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Quella canaglia d'un Burton

di Stenio Solinas - 02/11/2010


Il grande  esploratore e orientalista inglese. Nell'800 tradusse il "Kamasutra", entrò alla Mecca e cercò le sorgenti del Nilo. Morì in Italia, lontano da una gran Bretagna che non lo amò mai

 


Era arrivato a Trieste che aveva cinquant’anni, ultima tappa di una carriera diplomatica mai stata all’altezza della sua fama di viaggiatore ed esploratore. Era andato alla ricerca delle sorgenti del Nilo, si era introdotto nel cuore segreto della Mecca, aveva studiato i mormoni a Salt Lake City, i somali ad Harar, ma per il governo inglese Richard Burton (Torquay, 1821 – Trieste, 1890) restava «Ruffian Dick», Dick la canaglia. Un uomo da evitare più che da valorizzare.

A Trieste, da console e poi da pensionato, Burton resterà una ventina d’anni, sino alla morte. Stava a Villa Gosleth, oggi Villa Economo, in cima alla salita del Promontorio. Tradurrà qui il Kamasutra, l’Ananga Ranga e Le mille e una notte. Sarà qui che la moglie brucerà alcuni dei suoi lavori, un falò purificatore per salvargli l’anima e la reputazione di cui si parlerà molto e si favoleggerà troppo. Ai funerali, andò l’intera città, corpi consolari e semplici cittadini: c’era stato amore, interesse e rispetto reciproci e per i triestini Burton era un grande intellettuale e un signore. Erano più intelligenti dei suoi connazionali.

Adesso il Museo Sartorio, in occasione del 120esimo anniversario della morte, allestisce questa mostra, Il leone e la leonessa. Vita di Sir Richard Burton e di sua moglie Isabel (fino al 21 novembre), che è un’occasione per tornare su un personaggio fuori della norma per ampiezza d’interessi e singolarità del vivere. Piccola, ma bene ordinata, allinea documenti originali e foto d’epoca, prime edizioni e oggetti d’arte e d’uso comune e ricostruisce una biografia e un pezzo di storia ottocentesca. Curata da Riccardo Cepach e Michael Walton e voluta dall’assessore comunale alla Cultura Massimo Greco, si inserisce in un’intelligente politica culturale che mira da un lato a un recupero dell’internazionalità di Trieste, di là dal solito e un po’ logoro cliché della città mitteleuropea, e dall’altro all’approfondimento di quegli elementi nazionali (il mare e gli scrittori di mare, come nel caso delle coeve esposizioni dedicate al fotografo Franco Pace e al romanziere Pier Antonio Quarantotti Gambini, il Liberty, le grandi griffes del made in Italy come Roberta da Camerino) che ne hanno accompagnato la storia.
Nato nel 1821, Burton fu con Livingstone, Stanley, Baker e Spee, fra i primi cinque esploratori del suo tempo, ma nessuno di essi può competere con lui in campo antropologico, etnologico, linguistico. Libri come Pellegrinaggio a el Medina e alla Mecca, Regioni dei laghi del centro-Africa, Sindh e le razze che abitano le valli dell’Hindo, sono dei classici in materia, la traduzione delle Lusiades di Camoes, del Pentamerone di Basile, dei già citati Mille e una notte, Kamasutra e Ananga Ranga, rimangono esemplari.

Nato a Torquay, gran parte della infanzia e della giovinezza Burton la passò sul Continente, tra Francia e Italia. «L’Inghilterra è il solo Paese dove non mi sento a casa». Gli sporadici rientri in patria, per compiere almeno parte di quel cursus honorum che dalle preparatory schools portavano a Eton e poi alle più antiche università del Regno, si risolsero sempre in mezzi fallimenti. Era più intelligente della media dei suoi compagni, conosceva di più la vita, aveva una cultura più irregolare, però più vasta. A Oxford gli fu negata una borsa di studio non perché non sapeva, ma perché sapeva troppo, ma a modo suo.

In quelli che restano fra i più grandi reportages di tutti i tempi, il viaggio nella valle del Sindh, oggi in Pakistan, il pellegrinaggio mediorientale alla Mecca, l’ingresso nella città di Harar, nel Somaliland, Burton non è il classico esploratore-viaggiatore bianco che osserva e racconta dall’esterno. È il santone indiano, il mercante islamico che osserva e racconta dall’interno. A lui non è nascosto nulla, nulla è impedito... Più che portare su di sé «il fardello dell’uomo bianco» e così facendo illuminare le razze primitive inferiori alla luce dell’intelletto e della fede propri di una civiltà superiore, Burton in realtà si spogliava di ciò che era per divenire un’altra cosa. E lo faceva senza repulsione, ma anzi con passione. La curiosità e l’empatia con cui questa ricerca viene compiuta, la consapevolezza che, per esempio, nel rapporto fra i due sessi ci fosse in Oriente molto più interesse nel piacere femminile di quanto l’Occidente sapesse, volesse o potesse immaginare, era un qualcosa di impensabile per una cultura il cui massimo d’educazione sessuale consisteva nello sposo che la prima notte di nozze sussurrava: «Sdraiati cara, e pensa all’Inghilterra»...

La “leggenda nera” di Burton viene da qui, in un Paese dove l’Obscene Publication Act del 1857 e la Società per la Repressione del Vizio vietavano la pubblicazione del libretto della Traviata o di La terra di Zola e William Acton, fisiologo alla moda, insegnava come la masturbazione portasse alla pazzia, il sesso all’infarto, ogni donna alla sifilide... Ed è una leggenda che va ad aggiungersi al cattivo carattere, all’indipendenza di giudizio, al sarcasmo di chi bollava la vita coloniale inglese come un susseguirsi di partite di polo, cacce alla tigre, fazzoletti delle figlie dei comandanti galantemente raccolti da terra nei tea-parties dagli aiutanti di campo, esercitazioni militari in cui mille sepohys ascoltavano un ufficiale gridare, un altro tradurre e nessuno capire...

Alla “leggenda nera” contribuì suo malgrado la moglie Isabel, con quello che, lo abbiamo accennato, passò alla storia come «lo scriteriato falò» di diari, lettere, manoscritti fatto a cadavere ancora caldo. Per quanto in A Rage to Live. The biography of Richard&Isabel Burton (Norton editore), Mary Lovell abbia definitivamente dimostrato come gli inediti di Burton via via venuti alla ribalta costituiscano una delle più grandi collezioni individuali giunte sino a noi, come Isabel abbia selezionato nel tempo, e con un proprio criterio, il materiale da bruciare e non dunque follemente e in una sola volta, «in un rogo che durò giorni» secondo una vulgata a lungo accreditata, è fuori dubbio che la motivazione di quel gesto, «desideravo che il suo nome vivesse per sempre, non sporcato e senza macchia», affonda in quell’humus.

Da un primo rapporto, commissionatogli da Sir Charles Napier, allora Capo di Stato Maggiore in India, sui bordelli omosessuali di Karachi frequentati dai militari britannici, rapporto che sarebbe dovuto rimanere segreto e che invece finì per circolare fra alti comandi militari e ministeri, all’attività clandestina di editore di classici dell’erotismo, quelli indiani già ricordati, l’arabo Il giardino profumato dello sceicco Nefraoui, i latini Carmina priapea, Burton venne sempre percepito dalla società che contava come una figura moralmente eversiva, un pericolo, insomma, per le istituzioni.

Fisicamente, era una specie di gigante, scuro di carnagione, un «negro-bianco»; intellettualmente era un concentrato dintelligenza e di arroganza, parlava quaranta fra lingue e dialetti, poteva travestirsi da arabo, da indiano, da persiano, praticava l’ipnotismo, non permetteva alla morale di intralciare la conoscenza. Non sorprende che per i suoi contemporanei incarnasse qualcosa di demoniaco. Il poeta Swinburne disse che aveva la mascella di un diavolo e la fronte di un dio, il duca di Doureven che assomigliava a Satana. Bram Stocker, l’autore di Dracula, che se lo ritrovò compagno di scompartimento in un viaggio ferroviario da Dublino a Belfast, ne ebbe l’impressione «del puro acciaio che ti attraversa come una spada», uno dei segretari dell’Athenaeum, il suo club londinese, che lo conobbe da vecchio, ne ha lasciato l’immagine «di un monaco benedettino, un crociato, un pirata». Nella casa triestina di Villa Gosleth, a fianco della cappella cattolica di Isabel, presente nella mostra, c’era anche il salottino arabo di Richard. Il leone e la leonessa che non si sbranarono mai.