trasmissione di padre in figlio, il seme della tradizione, non è un’ideologia o un’illusione, ma è un evento reale e simbolico al tempo stesso, naturale e soprannaturale. C’è un passaggio di consegne, una catena che si rinnova, un procedere mano nella mano oltre la vita e tramite il corso delle generazioni. L’amore non è un modo di dire che accompagna alcuni momenti della vita, ma è il filo conduttore tenace e sommerso che guida la vita e non ne permette la dispersione. Dovremmo invertire i saluti, dirci addio quando ci allontaniamo provvisoriamente e arrivederci quando ci allontaniamo definitivamente. Di più non sappiamo dire; però davanti alla disperata euforia dei nostri giorni, dove l’essere sparisce nel nulla ma si gode la vita al consumo, una strana allegria ci prende nel sapere che la morte restituisce la vita attraverso l’amore. C’è qualcosa, c’è qualcuno che rende non solo la vita degna di essere vissuta ma perfino la morte. Come l’estate di san Martino, c’è pure l’estrema allegria del 2 novembre.