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Riflessioni su un pensiero di Nietzsche a proposito delle guerre perdute

di Francesco Lamendola - 02/11/2010

 Ci sono un evento, una data, nella storia di ciascun popolo, che ne riassumono, per così dire, i tratti essenziali e che illuminano lo stesso carattere nazionale: ebbene, per il popolo italiano quella data è l’8 settembre del 1943.
Lo si capisce, del resto, da una semplice constatazione “a rovescio”: è quello l’evento, è quella la data che meno volentieri gli Italiani ricordano; per dire meglio: che cerano accuratamente di evitare, così come si cerca di evitare un parente povero o un po’ strambo, di cui ci si vergogna.
Questo istinto di fuga, questo desiderio di oblio, sono proprio la spia che quel passato non vuol passare; e gli sforzi acrobatici che fanno gli storici e i politici - per citare le due categorie più direttamente interessate - per superare quell’imbarazzo, inventandosi, addirittura, che l’8 settembre non sia stata la morte della Patria, ma l’inizio della sua resurrezione (ossia della Resistenza), testimoniano “ad abundantiam” che quello è il nervo sensibile, non solo della nostra storia recente, ma del nostro stesso carattere nazionale.
Sì, perché l’8 settembre 1943 ha portato al pettine tutti i nodi storici irrisolti, tutte le insufficienze di carattere, tutte le debolezze morali dell’anima nazionale; e, inoltre, il dilettantismo, il cinismo, la mancanza di serietà, la furbizia da quattro soldi, l’opportunismo, il camaleontismo, e infine il difetto più sgradevole di tutti: la vigliaccheria.
Qualcosa si era già visto alla fine di ottobre del 1917, dopo lo sfondamento di Caporetto: anche allora la compattezza dello spirito nazionale aveva scricchiolato paurosamente. Ma la ripresa era stata rapida e spettacolare: già ai primi di novembre il popolo italiano aveva ritrovato se stesso, all’ombra di slogan forse retorici, ma autenticamente sentiti, come questo: «Non più un solo passo indietro: o tutti eroi sulla linea del Piave, o tutti accoppati».
E tuttavia, per chi lo volesse vedere, il difetto era rimasto intatto, anche in quel magnifico soprassalto di fierezza nazionale che aveva permesso all’esercito e al Paese di risalire la china del disfattismo: a pagare per la sconfitta erano stati i poveracci, non i pezzi grossi. Mentre decine di poveri Cristi erano stati fucilati dai carabinieri sui ponti del Tagliamento (come testimoniato, fra gli altri, da Ernest Hemingway in «A Farewell to Arms»), il maggior responsabile della catastrofica sconfitta, ossia il generale Pietro Badoglio, era uscito illeso dal giudizio della commissione d’inchiesta e aveva proseguito la sua “brillante” carriera, culminata sulle ambe dell’Abissinia e nell’ingresso trionfale ad Addis Abeba. In attesa di farsi avanti, più tardi, quando la congiura del 25 luglio 1943 defenestrò Mussolini e pose le premesse per l’8 settembre.
Già, Badoglio: colui che, dopo essere stato silurato dal Duce per lo scacco in Grecia, era rimasto pazientemente in attesa, come un ragno, a filare la sua tela, facendo capire al re, agli industriali, ai massoni, ai gerarchi traditori, che, qualora la Patria avesse avuto nuovamente bisogno di lui, non si sarebbe tirato indietro. Nel frattempo, altro aspetto tipico del carattere nazionale, si era dato un gran daffare per accumulare ricchezze e onorificenze, quasi che, dai tempi di Cincinnato e Furio Camillo, l’Italia non avesse mai avuto un eroe suo pari.
Badoglio: colui che, nei quarantacinque giorni fra il 26 luglio e l’8 settembre, preparò segretamente l’armistizio con gli Alleati, giurando ai Tedeschi che nulla cambiava nei confronti dell’Asse; e, quel che è peggio, che nulla fece per predisporre le cose in modo che, ad armistizio avvenuto e reso pubblico, non avvenisse quel che puntualmente avvenne: lo sfascio totale dell’esercito e della nazione.
In «Aurora», II, 140, Friedrich Nietzsche svolge la seguente riflessione (in: «Nietzsche, Opere», Roma, Newton Compton, 1993, vol. 1, «Opere 1870-1881», p. 964; traduzione italiana di Fabrizio Desideri):

«LODARE E BIASIMARE. - Se una guerra finisce malamente si domanda chi abbia “colpa” della guerra; se invece finisce in modo vittorioso, si esalta colui che l’ha provocata. La colpa si ricerca ovunque si dia un insuccesso, poiché questo reca con sé un malumore contro il quale viene immediatamente impiegato l’unico rimedio possibile: una nuova eccitazione del SENTIMENTO DI POYENZA - e questa si trova nella CONDANNA del “colpevole!”. Questo colpevole non è una sorta di capro espiatorio dell’altrui colpa: è la vittima, dei deboli, degli scoraggiati, dei depressi, che in qualche modo vogliono dimostrare a se stessi di avere ancora forza. Anche condannare se stessi può essere un mezzo per aiutarsi, dopo una sconfitta, ad ottenere il sentimento della forza. - D’altro canto la magnificazione del PROVOCATORE è molto spesso l’altrettanto cieco risultato di un altro impulso che vuole avere la sua vittima - e stavolta il sacrificio ha per la vittima stessa un profumo dolce e invitante: - se infatti per un grande e ammaliante successo in un popolo, in una società il sentimento di potenza è divenuto stracolmo e subentra una STANCHEZZA DI VITTORIA, allora si dimette il proprio orgoglio; allora si fa avanti il sentimento della DEDIZIONE, e si cerca il suo oggetto. Sia che veniamo BIASIMATI o LODATI, di solito non siamo per il nostro prossimo che le occasioni, e troppo spesso le occasioni prese a capriccio e trascinate per i capelli,  per dar libero flusso all’impulso di biasimo o di lode che è in lui cresciuto: in entrambi i casi noi rendiamo al nostro prossimo un beneficio, del quale non abbiamo alcun merito e per il quale  egli non mostra alcuna gratitudine.»

«Aurora» è del 1881 e precede, quindi, «Così parlò Zarathustra» (1883-85), di cui può considerarsi il preannuncio, con la tappa intermedia de «La gaia scienza» (1882); in ogni caso, uno dei momenti più felici e creativi dell’itinerario speculativo del filosofo tedesco.
La riflessione di Nietzsche sulla psicologia nazionale della sconfitta - particolarmente acuta e originale - ci ricorda che ciò che i popoli non perdonano ai loro capi, nel momento della sconfitta (mentre in quello della vittoria sono pronti a riconoscere loro anche dei meriti inesistenti) è la mortificazione del proprio sentimento di forza.
Da ciò deriva una reazione caratteristica: quella di scagliarsi con la massima violenza contro i capi sconfitti, in modo da mostrare a se stesso che lui, il popolo, non si sente del pari prostrato ed imbelle, visto che possiede ancora abbastanza forza per maledire, rovesciare, e - se possibile - massacrare i propri capi che hanno fallito. Come dire: se il popolo rovescia le statue del capo, se scalpella via dai palazzi i simboli del regime; se, addirittura, si unisce al nemico di ieri per combattere ciò che resta del caduto regime e l’ex alleato divenuto nemico, allora esso si sente un po’ meno sconfitto, un po’ meno impotente; si sente un po’ vincitore lui pure.
Ecco, lo abbiamo detto: tanto vale che approfondiamo il discorso. Forse, uno dei gravi difetti del carattere nazionale è proprio quello di non sapersi assumere le responsabilità collettive, ad esempio il peso di una sconfitta. Di qui il desiderio impaziente di saltare la barricata, di passare armi e bagagli al nemico di ieri per potersi, così, trovare dalla parte “giusta”, ossia dalla parte vittoriosa; e ciò al prezzo di non poche umiliazioni, come quella di sentirsi dire dal generale Eisenhower: «Il contributo italiano alla causa alleata è stato inferiore a qualunque aspettativa».
Con tutto il rispetto per quanti hanno fatto la Resistenza con animo puro e sorretti da autentiche idealità, non si può tuttavia negare che combattere contro i Tedeschi e contro i fascisti offrisse, anche sul piano psicologico, questa sottile ma importante gratificazione: non sentirsi coinvolti nella sconfitta; sentirsi anzi cooperatori della vittoria, e sia pure della vittoria che, fino a ieri, era quella del nemico. Così, e solo così, si può continuare a rappresentare il 25 aprile 1945 come il giorno della Liberazione e non già, come sarebbe storicamente e moralmente più giusto e anche più responsabile, come il giorno della Sconfitta.
Del resto, bisogna riconoscerlo: non si tratta di una supposizione malevola, ma di un dato di fatto ricorrente nella nostra storia nazionale.
Non fecero forse così le classi dirigenti meridionali, all’indomani dello sbarco di Garibaldi in Sicilia nel 1860, come è magistralmente descritto nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa «Il Gattopardo»: passare come un solo uomo dalla causa borbonica a quella sabauda, «purché tutto rimanesse come prima» sul piano economico-sociale?
Non l’avevano esse già fatto innumerevoli volte, ad esempio nel 1266, quando Carlo d’Angiò sconfisse e uccise il re Manfredi, già scomunicato dal Pontefice, nella battaglia di Benevento, allorché i baroni del Regno di Sicilia passarono disinvoltamente dagli Svevi agli Angioini, dal partito ghibellino a quello guelfo, piantando in asso il loro legittimo sovrano nel momento del pericolo?
E non lo avrebbero fatto di nuovo l’11 luglio del 1943, allorché le armate anglo-americane sbarcarono in Sicilia e i maggiorenti fascisti, molti dei quali in odore di mafia, gettarono via i distintivi del Partito nazionale fascista, per accogliere a braccia aperte i “liberatori”, cioè quelli che stessi che stavano fucilando sul posto i nostri soldati che si arrendevano sulle spiagge di Gela, al termine di un’impari lotta?
Qualunque cosa, qualunque bassezza, pur di saltare sul carro dei vincitori del momento; pronti, del resto, a tradire un’altra volta, non appena le circostanze dovessero mutare. L’importante è cadere sempre in piedi, trovarsi sempre dalla parte “giusta” della barricata. Del resto, anche le classi dirigenti settentrionali avevano mostrato una tale propensione: quando cadde la Repubblica di Venezia; quando Austriaci e Francesi scorrazzavano per la Valle Padana, fra il 1796 e il 1813; quando i moti del 1848 travolsero i duchi di Parma, di Piacenza e di Toscana.
E, anche per l’Italia del Nord, la vergogna parte da lontano: non era forse stata Venezia a dare la spallata decisiva a Massimilano Sforza, figlio di Ludovico il Moro, signore di Milano, quando sui campi di Marignano, nel 1515, si combatteva la partita decisiva contro i Francesi per l’indipendenza dell’intera Penisola? Non aveva forse la Serenissima fatto la parte dello sciacallo, in cambio di qualche brandello di territorio lombardo?
Tornando all’8 settembre del 1943 e al suo corollario del 25 aprile 1945: se il vergognoso voltafaccia del re e di Badoglio furono la scelta “giusta” in quel momento; se la Resistenza fu la risposta di un popolo che, per vent’anni, aveva sofferto in silenzio, aspettando di poter riconquistare la propria libertà; se, in una parola, tutte le colpe della dittatura, della guerra e della sconfitta, erano di un uomo solo, Mussolini, o di poche decine di uomini, i capi fascisti: allora va da sé che anche gli Italiani poterono sentirsi “vincitori” al termine del conflitto; e sia pure al prezzo, fra l’altro, di una guerra civile, mai però chiamata col suo vero nome.
Perché il senso del’8 settembre fu quello di una doppia tragedia nazionale: la disfatta, sul piano internazionale; la guerra civile, sul piano interno. Nessun altro popolo ha conosciuto questi due drammi contemporaneamente: la sconfitta militare e l’invasione straniera e, contemporaneamente, la guerra civile. Una guerra civile in cui si cercava l’aiuto di quegli stessi “liberatori” che stavano metodicamente radendo al suolo le nostre città, mitragliando i nostri civili inermi, spezzonando i nostri treni carichi di profughi, violentando le nostre donne; mentre ci si faceva un punto d’onore di tendere imboscate, anche vili e discutibili, come quella di Via Rasella, agli ex alleati che ci avevano aiutati e tirati fuori dai guai in tanti frangenti scabrosi, dai monti della Grecia ai deserti della Libia, e che avevano versato il loro sangue insieme a noi per difendere, ma con assai più grinta di noi, il nostro territorio nazionale invaso.
Se, poi, si prende in esame la nostra vita nazionale dopo il 1945 e la cosiddetta Liberazione, sempre si ritrova la stessa furberia di fondo, da parte dei partiti, degli industriali, della finanza, perfino - o soprattutto! - della cultura e del mondo accademico: quella di volersi trovare ad ogni costo, a prezzo di qualunque voltafaccia, di qualunque contorsionismo, dalla parte vincente. A livello parlamentare, questa indegna strategia va sotto il nome di “ribaltone”: indice di un difetto del carattere nazionale, non solo delle circostanze mutevoli della politica.
Dovremmo riflettere su questo e tirare onestamente qualche conclusione.
Chi sbaglia, deve imparare a pagare in prima persona: questo vuole l’onestà, questo vuole il rispetto di se stessi.
Non si può tenere sempre d’occhio il carro dei vincitori, per prendere le misure atte a fare il salto giusto nel momento giusto.
Sarà molto italiano, ma non è qualcosa di cui si possa andare fieri; faremmo bene a cambiare stile, se ci premono la stima altrui e quella di noi stessi.