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L'Europa e il gas

di Gianni Petrosillo - 10/11/2010


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Abbiamo spesso osservato che in questa fase storica il settore energetico rappresenta un viatico decisivo per la proiezione della potenza degli Stati sullo scacchiere internazionale. Sulle rotte delle pipelines viaggia, insomma, una fetta importante della politica estera dei governi i quali mirano a ricollocarsi sullo scenario planetario sfruttando le opportunità offerte dai grandi cambianti geopolitici in atto. Ma l’UE non la pensa allo stesso modo ed ha deciso di mettere i bastoni fra le ruote a quelle amministrazioni nazionali che utilizzano tale strumento per articolare con più profitto i loro rapporti con i partner esteri, in particolare con quelli che, a loro volta, hanno scommesso sulle  risorse naturali per uscire dalla condizione di assoluta subalternità nella quale l’hyperpuissance americana li ha relegati dalla dissoluzione dell’URSS in poi. Come riportato da Céline Bayou, sul sito Regard sur l’est, l’applicazione della direttiva comunitaria 2009/73/Ce che gli Stati membri dovranno recepire entro il 3 marzo 2011, determinerà la definitiva dissociazione patrimoniale (ownership unbundling) tra gestione, proprietà e trasporto nel settore dell’oro blu. Questa direttiva indebolirà i rapporti bilaterali tra i principali attori europei (Francia, Germania e Italia in testa) e la Russia. In sostanza, la norma impone ai membri dell’Ue la liberalizzazione del mercato energetico attraverso una diversa regolamentazione delle modalità di organizzazione e funzionamento delle reti, al fine di consentire alla concorrenza di agire sui prezzi per ottenere più cospicui ribassi. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di portare maggiori vantaggi ai consumatori accrescendo, al contempo, sicurezza degli approvvigionamenti e migliore performatività degli investimenti. Ma questa motivazione non convince affatto, laddove sono stati proprio alcuni gruppi dirigenti dell’est, recentemente entrati a far parte dell'Europark (come quelli lettone, polacco e lituano), a chiedere un’accelerazione delle tappe dalla normativa in questione per allentare la morsa di Putin e soci sulla loro sovranità. Quindi il mercato costituisce esclusivamente il pretesto ideologico più presentabile per accontentare questi governi che spalleggiati da Washington non vedono, et pour cause, di buon occhio l’allargamento del business russo in Europa e la crescente dipendenza continentale dalle forniture energetiche di Mosca. A questo scopo, le citate ex colonie sovietiche  chiedono di avanzare più coerentemente nell’applicazione della legge che dispone la scorporazione delle attività di produzione, distribuzione e trasporto. Ma paradossalmente, ed i russi hanno più volte ribadito questo concetto – ricordiamo, al proposito, anche una lettera di qualche anno fa del vice-presidente di Gazprom all'Italia nella quale il manager di questa impresa si mostrava preoccupato delle manovre sull’ENI  che destabilizzavano la partnership tra i due colossi - la presente iniziativa rischia di rompere quell’integrazione verticale dell’industria gasifera che favorisce la tempestività delle decisioni in un settore strategico dove ballano investimenti ingentissimi e servono preventive alleanze tra gestori politici per raggiungere risultati adeguati. Se la destrutturazione dovesse effettivamente avere luogo i governi europei avrebbero più difficoltà a far coincidere esigenze politiche ed opzioni commerciali, essendo costretti a mediare, di lì in avanti, con più soggetti operanti nel comparto, mentre la controparte resterebbe monolitica (è il caso di Gazprom) ed in grado di fissare rapidamente il da farsi. Si capisce perché Francia e Germania si dimostrino reticenti a cedere su questo punto alla burocrazia comunitaria, la quale, evidentemente, si sente più in sintonia con i nuovi entrati nel club che non con i suoi storici fondatori. Come riporta Celine Bayou, si tratterebbe di un duro colpo per quegli stati membri che non essendo produttori di gas perderebbero pure la diretta responsabilità della gestione delle reti che ora possono utilizzare come arma per incrementare la loro forza contrattuale. E ciò soprattutto in quanto si tratta di negoziare con imprese estere in odor di apparato pubblico che non hanno bisogno di ricorrerere a troppi passaggi concertativi. Ma c’è anche un altro problema che allerta la Russia. La decisione dell’UE rimetterà in discussione gli investimenti che Gazprom ha già fatto nel continente: “Diverse sono le vie per procedere alla separazione dei rami commerciali e di trasporto di queste imprese, si va dalla divisione forzata della proprietà alla creazione di un operatore indipendente incaricato di gestire i gasdotti pur mantenendo le partecipazioni diversi proprietari. Ora, Gazprom detiene delle partecipazioni importanti negli operatori del gas degli Stati baltici e della Polonia: il 37% in Eesti Gaas… il 34% in Latvijas Gaze; il 37,1% da Lietuvos Dujos …infine, il 48% in Europolgaz” (Russie: L’Union européenne porte un coup à Gazprom di Céline BAYOU). Guarda caso i governi che stanno seguendo con più oltranzismo la via della separazione netta tra attività di produzione di distribuzione sono proprio quelli dell’Est che vogliono sottrarsi al peso di Mosca ed aprire la rete ad altri soggetti . La Germania (che come Gazprom ha comprato pacchetti azionari di quelle imprese) sembra pensarla diversamente, tanto da aver autorizzato il gigante energetico russo a mantenere il monopolio sul gasdotto Opal per 32 anni, impegnandosi anche a non rivolgersi ad altri fornitori per tutto questo periodo. Ciò è quanto chiede il presidente Zubkov ai suoi colleghi occidentali anche perché se la Gazprom dovesse essere estromessa dai tronconi europei di dette infrastrutture non avrebbe quei ritorni economici appetibili che la spingono a fare affari con noi. Da quel momento in poi si vedrebbe forzata ad orientarsi sui più redditizi mercati dell’Asia. Chissà se a Bruxelles o a Strasburgo si rendono conto di quale danno economico e politico stanno per provocare ai cittadini europei, in nome del mercato ma per conto degli Usa.