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L’enigma Morandi

di Marco Iacona - 14/11/2010

 

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«Non vi è nulla di più astratto del reale». Così parlò Giorgio Morandi, pittore e incisore fra i più celebrati del Novecento. Noto per le nature morte composte da bottiglie e oggetti di uso quotidiano, come le caffettiere. “L’enigma Morandi”, si potrebbe perfino rinominarla così la mostra allestita nell’elegante Fondazione Ferrero di Alba e curata da Maria Cristina Bandera. Una mostra dedicata al Morandi paesaggista (il titolo: “Morandi l’essenza del paesaggio” e dal 16 ottobre al 16 gennaio 2011), il secondo importante aspetto, possiamo dire così, dell’arte del pittore bolognese.

 

Una breve citazione posta all’inizio del percorso – percorso diviso in più sale e concluso da un breve video con testimonianze di Roberto Longhi e Riccardo Bacchelli – brucia le polveri del mistero della personalità di Morandi. «È vero, ho fatto più nature morte che paesaggi e dire che i paesaggi li amavo di più». Una frase capace di dirci ancora “di più”, fino al punto di ricondurre a una duplicità di forma e sostanza le componenti materiali o immateriali della pittura di Morandi. Dai paesaggi alle nature morte che col passare del tempo diverranno incredibilmente simili; dall’ispirazione antica (Piero Della Francesca, Paolo Uccello, Masaccio e Giotto) a quella moderna (soprattutto Cézanne e Picasso, Derain, Rousseau e Braque); fino appunto all’“equazione” realtà uguale astrazione (all’interno della quale è il reale a essere astratto): un’uscita da quasi-filosofo o da artista che ha accelerato la crisi delle forme e della pittura figurativa a vantaggio di un’arte “spiritualmente” astratta.

 

Il percorso di Morandi è stato ricco (dati gli esiti di sintesi estrema delle sue sperimentazioni, non si faccia l’errore di considerarlo una specie di nobilissimo naif!), e ha toccato molte delle tappe raggiunte dall’arte novecentesca, arricchendosi delle conoscenze e delle esperienze concesse a un uomo nato nel 1890. Nei primi dipinti degli anni Dieci è ben visibile la lezione dei maestri impressionisti. A metà del decennio Morandi verrà catturato dalle seduzioni del futurismo, infine sarà la volta della parentesi “metafisica” con Carrà e De Chirico. La maturità morandiana, nel senso della ricerca di una via personale, comincia già negli anni Venti e i Trenta sono gli anni di un’affermazione che andrà ben oltre l’anno della morte. Prima la cattedra di “tecnica dell’incisione” ottenuta all’Accademia di Bologna per “chiara fama”, e subito dopo l’“etichetta” (attaccatagli da Longhi) di “uno dei migliori pittori viventi d’Italia”. Negli anni Quaranta Morandi esporrà alla Biennale di Venezia con Carrà e De Chirico e otterrà il premio per la pittura dal comune di Venezia, alla fine dei Cinquanta la Biennale di San Paolo del Brasile gli conferirà il Gran premio per la pittura davanti a Marc Chagall. Nel 1992, infine, a Bologna, sorgerà  il Museo “Morandi”. Oggi, dopo l’esposizione di due anni fa al Metropolitan Museum di New York, il bolognese viene considerato uno dei più grandi artisti del Novecento insieme a nomi da leggenda come Picasso. Mica male!

 

Settantadue le opere in mostra ad Alba. Tele più sei acquarelli su carta (1940-1950). Mezzo secolo di arte morandiana. Si comincia con i primi anni Dieci col primo dipinto datato, una nevicata del 1910. I quadri esposti si arricchiscono di singolarità morandiane già negli anni Trenta (splendido il “Paesaggio” del 1932, viva espressione di  un sentimento che – come diceva lo stesso artista – amava concentrarsi su una gamma ristretta di soggetti, ma con un tempo assai più lungo del consueto). Altra “svolta” negli anni della Seconda guerra mondiale, periodo nel quale Morandi va a vivere a Grizzana. Nel verde dell’Appennino bolognese, l’ormai cinquantenne artista raggiunge il massimo della capacità espressiva, dipingendo una serie di paesaggi nei luoghi che lui stesso considera i più belli al mondo. Sono anni nei quali attraverso l’utilizzo minimo del colore, con un velo di “poesia” e tratti semplici fino a giungere a risultanze sintetiche, il paesaggio morandiano trasmette sentimenti, paure e angosce del peggior periodo del conflitto mondiale. È questo il momento più significativo per l’artista, un “riassunto” della capacità di dialogo (di “domanda” e “risposta”) con l’amata campagna bolognese.

 

La guerra finisce ma Morandi non sembra aver bruciato alcuna esperienza. Anzi, ha sommato i mesi trascorsi gli uni agli altri. Il risultato è ancora poesia mescolata a mistero. I Cinquanta tornano a essere gli anni dei cortili di via Fondazza nr. 36 (luogo di Bologna nel quale Morandi abitò), alternati ai paesaggi di Grizzana; anni nei quali i soggetti sono ridotti al minimo (tutta la pittura sembra convergere su una singola enigmatica idea); i Sessanta, infine, gli anni nei quali nella pittura del bolognese la composizione-apparizione di forme geometriche si fa del tutto essenziale, come nella consapevolezza di un traguardo (chissà) quasi raggiunto. Poi, la morte.

 

Anni Trenta? Quaranta? Cinquanta? Poco importa. I paesaggi morandiani contagiano un’idea unica (a tratti inquietante): verde, case e campi immersi negli Appennini sono “realtà” di secondo grado, raccolte o codificate dall’occhio di un’artista pronto ad afferrarle nella loro “reale astrazione” («tutto è astratto anche quello che vediamo», diceva Morandi). Poi? Poi, vengono riportate su tela, in compagnia degli stati d’animo di chi ha la capacità di comporle (anzi le une e gli altri sono del tutto indistinguibili). È un messaggio tipicamente novecentesco quello di Giorgio Morandi: la prevalenza del soggetto sulla realtà. Nulla riesce a “esistere” al di là di chi osserva, con gli occhi, il cervello e naturalmente anche col cuore.

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