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L’aquilone

di Francesco Lamendola - 21/11/2010

Non capita tutti i giorni.

Appassionati frequentatori di mercatini dell’antiquariato, l’altro giorno ci è capitato fra le mani un documento che è, al tempo stesso, una commovente testimonianza di tipo umano e sociale e un testo letterario non privo di interesse.

Fra le pagine di un vecchio libro, infatti, era celato, ripiegato in quattro, un foglio protocollo ingiallito dal tempo: recante il compito di italiano di una ragazza che, nell’ormai lontano 1963, frequentava la terza media. Recava anche il nome della località, un paese di mezza montagna ai piedi della Foresta del Cansiglio, non troppo lontano da casa nostra.

Oltre a prestarsi a non poche riflessioni sul livello di preparazione che offriva la scuola di allora (prima dell’esecrabile appiattimento recato dall’ondata demagogica del 1968), il tema in questione offre interessanti spunti sul valore del gioco nella società non ancora investita dalla fiumana del consumismo; nel caso specifico, il gioco dell’aquilone.

Il tema si intitolava, infatti: «Le cose che ci circondano hanno un loro linguaggio; ci parlano di loro, di noi, del tempo trascorso insieme ai nostri cari. Che ti dice quel vecchio mobile o quel vecchio oggetto?».

Non è senza qualche esitazione che ci siamo decisi a riportarlo, omettendo solo il nome dell’autrice, per rispetto al suo privato; tuttavia, si tratta di una composizione così garbata e ricca di sensibilità, così fresca e viva nella descrizione, che ci è sembrato ne valesse la pena: salvo restituirlo alla legittima proprietaria, qualora lo leggesse, come cosa privata che per puro caso è andata a finire nelle mani di estranei.

Ecco dunque lo svolgimento di quel tema, che riportiamo senza alcuna modifica, tranne alcune correzioni di tipo puramente ortografico e sintattico:

 

«La nostra vita passata è legata a tutte quelle cose e quegli oggetti che ci circondano; essi ci rammentano giorni tristi e belli secondo le circostanze in cui li abbiamo ricevuti o goduti. Io ho molti oggetti i quali, messi assieme, possono ricostruire la mia giovane vita.

Alcuni giorni fa, rovistando in un vecchio baule, ho trovato un grazioso aquilone ormai un po’ sbiadito dal tempo. Esso era stato costruito con tanta maestria da mio fratello. Infatti non c’erano aquiloni così ben fatti come quelli fabbricati da lui. Si distinguevano subito in mezzo agli aggeggi sgangherati degli altri ragazzi.

Innalzare gli Aquiloni era sempre stato un gioco assai caro ai ragazzi del mio paese; credo che tutti abbiano avuto l’emozione di tenere in mano stretto il filo ad uno di essi, guardando ansiosamente in alto. Il fascino del gioco non si basa soltanto nell’abilità che richiede nella costruzione dell’aquilone, quanto nel preservarlo dai pericoli ai quali va incontro quando è in volo.

L’aquilone che ho trovato è molto bello: è fatto con delle asticelle a forma di rombo e ricoperto da una bella carta color rosso fiammeggiante e ornato con tre  lunghe “code” fatte ad anello, paragonabili ad un sontuoso strascico.

Con esso ho passato molte ore liete correndo per i prati, con gli ohi fissi in alto e la cordicella in mano, ascoltando i competenti consigli di mio fratello. L’aquilone era sensibile: basta saperlo prendere. Lo si tirava da una parte facendolo correre nell’aria a destra e a sinistra; lo si faceva salire o scendere fin quasi a toccar terra e roteare in cerchi discendenti per poi ridargli, con un tratto di corda, la sua stabilità e la sua altezza.

Se succedeva che uno sconsigliato tra i vicini cercasse di darci noia, impedendo le evoluzioni del nostro aquilone, trovava pane per i suoi denti; mio fratello prendeva lui la fune in mano, mentre a noi batteva il cuore per l’emozione. D’intorno, i ragazzi stavano a guardare a bocca aperta, mentre la lotta cominciava.

Mio fratello, con la sua tattica perfetta, avvoltolava la corda per avere una riserva a disposizione. Non parlava più, non rideva, con l’anima concentrata tutta negli occhi e gli occhi sopra i due aquiloni pronti per la gara. Era sempre l’aquilone straniero ad attaccare il nostro, e mio fratello fingeva di fuggire da un’altra parte, finché calcolava di averlo attirato nel nostro campo. Allora, con alcuni strappi di corda, sollevava l’aquilone sopra quello “nemico” e subito dava il via a tutta la riserva di corda che si era preparato.

In questo momento culminante della lotta mio fratello diventava irriconoscibile. Tirava correndo all’indietro, senza lasciarsi arrestare da nessun ostacolo; saltava pietre, fossi, sempre con gli occhi in alto, e non smetteva di tirare che dopo aver portato in mezzo a noi i due aquiloni impigliati. Noi allora balzavamo sull’aquilone “nemico”, tirando la corda a rischio di romperla, e poi alzavamo in aria il trofeo gridando di gioia, mentre attorno risuonavano come echi di trionfo le acclamazioni degli spettatori.

Riguardando quel vecchio aquilone, mi sembra di vederlo ancora ondeggiare, pencolare, urtare, risalire, prendere il vento e di udire quelle grida festose di mio fratello e dei suoi amici, che resero felice la mia infanzia.»

 

Il gioco dell’aquilone, dunque, era tale da fondere armoniosamente la manualità, la fantasia, il senso estetico del bambino e del ragazzo, con la prontezza di riflessi, la capacità d’intuizione e l’agilità fisica e mentale. Aveva anche il pregio di costare poco…

La costruzione di un aquilone non è cosa semplicissima e richiede pazienza, inventiva, senso pratico, oltre a un certo buon gusto; unisce il momento della progettazione tecnica con quello della creatività e della immaginazione.

Il suo impiego, poi, una volta che sia stato costruito a regola d’arte, coinvolge tutti i sensi e le facoltà, a cominciare dalla vista; e, naturalmente, abitua il bambino ad osservare la natura, nel caso specifico a cogliere la direzione del vento e i possibili mutamenti atmosferici.

Niente a che vedere, insomma, con quei giocattoli meccanici o, peggio, elettronici, che oggi vanno per la maggiore e che fanno tutto da soli, lasciando ai bambini solo la dubbia soddisfazione di manipolare un gioco che non ha veramente bisogno di loro, se non nella funzione di poco più che semplici spettatori.

Come si vede dal brano di prosa che abbiamo qui sopra riportato, quello dell’aquilone era anche un gioco di intelligenza, oltre che di destrezza: quanto di meglio si potrebbe immaginare per sviluppare sia le capacità fisiche, che quelle mentali.

In esso, inoltre, era fortemente presente l’elemento dell’attesa: la lenta costruzione del giocattolo consentiva al bambino di assaporare il divertimento futuro, anticipandolo con l’immaginazione e raddoppiando il desiderio; anche qui, l’esatto contrario della odierna pratica consumistica - vera pedagogia all’incontrario -, che tende a soddisfare il desiderio del bambino non appena esso viene manifestato e, in certi casi, addirittura a prevenirlo.

Sarebbe profondamente sbagliato sottovalutare l’importanza del gioco nella vita del bambino e nel processo della sua formazione psicologica, affettiva e intellettuale. In un certo senso, ad ogni persona adulta si potrebbe applicare il motto: «Dimmi come hai giocato - o come non hai giocato - da bambino, e ti dirò che uomo o che donna sei».

E non si venga dire che questi sono discorsi passatisti e che una giusta pedagogia dovrebbe sempre adeguarsi alla realtà effettuale, commisurando l’idea e la pratica del gioco infantile alle concrete circostanze storico-culturali e al livello economico di una data società.

Questa è una obiezione che non vale niente, perché non tiene conto del fatto che il bambino, fondamentalmente (a differenza dell’adulto), è sempre lo stesso: lo dimostrano i giocattoli, ad esempio le bambole o i carrettini, rinvenuti nelle tombe infantili dell’antico Egitto e di altre civiltà scomparse.

Ed è sempre lo stesso perché il fanciullino, come lo definirebbe il Pascoli, trilla e cinguetta dal fondo dell’anima di ogni vita che si apre sul mistero del mondo e vede le cose, con stupore infinito, fresche e incommensurabili, come se fossero appena uscite dalla mano del Creatore.

E, sempre parlando di Giovanni Pascoli, come ignorare i suoi versi così belli, dedicati proprio all’aquilone, nella poesia omonima contenuta nei «Primi poemetti»?

 

«[…] Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù… […]»

Ma poi è arrivato il “progresso”; l’arte di costruire gli aquiloni è stata dimenticata; e i negozi di giocattoli han cominciato a vendere gli aquiloni già belli e pronti, ovviamente decorati con un tale sfarzo, da far impallidire anche i più belli realizzati a mano.

Da ultimo, i negozianti hanno smesso di metterli in vetrina, finché è arrivato il momento in cui non li si è trovati più nemmeno in fondo al magazzino: ne era sparita la domanda, quindi era stata ritirata anche l’offerta.

E l’aquilone ha fatto la fine di tanti altri oggetti relegati nella soffitta delle cose inutili: oggetti che un tempo popolavano le nostre case ma che poi, un poco alla volta, il “progresso” ha fatto sparire: dalla legna per la stufa, all’arcolaio per filare la lana.

In compenso, le nostre case si sono riempite di gingilli tecnologici sempre più sofisticati: dal telecomando per cambiare canale della televisione senza doversi alzare dalla poltrona, al motorino elettrico per far alzare le persiane della finestra senza doverlo fare manualmente; fino ai computer e ai telefonini di ultima generazione, con i quali si può fare un po’ di tutto.

Però i bambini non vanno più nei prati a giocare con gli aquiloni; del resto, come lo potrebbero, nel traffico delle città congestionate?

Eppure, volendo… Non vediamo forse, sempre più spesso, gli adulti che corrono in montagna per lanciarsi nel vuoto con il deltaplano o con il  parapendio? Ma allora, perché non portano i bambini in montagna o in campagna, per far volare gli aquiloni?

Dunque, smettiamola di nasconderci dietro scuse miserabili: l’irreversibilità del progresso è tutta da dimostrare; di fatto, nella nostra vita quotidiana, noi siamo liberi di ritagliarci gli spazi e di effettuare le scelte che vogliamo; sta in noi decidere se farlo all’insegna di una tecnologia sempre maggiore oppure recuperando, per noi e per i nostri figli, le dimensioni della creatività, dell’inventiva, della fantasia e del senso estetico.

Anche abituare i nostri bambini a fermarsi per ammirare un angolo incantato di giardino o la luce che filtra obliquamente dalle nubi temporalesche, è una autentica e sana forma di pedagogia…