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Nord razzista e sud fancazzista (ovvero quando la Lega ha quasi ragione)

di Laura Eduati - 02/11/2010

Fonte: glialtri

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Francesco Patierno sta girando in queste settimane il suo nuovo film, “Cose dell’altro mondo”, con Diego Abatantuono e Valerio Mastandrea. Avrebbe voluto ambientarlo a Treviso, terra leghistizzata e dunque perfetta per mettere in scena la storia di un imprenditore veneto che dalle sue televisioni locali inveisce contro gli immigrati. Ha dovuto rinunciare: il sindaco Gian Paolo Gobbo, ras del leghismo nordestino, ha liquidato le troupe di Abatantuono con poche ficcanti parole: “Sono solo stereotipi”. E dunque il regista ha dovuto rimediare nella vicina Bassano del Grappa.

Non è la prima volta che i dirigenti leghisti si arrabbiano quando cinema e televisione presentano i veneti come tonti, ignoranti, avvinazzati, sgobboni, attaccati “ai schei” e, ultimamente, pure xenofobi e intolleranti. E hanno ragione da vendere. I leghisti.

Dalla loro si schiera persino lo scrittore vicentino Vitaliano Trevisan, contattato un tempo da Patierno per collaborare alla sceneggiatura ma che aveva rifiutato perché “colma di luoghi comuni”. Appunto. Trevisan non è mai stato tenero coi capannoni del Nordest e con il sistema produttivo veneto, né tantomeno con la Lega Nord, eppure rileva il fastidio – quanto mai comune nei nordestini – verso un sud che non conosce il nord e spesso lo illustra con aggettivi poco edificanti, poi restituiti al mittente.

Trevisan non è il solo. In una intervista ad Antonello Piroso il magnifico Antonio Pennacchi, originario del Polesine, aveva sentito l’esigenza di chiarire come il Veneto, terra certamente attraversata dall’intolleranza, sia molto diverso da come viene rappresentato e immaginato. E un altro giornalista-scrittore veneto, Stefano Lorenzetto, ha appena dato alle stampe un libro in difesa del carattere regionale, “Cuor di veneto. Anatomia di un popolo che fu nazione”, dove intervista venticinque personaggi veneti, famosi e persone comuni, che nulla hanno a che fare con le rivendicazioni autonomiste o con orgogli di pseudo-razza, ma che erodono il pregiudizio di un nordest superomistico ed egoista.

L’operazione di Lorenzetto è probabilmente riduttiva e ha il sapore della difesa patriottarda, tuttavia coglie il punto. Non è un caso che il film “Benvenuti al sud” stia avendo successo al botteghino e che presto vedremo il sequel “Benvenuti al nord”: in una Italia spaccata in due entità territoriali che si guardano sempre più in cagnesco, e di questo la Lega porta fortissime responsabilità, sopravvive l’antica curiosità di mettere a confronto nord e sud per vedere l’effetto che fa. Il rischio naturalmente è quello di oscillare dal disprezzante luogo comune al “volemose bene”: gretti italiani del nord e fancazzisti italiani del sud che scoprono le reciproche qualità e si abbracciano in un lacrimoso happy end.

Il rischio è tanto più alto se il nord, come il sud, vengono lasciati al racconto estemporaneo di registi e scrittori che poco hanno a che fare con (attenzione, ora arriva la parola più abusata dai leghisti) il territorio. Massimo Carlotto e Antonio Mazzacurati, entrambi padovani, hanno tentato di rappresentare le atmosfere, spesso cupissime, della periferia diffusa nordestina, della perdita dei valori a vantaggio dei benedetti “schei”, della violenza inespressa. Ma sono casi isolati.

Il dramma è che il nordest è raccontato principalmente dalla Lega, e paradossalmente è proprio la Lega a difendere il nordest dagli stereotipi che lei stessa alimenta. Con un corollario: che quando i politici del Carroccio si difendono dal luogo comune, hanno torto pur avendo ragione.

Tanto per cominciare, in un recente dibattito su Gramsci con Fausto Bertinotti, l’ex governatore sardo Renato Soru ricordava come il filosofo suo conterraneo scrivesse alla sorella raccomandandole di insegnare il dialetto ai bambini perché l’antica lingua andava conservata come tradizione preziosa. Sono parole che suonerebbero famigliari, e carissime, anche ad un veneto e ad un bergamasco per i quali il vernacolare è non soltanto interclassista ma, soprattutto, la lingua degli affetti più profondi. Nell’immaginario collettivo un veneto o un bergamasco che si ostinano a comunicare in dialetto diventano invece gretti, antistorici o magari desolatamente comici. Il guaio è che soltanto i leghisti mostrano bullescamente un amore spassionato per il dialetto, che nel nord diventa lingua, al punto da volerlo inserire nei programmi scolastici o, peggio, pretendere che gli insegnanti del sud lo imparino per poter meglio interagire con gli alunni. Il risultato sono le pernacchie.

Nel chiasso leghista e autonomista, scompare la voce del poeta Andrea Zanzotto che sperimenta con il dialetto veneto, o comunque la voce di coloro che nel nord non voterebbero Lega nemmeno sotto minaccia ma che, nelle case o per le strade, conservano l’abitudine di comunicare in veneziano (o trevigiano, o bergamasco, o bresciano, o veronese etc.) al bar come a scuola, col medico o col moroso. E si sentono intrappolati in due rappresentazioni opposte eppure ambedue falsificate: da una parte lo smisurato orgoglio leghista che usa il dialetto persino nei documenti ufficiali come accade in alcuni Comuni lombardi; e dall’altra la ridicolizzazione della parlata nordica nei film e nelle fiction.