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Burmese days ovvero : la libertà di espressione vale solo a casa degli altri

di Lorenzo Borrè - 15/11/2010

 

 

Nel secolo scorso Achille Campanile annotava che l'inglese e l'americano sono due

lingue solo apparentemente simili: in realtà il significato di una frase pronunciata

da un londinese è diverso da quello di una frase identica detta da un abitante di

New York; “I live here”, detto da uno che vive nella capitale britannica significa

io vivo a Londra”, detto da un abitante della Grande Mela significa invece “io

vivo a New York”....

La battuta non è delle più brillanti, ma serve a far riflettere sulla differente

estensione e sul diverso significato che -ai giorni nostri- una locuzione può

assumere a seconda del contesto geopolitico in cui essa viene pronunciata.

Aung San Suu Kyi, leader del dissenso birmano, nel suo primo intervento pubblico

dopo sette anni di detenzione domiciliare, ha affermato che “la base della libertà

democratica è la libertà di parola”: la libertà di espressione in effetti è il

fondamento di tutti i diritti politici e civili, senza di essa le altre libertà, quella di

associazione, di voto, di insegnamento e apprendimento rimangono libertà vuote,

in quanto se non si è liberi di esprimere le proprie idee si è menomati della

possibilità di fare proselitismo, di modificare o comunque di incidere sulla

coscienza popolare e sullo status quo.

Ed ecco l'effetto paradosso: queste parole, pronunciate a migliaia di chilometri di

distanza, in un Paese con lingua, cultura, tradizioni e sistema politico diversi dal

nostro, appaiono come la declamazione di principi inconfutabili, una scintilla

illuminista che rischiara le menti.

Le stesse parole dette in Italia, o in molti paesi europei, fanno invece additare come

“persona sospetta”, come probabile nemico dell'ordine costituito, chi le pronuncia.

La libertà di parola va dunque affermata e protetta se è conculcata o punita da

ordinamenti estranei al nostro universo culturale, ma può (e secondo alcuni: deve)

invece essere sanzionata e ristretta se mette a rischio convinzioni, valori e

sicurezze su cui si fondano gli Stati democratici (democratici per autodefinizione).

Così recita infatti l'art. 10, 2° comma, della Convenzione Europea dei Diritti

Umani: “L'esercizio di queste libertà [libertà di opinione, di espressione, di

ricevere o comunicare informazioni], comportando doveri e responsabilità, può

essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni

previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per

la sicurezza nazionale, l'integrità territoriale o l'ordine pubblico, [...] o per

garantire l'autorità [..] del potere giudiziario”.

La libertà di espressione, spogliata della sua pienezza di diritto, si riduce al rango

di petizione programmatica: lungi dall'accogliere, integrarsi o confrontarsi con il

pensiero eterodosso, il Leviatano occidentale ricaccia nella palude dell'irricevibile

-di cui per di più esso stesso ha stabilito i confini- tutto ciò che non è conforme alla

sua misura, ai suoi standard.

Cinquantacinque anni fa ne La questione dell'essere Heidegger rilevava che “la

ragione e il suo rappresentare sono solo un modo di pensare, che non è affatto

determinato da se stesso, bensì da ciò che ha chiamato il pensiero a pensare nella

modalità della ratio”.

Lo stesso discorso vale per il sistema che permea gli ordinamenti nazionali (o

sovranazionali) occidentali, laddove un ordine di valori, dato come presupposto e

sovraordinato, sviluppa una funzione egemonica che livella o esclude qualsiasi

possibilità di pensare oltre il già pensato o di discostarsene, per poi sfociare nella

nella stessa prassi degli Stati antidemocratici, ove si arresta e si sanziona, in nome

del Bene Pubblico (che però ha portata e significato diversissimi, se non opposti, a

seconda dell'Ordinamento che afferma di impersonarlo), chiunque esprima un

pensiero deviante.

In Occidente come nel vicino, nel medio e nell'estremo Oriente, imprigionare un

uomo non può significare difendere una dottrina: è imprigionare un uomo.

La lezione che ci insegna San Suu Kyi è semplice: non si dimostra la propria fede

imprigionando un uomo, ma accettando di farsi imprigionare per essa.

E' una lezione che molti europei, privati della piena possibilità di pensare, hanno

dimenticato per abbracciare scepsi e nichilismo.

Ed è per questo che il Leviatano sembra oggi invincibile.