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La commercializzazione del corpo bambino iniziò con quel roseo sederino sulla spiaggia

di Francesco Lamendola - 11/11/2010


Tutto è cominciato in un bel giorno d’estate, sulla spiaggia, mentre le mamme cospargevano di olio solare il corpo dei figlioletti, per proteggerlo dalle scottature: erano gli anni Cinquanta e si voleva dimenticare la guerra, la miseria; si voleva vivere la vita con più gusto.

L’azienda Coppertone era stata fondata nel 1944, quando il farmacista B. Green aveva messo a punto una nuova lozione capace di aumentare l’effetto dell’abbronzatura. La versione pubblicitaria originale si serviva di un Indiano; poi qualcuno pensò che fosse più astuto servirsi di una bella bambina bionda con le treccine ed i fiocchetti e la futura attrice Jodie Foster, che all’epoca aveva tre anni, posò per una fortunata serie di spot televisivi.

Eh, queste mamme che vogliono sfruttare il corpo delle proprie bimbe per far soldi o per proiettare sull’implicito erotismo delle pargolette i loro sogni frustrati di successo e seduzione: storie di ieri, storie di oggi.

Correva l’anno 1953 e milioni e milioni di persone in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, poterono deliziare lo sguardo con una immagine che univa il tenero al lezioso e pure un certo grado di sottile sensualità: quella di un cagnolino che, sulla spiaggia, afferra il bordo dello slip di una bambina e lo tira in basso, scoprendone il sederino roseo, in contrasto con l’intensa abbronzatura del resto del suo corpo; e ciò mentre la piccola diva involontaria si gira perplessa e imbarazzata, con una manina sulla guancia e gli occhioni spalancati, ma si guarda bene dal fare l’unica cosa che chiunque farebbe istintivamente, in una situazione reale: affrettarsi a tirar su le mutandine, per rimediare a quello spogliarello indesiderato.

Negli anni successivi la campagna pubblicitaria è stata ripresa in svariate versioni e, recentemente, alla luce del dibattito “politicamente corretto” sulla pedofilia e gli abusi sui minori, si è provveduto a metterne in circolazione alcune particolarmente castigate, dove non appare scoperto quasi tutto il sederino della bimba, ma solo un tratto di pochissimi centimetri di pelle; oppure dove a venire sollevato è il bordo della maglietta: omaggio doveroso all’ipocrisia culturale che ama scherzare con il fuoco, ma poi si affretta a nascondere la mano con il fiammifero, per non dover rendere conto delle eventuali conseguenze.

Sottile invito alla pedofilia, e sia pure - figuriamoci - del tutto imprevisto e non cercato?

Ma il punto non è certo questo. Infatti, chi non sa che una cosa, una situazione, indipendentemente dall’effetto emotivo, o anche sessuale, che possono provocare negli altri, diventano automaticamente accettabili e accettate, qualora vengano confezionate nella rassicurante cornice di una pubblicità per famiglie, all’ombra pigra degli ombrelloni, sotto lo sguardo indulgente e un poco divertito di mamma e papà?

Potenza dell’immagine pubblicitaria: l’oggetto rappresentato perde la sua valenza immediata, concreta, per venire proiettato in uno spazio magico, in un luogo metafisico, ove si transustanzia in una icona sacra, di quel particolare genere di sacralità che afferisce alla categoria del moderno: la stessa, ad esempio, che rende socialmente accettabile, e perfino apprezzabile, la tranquilla esposizione di un calendario sexy, non solo nell’abitacolo di un camionista o nell’officina di un meccanico, ma anche nel serio ufficio di un manager rampante.

Non è più lecito ciò che non trasgredisce la legge morale, ma diviene lecito ciò che la pubblicità riesce a far entrare nell’immaginario collettivo, di solito in una veste rassicurante, per quanto torbidi possano essere gli impulsi che vengono così solleticati.

Dicevamo che non si dovrebbe scherzare col fuoco; e ciò è tanto più vero in una società dell’immagine, quale la nostra: dove appunto l’immagine, cioè l’apparire, è tutto, mentre il contenuto, cioè l’essere, è ridotto a niente.

Ed è una regola che vale in tutti i campi, ovviamente: non importa se l’ultimo modello di automobile ha una durata di vita media di pochi anni; quel che conta è come appare: potente, impeccabile, ammirevole: vero sostituito della virilità maschile in declino (le due cose sono inversamente proporzionali).

Valga per tutti l’ultimo spot televisivo di una nota industria automobilistica. Al termine di una festa, lui si offre di riaccompagnare a casa lei, con la propria automobile; lei accetta e, giunti a destinazione, già scesa dal veicolo, si affaccia al finestrino (evidentemente lui non ha avuto nemmeno la cavalleria di scendere ad aprirle la portiera o di salutarla fuori dalla vettura) e gli pone la domanda canonica se desidera salire: cioè, tradotto in parole semplici, se vuol far l’amore con lei. Al che lui risponde, tra sbadato e frettoloso: «Ah [quello?], no, grazie… Volevo solo guidare»; e riparte, felice di poter stare un altro po’ al volante della sua magnifica auto. Una pubblicità non solo cafona, ma anche larvatamente omosessuale: quale uomo normale preferirebbe masturbarsi mentalmente con un rombante gingillo tecnologico, piuttosto che accettare un invito sessuale da una ragazza carina e disponibile?

Ma torniamo al discorso del copro bambino.

Allo sfruttamento di quest’ultimo in chiave pubblicitaria, con implicazioni e risvolti di natura chiaramente erotica, hanno contribuito enormemente tre fattori.

Primo, la crescente erotizzazione della società e della cultura, che ha spostato sempre più verso il basso l’età “canonica” per divenire oggetto, sia volontario che involontario, di desiderio sessuale (cfr. il nostro precedente articolo «Le tredicenni o il fascino proibito dell’ultima frontiera», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 22/05/2008).

Secondo, la diffusione di una nuova idea della maternità, vista come il modo per realizzare un vero e proprio transfert sessuale, nonché una rivincita esistenziale: sicché legioni di casalinghe, più o meno giovani, si affrettano a spingere avanti, nelle sale di provino dei vari concorsi di bellezza o dei programmi della TV spazzatura, le loro procaci pargolette: fenomeno già magistralmente intuito da Visconti e da lui descritto nel memorabile film «Bellissima», del 1951 (gira e rigira, gli anni di questa “rivoluzione” del costume sono sempre gli stessi: quelli, per intenderci, di Rita Hayworth, la “bomba atomica” del sesso, rivelatasi con «Gilda», del 1946).

Invero, c’è una malizia più sottile e molto più insidiosa nel sederino scoperto di Jodie Foster a tre anni (non nudo, si badi, cioè naturalmente nudo: ma scoperto, cioè colto nell’atto di venire spogliato), che negli sguardi assassini e nelle pose provocanti di Sue Lyon, la protagonista del memorabile «Lolita» di Stanley Kubrick (tratto dal romanzo di Vladimir Nabokov), la quale, all’epoca del film - il 1962 - di anni ne aveva “ben” sedici.

L’immaginazione, si sa, galoppa veloce, una volta che le siano state abbandonate le briglie sul collo. La finta innocenza della bimbetta della Coppertone può aver fatto più stragi della ostentata, ma artificiale, sessualità di Lolita. E, del resto, il passo è davvero breve: basta immaginare che a tirar giù quella mutandina non sia un cagnolino vezzoso, versione moderna e più simpatica della pariniana “Vergine cuccia”, ma una mano lasciva e impudica: ed ecco che tutta la scena, in apparenza così familiare e briosamente scanzonata, si connota come vera e propria istigazione all’abuso sui minori…

Il terzo fattore che entra in gioco è il furto dell’infanzia, che la cultura e la società contemporanea stanno scientemente portando avanti, sostenute da uno stuolo di sedicenti esperti di psicologia, di sociologia e perfino di pedagogia. Non solo si abbassa sempre più l’età scolare, ma si deprivano i bambini del gioco naturale e li si avvia precocemente, in ogni modo, cominciando dall’abbigliamento, ad agire, pensare, sentire, come dei piccoli adulti.

Infine, che cos’è questa vuota retorica sull’età infantile e sulla sua innocenza, dicono tuttologi e opinionisti a un tanto il chilo, che ci catechizzano quotidianamente dalla televisione (ancora lei!) e dalle pagine delle riviste illustrate (ancora loro!) sulla opportunità, anzi sulla improrogabile necessità, di non trattare più i nostri bambini “da bambini”, ma di vestirli da adulti, di far vedere loro film da adulti, di farli studiare da adulti, a cominciare dall’uso del computer; e, se proprio è necessario lasciarli anche un po’ giocare, di farli giocare come degli adulti, con giochi da adulti e con regole da adulti.

Naturalmente, il fatto che quei programmi televisivi e quelle riviste illustrate siano finanziati e quindi orientati, direttamente o indirettamente, proprio dalla pubblicità: da quella stessa pubblicità che ha tutto l’interesse a sfruttare sino in fondo la miniera d’oro del corpo bambino, non già nonostante, ma precisamente a causa delle implicazioni morbose che ne scaturiscono; ebbene, tutto ciò lo si deve considerare puramente causale o, al massimo, incidentale…

Scrivevano, nell’ormai lontano e non troppo sospetto 1985, Fruttero e Lucentini, nella loro esilarante e, ahimè, profetica raccolta di saggi «La prevalenza del cretino», parlando del “fenomeno” Shirley Temple; ma il discorso si può estendere al tema che stiamo trattando (Milano, Mondadori, pp. 100-102):

 

«Adesso che tutti sono diventati amici dell’effimero,. Fidanzati del frivolo, sposi del fatuo e del superfluo, ci sentiremo dire che Shirley Temple fu più importante di Virginia Woolf. Non si può star tranquilli un minuto, la pistola è sepre puntata minacciosamente alla nostra tempia. […]

Shirley Temple? Ebbene sì, fu più importate di Virginia Woolf. Quante lezioni, quanti messaggi nei suoi film. Per esempio, il “Product manager” avrà tutto da imparare da questo sfruttamento perfetto, magistrale, di una merce che “incontra”. Così si spolpa fino all’osso, al midollo, la bambina-oggetto. non un sorriso, un saltello, una corsetta, un lacrimone che non sia immediatamente misurabile in dollari. Un lavoro da supremi professionisti.

E per esempio lo storico, il filosofo, osserveranno che la categoria del carino, del lezioso, del melenso, era ignota presso gli antichi. Aristotele non la contempla, e ne tacciono Omero, gli scrittori biblici, i tragici greci, Tucidide, Tacito I loro libri non mancano di bambini anche commoventissimi, anche nefandissimi, nessuno ei quali risulta però colpevole di suscitare abnormi, gratuiti sdilinquimenti collettivi. […]

Non c’è un rapporto diretto e dimostrabile tra Shirley Temple e Adolf Hitler, tra i riccioli d’oro e le camere a gas. Ma gli anni sono pur quelli e l’occhio del postero distingue ormai senza sforzo dietro il mostruoso dittatore urlante la mostruosa frugoletta che canta le sue canzoncine [o che esibisce, aggiungiamo noi se ci è consentito, il suo delizioso sederino.] Piacevano, piacevano entrambi, piacevano irrazionalmente, cultisticamente, totalmente. Entrambi pescavano in quella cupa palude dove la massima sdolcinatezza confina con la massima ferocia, e forse la provoca. […]

Ciò che l’utilissimo, benemerito ciclo su Shirley Temple ci suggerisce è di non farci illusioni a questo riguardo: nulla è cambiato in questi anni, il vischioso acquitrino della emotività collettiva si è ancora esteso, melensaggine e carineria hanno guadagnato terreno, la voce della civiltà è ormai tutta un birignao infantiloide, le moltitudini sono pronte per nuove immani mazzate,. Perciò non mandare a chiedere per chi balla il tip tap Shirley Temple, lo balla per te.»

L’unico appunto che ci sentiamo di muovere a questa acuta lettura è, oltre ad avere bensì intravisto, ma poi sottovalutato, la valenza sessuale di quelle moine infantili, quello di una eccessiva ideologizzazione del fenomeno in chiave politicamente corretta e debitamente “progressista”.

Forse, i riccioli biondi di Shirley Temple, così come il sederino roseo di Jodie Foster, non nascondono solo l’ideologia sinistra di certi totalitarismi, ma proprio l’apparentemente paciosa banalità di certe democrazie, a cominciare dalla nostra.

Forse, quei riccioli e quei sederini sono più strettamente imparentati con la secolarizzazione dell’Occidente contemporaneo, che con il (tragico e perverso) tentativo di ri-sacralizzazione del sangue (nordico) e del suolo operato dal nazismo.

Vale anche in questo caso la massima che il nemico più insidioso è, per definizione, quello che avanza in punta di piedi e non si lascia riconoscere come tale, di primo acchito.

Forse la pubblicità sta dirigendo le nostre vite in maniera molto più invasivo e molto più perverso di quanto non riuscirebbe a fare qualunque totalitarismo.

Del resto, diceva McLuhan, il medium è il messaggio: cioè, tradotto in parole povere, il contenitore influenza profondamente il contenuto, che ci piaccia o no.

E la nostra società, grazie all’impero mediatico che orienta il nostro immaginario e, attraverso di esso, le nostre scelte di vita, somiglia sempre più a un immenso televisore globale, nel quale noi recitiamo non solo la parte degli spettatori, ma anche degli attori inconsapevoli: vale a dire, dei perfetti burattini.