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Nello spazio di una sola generazione i nostri boschi sono diventati vuoti e silenziosi

di Francesco Lamendola - 17/11/2010


«Guglielmo era stanco e  sedette fuori del capanno. La pendice di fronte era interamente in ombra.  Il taglio aveva la forma di un triangolo isoscele: il torrente ne costituiva la base e i tre alberi isolati il vertice. Ora l’abbracciava con uno sguardo d’insieme, ora aveva l’occhio ai confini: risaliva il sentiero, correggendone  mentalmente le rientranze; scendeva lungo la tagliata e di là saltava alla scanalatura, percorrendola con lo sguardo fino al punto in cui strapiombava sul torrente. La macchia cupa dei lecci lo rallegrava quanto il bianco filiforme dei carpini e dei frassini e il verde chiaro dei pini; la traccia rossastra del sentiero come la striscia livida della scanalatura.

Poi tutti indistintamente i colori incupirono e si fusero insieme. […]

Appena si fu affacciato alla conca del Sellate, udì risuonare i colpi delle accette. Il sole pallido illuminava di sbieco le pendici boscose. Una leggera brezza, levatasi anch’essa da poco,  faceva stormire appena le fronde.  Guglielmo aspirò a lungo l’aria fresca, odorosa: un senso di benessere fisico  e morale lo pervase tutto e, scendendo per il viottolo, si fermò ancora ad ascoltare i colpi delle accette.  Risuonavano cuoi in basso, rispondevano altri colpi, più in alto e a destra, nitidi e chiari. TUC, TUC; TAC, TAC: i colpi si susseguivano, ma  non poté scorgere i tagliatori se non quando fu a pochi passi da loro. […]

Il capanno era stato costruito al limite tra la pineta  e la macchia. Da lì andarono risalendo  la pendice. Germano e Francesco  lavoravano sulla sinistra, Fiore e Amedeo lungo il sentiero. Guglielmo tagliava qua e là, secondo quel che riteneva opportuno.

Ogni dieci opini ne risparmiavano uno. Vanno infatti lasciate un centinaio di piante per ettaro, che costituiscono il matricinato o, come dicono anche con poetica espressione, il corredo del bosco.

Molto spesso la giornata trascorreva senza che comparisse anima viva. Altre volte i loro contatti col resto del mondo si limitavano ala vista di un mulattiere. L’uomo procedeva lungo la carrareccia che costeggia il torrente, tirandosi dietro due o tre muli carichi di fascine, e non si accorgeva nemmeno della presenza dei boscaioli. Solo alzava il capo, quando i colpi delle accette ricominciavano; ma, ingannato dall’eco, guardava verso la pendice opposta.»

 

Sono alcuni brani del romanzo breve di Carlo Cassola «Il taglio del bosco», da molti giudicato il suo capolavoro.

Il libro è del 1959 e, al di là della maestria con cui è stato scritto, esso offre una perfetta descrizione di quanto i nostri boschi fossero vivi fino a due generazioni or sono, mentre oggi si stanno rapidamente rinselvatichendo - almeno quelli che restano e che non sono stati ancora distrutti dalle seghe elettriche o dagli incendi.

Benché ambientata in Toscana, la vicenda del vedovo Guglielmo potrebbe svolgersi in una qualsiasi regione italiana, specialmente del centro-Nord; ad esempio nella Foresta del Cansiglio, tra Veneto e Friuli, abitata da una antica popolazione di taglialegna di origine tedesca, i Cimbri, e sfruttata metodicamente sin dai tempi della Serenissima per le esigenze della flotta.

Quel che appare evidente è che il bosco, a differenza di quanto gli abitanti delle città sarebbero portati a credere, era sì un luogo relativamente poco frequentato, e tuttavia percorso da una fitta rete di presenze, sia umane che animali, le quali avevano trovato un “modus vivendi” che preservava l’equilibrio ecologico, pur nella prospettiva di un utilizzo economico delle sue risorse da parte delle popolazioni circostanti.

Tutt’altro che un luogo abbandonato, insomma.

Il bosco era vivo.

Lo conoscevano e lo percorrevano, da innumerevoli generazioni,  pastori, boscaioli, cacciatori, carbonai, raccoglitori di funghi, di castagne, di ghiande, di piante medicinali.

Lo attraversavano sentieri, mulattiere, tratturi, teleferiche per il trasporto del legname a valle; ai suoi margini sorgevano malghe per l’allevamento dei bovini, segherie, mulini ad acqua; e i patti colonici ne prevedevano lo sfruttamento, ma in forme limitate e responsabili.

Di conseguenza, esso era soggetto ad una vera e propria manutenzione: nulla andava sprecato, nemmeno le foglie che cadono in autunno; tanto meno le more, le bacche, i frutti selvatici: il sottobosco era pulito quasi come l’erba di un giardino (non come quella di un orribile e sterilizzato prato all’inglese, naturalmente, ma di un giardino relativamente “selvatico” e, perciò, pulsante di vita).

Anche nelle sue immediate vicinanze fervevano mille attività. Nel caso dei boschi di mezza montagna, le colline al disotto della vegetazione spontanea di faggi, di castagni, di abeti, erano fittamente coltivati a vigneto, fin sulle cime più impervie: i viticoltori, proprietari di modesti appezzamenti, non temevano di arrampicarsi fin lassù per potare e vendemmiare, anche là dove i carri agricoli non potevano arrivare.

Poi è subentrata la generazione del benessere: i figli si sono trasferiti in città, hanno fatto un po’ di soldi; e, alla morte dei genitori, hanno venduto la casa di campagna o l’hanno conservata solo come luogo di villeggiatura estiva. I piccoli poderi sono stati venduti alle grandi aziende agricole, le quali hanno concentrato la produzione viticola in pianura e sulle colline più facilmente raggiungibili, irrorandole di prodotti chimici per mezzo degli elicotteri; i vigneti più alti e più disagevoli sono stati abbandonati.

Oggi quasi più nessuno si reca nel bosco in cerca di piante medicinali; si va a comperarle direttamente in erboristeria. E i funghi e le castagne sono oggetto di una ricerca accanita, ma solo per pochi giorni all’anno, da parte di una turba di estranei venuti da fuori, dalla città; e la raccolta non avviene più nel quadro di una economia domestica basata sul consumo responsabile delle risorse naturali.

L’abbandono del bosco e la concomitante alterazione dell’ambiente naturale (viadotti, autostrade, alberghi, stazioni per gli sporti invernali, turismo di massa) hanno avuto effetti pesanti sull’equilibrio dell’ecosistema, portando alla progressiva scomparsa di talune specie vegetali e animali e alla proliferazione incontrollata di altre.

Si sono viste comparire, ad esempio, specie animali prima assenti, e diffondersi in maniera incontenibile: il capriolo innanzitutto, poi il cinghiale, la vipera, il cervo; animali che, divenuti troppo numerosi, hanno cominciato a scorrazzare anche fuori del bosco, alla ricerca di nutrimento, arrecando talvolta considerevoli danni alle coltivazioni e suscitando la reazione furibonda di agricoltori e amministrazioni comunali.

Anche l’utilizzo di pesticidi nelle aree coltivate ai margini del bosco ha fatto la sua parte, inquinando le falde acquifere, causando la scomparsa di uccelli rapaci che, ad esempio, predando le vipere, mantenevano in equilibrio le popolazioni di queste ultime; per non parlare delle piogge acide che si sono mangiate ettari di foresta, i quali vanno ad aggiungersi a quelli distrutti dagli immancabili roghi della stagione estiva.

Scrive Gianfranco Molteni nel libro «Il Museo del Bosco di Orgia» (Siena, Protagon Editori Toscani, 1993, p. 17):

 

«Il bosco era una fonte aggiuntiva di risorse per i mezzadri (raccolta, pascolo e legname per la costruzione degli attrezzi da lavoro), regolata in modo dettagliato nei patti colonici sia per le porzioni di bosco concesse alle famiglie coloniche, dia per il tipo di legna da raccogliere (per lo più di piccole dimensioni come la ramaglia).

Nel calendario agrario queste attività si collocavano nel periodo autunnale e invernale risultando così temporalmente complementari ai grandi lavori dei campi.

Oltre che dai mezzadri il bosco era popolato da altri: i cacciatori, i taglialegna, i carbonai e, nel caso del bosco di Orgia per la caratteristica composizione del suolo, dagli addetti alle fornaci a calce.

Una presenza numerosa e varia che non solo rendeva popolato il bosco, ma creava tutto un reticolo di percorsi (strade poderali, mulattiere, sentieri), tra podere e podere, tra capanno e carbonaia, con l’effetto tra l’altro di mantenere pulito il sottobosco. Così spesso nella memoria dei mezzadri torna il ricordo dell’ordine primitivo rispetto all’attuale inselvatichimento della vegetazione: “Pei boschi era un giardino, ora.. unn’è come ora, che ‘un si passa, allora si passava dappertutto, e a corsa, ricorda Luigi Cianferotti in un’intervista raccolta da Valentina Lapiccirella.

In breve tempo, lo spazio di una generazione, il bosco è diventato silenzioso.  Solo la caccia e la raccolta di funghi sono rimaste, in forme e modi diversi.  Per il resto un lento e inesorabile degrado. Gli essiccatoi per le castagne sono stati lentamente ricoperti da rovi, le piazzole delle carbonaie sono per lo più coperte dalla vegetazione e le fornaci, ormai sgretolate, spesso sono irriconoscibili. Con la crisi e la mezzadria e delle attività connesse, i lavori nei boschi sono rapidamente cambiati non solo quantitativamente, ma nelle caratteristiche. Alcuni mestieri sono completamente scomparsi come il carbonaio, o il vetturino che conduceva i muli nelle piazzole per caricare i sacchi di carbone,  altri hanno assunto caratteristiche di maggior estraneità asl terreno, come il taglialegna, per l’assenza  di quella socialità coi mezzadri fatta di scambi  di prodotti (un po’ di carbonella o di legna in cambio di qualche fiasco di vino) e di serate a veglia: “… la sera venivano a veglia  laggiù al circolo creativo…”, rammenta Vasco Baroni in un’altra intervista.»

 

In fondo, sono passate solo tre generazioni da quando, nel 1923, lo scrittore austriaco Felix Salten, pseudonimo di Siegmund Salzmann, pubblicava il suo celebre romanzo «Bambi, la vita nel bosco» (dal quale, nel 1942, Walt Disney avrebbe tratto un ancor più celebre film), descrivendo la vita di una foresta centro-europea in cui i cervidi vivevano ancora allo stato selvaggio, come nei secoli del passato più remoto.

E del resto sappiamo che Francesco Ferdinando d’Asburgo, l’erede al trono austro-ungarico che cadde assassinato a Sarajevo, era un tale appassionato cacciatore che, poco prima di morire, nel 1914, aveva ucciso qualcosa come 5.000 cervi, molti dei quali decoravano, con le loro corna, la sua abitazione privata.

Non tutti, per fortuna, facevano un uso così distruttivo delle risorse naturali del bosco, sia in Europa che in Italia. In genere, i contadini che vivevano ai suoi margini sapevano bene quanto preziosa fosse per loro la sua conservazione; e ciò almeno fino a che la loro atavica fame di terra non li spingeva ad abbattere le foreste demaniali, via via che queste venivano vendute a piccoli lotti: come accadde, per esempio, nel caso del Bosco del Montello, presso il medio corso del Piave, alla fine del XIX secolo.

I romanzi di Michail Sadoveanu, il maggior prosatore romeno del XX secolo, sono pieni di pastori e boscaioli e in essi ricorre continuamente il paesaggio boschivo della natia Moldavia. E come dimenticare le foreste di abeti al confine russo-polacco degli anni Trenta, così suggestivamente descritte da un contrabbandiere fattosi scrittore, Sergiusz Piasecki, nel suo famoso romanzo «L’amante dell’Orsa Maggiore»?

È triste pensare che la cosiddetta società del benessere abbia reciso l’antico legame fra l’uomo e il bosco e che quest’ultimo, abbandonato a se stesso, si stia rapidamente rinselvatichendo; in un certo senso, è come se gli uomini avessero perduto la strada di casa.

Il bosco, in effetti, era il paesaggio predominante prima della grande ondata di urbanizzazione che percorse l’Europa in concomitanza con la Rivoluzione industriale: né l’Impero di Roma (che non arrivò stabilmente oltre il Reno e il Danubio), né la civiltà comunale, né la nascita dello Stato moderno, riuscirono a distruggere l’antica comunanza e l’antica interazione tra l’uomo e il bosco; solo il consumismo becero degli ultimi decenni vi è riuscito, in modo clamoroso.

I pochi boschi che ancora sopravvivono sono sempre più simili a dei gusci vuoti: nessuno vi raccoglie più la ramaglia; nessuno ne ripulisce i sentieri; nessuno vi costruisce le carbonaie.

Sono diventati silenziosi e molti animali, specialmente mammiferi e uccelli, li hanno abbandonati, così come si dice che i topi lascino di soppiatto una nave che essi sentono oscuramente destinata a naufragare.

Torneremo più a udirne le voci, a vedervi rifiorire la vita?