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Fu il ricatto inglese, nel 1940, a spingere l’Italia in guerra?

di Francesco Lamendola - 04/11/2010

Abbiamo già ripetutamente sostenuto che l’Italia, nella seconda guerra mondiale, era solo teoricamente libera di rimanere neutrale o no; ma, di fatto, era forzata a prendere una decisione, e tale decisione non poteva essere diversa da quella che prese Mussolini il 10 giugno (vedi, in particolare, l’articolo «Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla seconda guerra mondiale?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 12/03/2010).

Anche gli storici della Vulgata democratico-resistenziale hanno finito per ammetterlo, sia pure con ragionamenti ellittici e sommersi da una tale mole di considerazioni ideologiche, che il lettore è relativamente bravo se riesce a rendersene conto e a cogliere tutte le implicazioni che una simile ammissione comporta, sul piano storico generale e anche su quel piano ideologico in cui si vorrebbe dare per scontato che tutto quanto fecero Mussolini e il fascismo durante il Ventennio, ivi compresa la politica estera, fu sbagliato, velleitario, risibile, e che non poteva che terminare come è terminato, ossia con il collasso del regime e con la disfatta della nazione.

Uno di questi storici è Ernesto Ragionieri (1926-1975), fiorentino, studioso di formazione marxista e da sempre legato al Partito comunista italiano, docente di Storia del Risorgimento all’Università di Firenze e grande ammiratore di Palmiro Togliatti, del quale scrisse una biografia, per gli Editori Riuniti di Roma. Sua è, fra l’altro, gran parte della stesura del dodicesimo volume della «Storia d’Italia» pubblicata dalla Casa editrice Einaudi di Torino, che abbraccia il periodo dal 1922 al 1948, e recentemente (2005) ripubblicata da «Il Sole 24 ore» di Milano (e interamente suo è anche il volume precedente, ossia l’undicesimo).

A sua volta, il volume della «Storia d’Italia», edito nel 1976, rielabora i materiali di alcune precedenti monografie di Ragionieri, in particolare «Dall’età giolittiana al delitto Matteotti, 1901-1925» e «Dalla dittatura fascista alla liberazione, 1926-45», apparsi, insieme al saggio «Dall’unificazione alla crisi di fine secolo, 1861-1900», nell’opera - sempre pubblicata per la Einaudi, ma nel 1969 -,  dal titolo «Italia giudicata, 1861-1945, ovvero la storia degli Italiani scritta dagli altri»

La sua impostazione pesantemente ideologizzata, tipica della storiografia marxista “vecchia maniera”, traspare già dai titoli dei singoli capitoli.

Per esempio, in uno di essi si dà la classica (ma schematica e inaccettabile) definizione del fascismo come «regime reazionario di massa»; in un altro, si definisce quello fascista «un imperialismo debole ma pericoloso» (pericoloso per chi, rispetto a che cosa? oppure c’erano degli imperialismi non “pericolosi”, pur essendo più “forti”?); in un terzo, si pone l’esposizione del periodo 1943-45 sotto la dicitura «la Resistenza» e non già «la guerra civile», come sarebbe invece giusto e doveroso, perché storiograficamente molto più esatto ed oggettivo (prescindendo, cioè, da qualsiasi giudizio di valore).

Che uno storico del genere renda atto che la decisione di Mussolini di portare in guerra l’Italia, nel giugno del 1940, fosse strettamente legata ad una politica inglese che egli stesso definisce (gli sarà scivolato dalla penna?) di autentico «ricatto», è cosa particolarmente notevole e significativa; molto più che se una simile affermazione fosse venuta da uno storico revisionista o, peggio ancora, da uno storico di tendenza apertamente neofascista.

Un ricatto, dunque, di tipo economico e politico, quello di Churchill, massone fin dal 1901: che ricorda, in tutto e per tutto, compresa la somiglianza della situazione di partenza, quello perpetrato dal governo statunitense del “pacifico” Franklin Delano Roosevelt, massone del trentaduesimo grado, nei confronti del Giappone, l’anno dopo. Sia l’Italia che il Giappone, infatti, difettavano di materie prime e particolarmente di quelle necessarie a sostenere una guerra moderna.

Sia l’una che l’altro, dunque, si trovarono a dover fronteggiare l’aut-aut di una potenza imperiale, la Gran Bretagna nel primo caso, gli Stati Uniti d’America nel secondo; che significava, di fatto, se accolto, la rinuncia definitiva al ruolo di grande potenza e l’asservimento al capitale anglosassone e alla politica atlantica (per non parlare, nel caso dell’Italia, della inevitabile rappresaglia tedesca, una volta conclusa la campagna d’Occidente).

Scrive, dunque, Ragionieri nell’opera sopra citata (p. 2.286-87):

 

«La decisione dell’intervento a fianco della Germania maturò tra il febbraio e il marzo del 1940. In quel breve arco di tempo l’Italia fu oggetto di una triplice e concentrica pressione: di natura economica da parte dell’Inghilterra, di natura politica da parte degli Stati Uniti, di natura politico-economica da part della Germania; fu quest’ultima a prevalere  e ad orientare definitivamente la scelta di Mussolini.

Mentre volgeva al termine la guerra russo.-finlandese, l’Inghilterra accelerò la realizzazione di tutte le misure di blocco economico che, nel quadro della “drôle de guerre”, potevano costituire uno strumento di pressione decisivo,. Tra queste figurò anche l’embargo sulle navi che trasportavano il carbone dalla Germania all’Italia e che assicuravano i due terzi della fornitura tedesca. L’Inghilterra, dal canto suo, si dichiarava disposta a coprire gran parte del fabbisogno italiano di carbone, ma, poiché l’Italia difettava delle divise straniere occorrenti, esigeva in cambio materiale bellico  per un valore complessivo di 15 milioni di sterline. Il blocco inglese veniva dunque a porre l’Italia di fronte all’alternativa senza vie d’uscita in cui la politica condotta da Mussolini l’aveva guidata: accettare il RICATTO inglese [il maiuscolo è nostro, n. b.] avrebbe comportato una drastica riduzione del già precario potenziale bellico dell’Italia e avrebbe significato in pratica deporre ogni ambizione di politica di grande potenza, respingerlo voleva dire rinunziare anche a quel ristretto margine di manovra che la politica italiana si era ritagliato con la dichiarazione di non belligeranza. La limitata autonomia internazionale della classe dirigente italiana veniva alla luce ancora una volta, come alla vigilia dell’intervento nella prima guerra mondiale (e non è per una strana ironia della storia se l’Italia entrò nelle due guerre con lo stesso numero di mesi di ritardo): questa volta, però, con una libertà di scelta ancora minore in quanto il regime fascista basava una notevole parte della sua autorità sul “prestigio” della sua immagine esterna, e la mossa inglese veniva ad intaccare la mossa internazionale dell’Italia là dove più forti erano le sue ambizioni e oggettivamente più debole la sua realtà.»

 

In questo brano di prosa, la frase chiave è la seguente: «Il blocco inglese veniva quindi a porre l’Italia di fronte all’alternativa senza vie d’uscita in cui la politica condotta da Mussolini l’aveva guidata»: perché non si capisce, non solo concettualmente ma anche sintatticamente, se l’Italia sia stata posta in un vicolo cieco dal blocco inglese, come sembra evidente dalla prima parte, o dalla politica condotta da Mussolini (sempre lui!), come risulterebbe, invero a sorpresa, dall’ultima parte. Ambiguità che deriva appunto dal pregiudizio ideologico di Ragionieri, il quale (come fanno del resto anche gli storici inglesi, a cominciare dal tanto acclamato Denis Mack Smith) è costituzionalmente incapace di porsi in maniera obiettiva e spassionata di fronte alla materia studiata e deve per forza attribuire ogni colpa, ogni male, ogni errore, sempre e comunque, a Mussolini e al fascismo. Cioè, guarda caso, alla parte che  è uscita soccombente sia dalla seconda guerra mondiale, sia dalla guerra civile, mentre le forze democratiche all’interno e la Gran Bretagna all’esterno, sono risultate vincitrici.

Sarà forse per questo che tutto, secondo gli storici come Ragionieri, conferma la giustezza delle posizioni ideali degli antifascisti italiani e, sul piano internazionale, delle potenze alleate; mentre tutto, ma proprio tutto, sembra confermare la illogicità, la pochezza, la inadeguatezza delle posizioni e delle scelte di Mussolini e del fascismo (nonché, logico corollario, della Germania hitleriana)?

Questa, però, non è storia nel senso alto della parola; è pamphlet, libello, tesi ideologica; e, quel che è più sgradevole, è la conferma del vecchio adagio, ribadito purtroppo da innumerevoli esempi, che la storia viene scritta dai vincitori, i quali si attribuiscono, naturalmente, tutte le ragioni; mentre gli sconfitti devono assumersi tutte le responsabilità, comprese quelle che non hanno, e tutte le colpe, comprese quelle che non hanno commesso. Insomma, il monito «Vae victis!» degli antichi Romani è più attuale che mai, anche e soprattutto nei salotti buoni della cultura democratica: sia nella versione marxista (contraddizione in termini, ma per mezzo secolo nessuno pare essersene accorto), sia in quella liberale.

Tornando all’oggetto della nostra riflessione, bisogna – infatti - decidersi: o la Gran Bretagna fece all’Italia un vero e proprio ricatto economico, la cui accettazione avrebbe significato non solo, come dice Ragionieri, la rinuncia definitiva ad una politica di grande potenza (propria, giova ricordarlo, non solo del fascismo, ma di tutta la classe politica liberale, dall’Unità all’avvento del fascismo), ma anche, in pratica, ad ogni margine di autonomia internazionale, sia economica che politica, riducendo l’Italia al ruolo di pedina mediterranea della Gran Bretagna.

Al che, l’unica domanda storiograficamente onesta non può essere che questa: non solo Mussolini, ma qualunque politico liberale si fosse trovato allora alla guida dell’Italia, avrebbe potuto, anche volendo, agire diversamente da come agì Mussolini? E qui il pensiero corre inevitabilmente al pur scialbo Salandra che, nella primavera del 1915, trascinò nondimeno l’Italia nella perigliosa avventura della prima guerra mondiale, all’insaputa del Parlamento (col Patto di Londra) e contro i sentimenti della maggioranza della classe politica e del Paese intero.

Se gli storici della Vulgata democratico-resistenziale avessero un minimo di buona fede, dovrebbero porre una tale analogia e provare a rispondere sinceramente a quella domanda; tutto il resto è ideologia, nel senso peggiore della parola: ossia pregiudizio politico nei confronti dei fatti che pure si vorrebbe comprendere per ciò che furono, e non per ciò che avrebbero potuto essere o che avrebbero dovuto essere.

Ragionieri, invero, sfiora il problema, allorché parla della «limitata autonomia internazionale della classe dirigente italiana»; ma poi non ha il coraggio, o piuttosto l’onestà intellettuale, di trarne le debite conclusioni e si rifugia nel luogo comune che la decisione di Mussolini di entrare in guerra fu irresponsabile, eccetera.

Proviamo dunque a domandarci che cosa sarebbe accaduto se la prima guerra mondiale fosse stata vinta dagli Imperi Centrali; o se, più semplicemente, l’Italia non fosse riuscita a riprendersi dalla disfatta di Caporetto e fosse stata invasa dai Tedeschi non solo fino al Grappa e al Piave, ma fino al Mezzogiorno, come accadrà nel 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Ebbene, quale giudizio avrebbe dato la nostra storiografia, democratica e progressista, della decisione presa da Salandra nella primavera del 1915; e, con lui, non solo dal re Vittorio Emanuele III, ma da una buona parte della classe dirigente liberale, con l’appendice degli interventisti democratici e di sinistra?

Del pari, potrebbe sembrare un esercizio di pura letteratura, e nondimeno sarebbe alquanto istruttivo, domandarsi come racconterebbero gli eventi della seconda guerra mondiale gli storici inglesi odierni, se diverso ne fosse stato l’esito finale; se, per esempio, l’operazione «Leone Marino» avesse avuto luogo, la Gran Bretagna fosse stata invasa e avesse perduto il suo impero - a cominciare dall’India - non al termine di una guerra vittoriosa, ma per effetto di una umiliante sconfitta.

La vittoria ha sempre molti padri, mentre la sconfitta è figlia di nessuno.

Ecco allora che si torna sempre al punto di partenza, ossia a Machiavelli - e, con lui, a Hegel, a Marx, a Lenin e a Gramsci -: è il successo a decidere la “giustezza” di una certa decisione politica; l’unica cosa che gli storici non perdonano mai ad un governo è la sconfitta, simili in questo agli umori del popolino ignorante e viscerale, sempre pronto a seguire la bandiera del vincitore di turno (cfr. Il nostro recente articolo: «Riflessioni su un pensiero di Nietzsche a proposito delle guerre perdute», sul sito di Arianna in data 02/11/2010). Mentre l’unica cosa che apprezzano, con servilismo forse inconsapevole, ma non per questo meno riprovevole, è la vittoria: della quale, chissà perché, si sentono tutti legittimi eredi, come se anch’essi, confermandone «a posteriori» l’inevitabilità e la giustezza etica, avessero contribuito a conquistarla.

Il fatto che l’hegelismo (Croce) e il marxismo (Gramsci, Asor Rosa, Ragionieri e cento altri) abbiano dominato così a lungo la cultura italiana, può avere qualcosa a che fare con il “progressista”, ma assai sospetto, senno del poi dei nostri storici, riguardo agli eventi del fascismo e della seconda guerra mondiale?