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Terreno caldo sotto le piramidi

di Roberto Zavaglia - 21/11/2010

E’ tanto incerto il futuro politico dell’Egitto, il gigante arabo con i suoi quasi 80 milioni di abitanti,  che alcuni analisti definiscono pre-rivoluzionaria la fase attuale. Il modello è quello dell’Iran della seconda metà degli anni Settanta, con il “faraone” Hosni Mubarak nelle veci dello scià Reza Pahlavi. Forse i cambiamenti non saranno tanto drastici, ma il Paese dovrà comunque attraversare una complicata transizione.
  A chiarire la situazione non serviranno le prossime elezioni politiche del 28 novembre, in cui si  ripeteranno gli stanchi riti delle precedenti consultazioni controllate dal regime. L’unico partito di vera opposizione sarà ancora rappresentato dai Fratelli Musulmani. Il movimento islamico, che è ufficialmente fuorilegge, potrà però presentare solo candidati “indipendenti” per meno di un terzo dei seggi dell’Assemblea del Popolo, lasciando intatta la maggioranza assoluta del Partito Nazionale Democratico appoggiato dal presidente. I brogli, prevedibili e ampiamente previsti, faranno il resto, consentendo la sopravvivenza del regime, almeno nell’immediato futuro.
  Più importanti saranno le elezioni dell’anno prossimo per la presidenza, nelle quali, stando alle dichiarazioni ufficiali, Mubarak dovrebbe candidarsi per ottenere il settimo mandato di una carica che detiene da trent’anni. Che lo faccia è però dubbio, considerati i suoi 82 anni e le gravi condizioni di salute (un vero segreto di Stato) che, forse, gli lasciano ancora poco tempo da vivere. Da qualche anno, il presidente sta preparando il figlio Gamal per la  successione, avendolo fatto  salire ai vertici del Partito al potere. Il quarantasettenne erede, con un passato di studi negli Usa e in Gran Bretagna, oggi attivo nella finanza, non avrà un compito facile. La sua immagine è abbastanza scialba e la grande maggioranza degli egiziani detesta l’ipotesi di una successione dinastica. Una figura di transizione potrebbe essere quella dell’uomo forte del regime, Omar Suleiman, che controlla gli apparati di sicurezza e probabilmente gode del decisivo appoggio delle Forze Armate.
  Agli occhi del popolo, però, Suleiman non rappresenta alcun cambiamento rispetto al sempre più detestato Mubarak. L’uomo nuovo della politica egiziana, che molti indicano come il solo in grado di democratizzare e modernizzare il Paese, è Mohammed ElBaradei il quale, dalla sua esperienza di segretario generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha ricavato un notevole prestigio interno e, in parte, internazionale. Ritornato in patria il 19 febbraio scorso, dopo 12 anni di assenza, è riuscito, in breve tempo, ad ottenere la simpatia delle parti sociali e dei gruppi politici che anelano alla fine del regime. Anche i Fratelli Musulmani, pur non apprezzando la sua visione “laica”, lo percepiscono come una possibilità per entrare a pieno diritto nel gioco politico.
  Con le regole attuali la strada per ElBaradei è stretta: non potrebbe nemmeno candidarsi alla presidenza. E’ per questo che ha deciso di giocare la sua partita fuori dal quadro istituzionale, ponendosi come figura non di mediazione ma di alternativa rispetto al reticolo di potere su cui si basa Mubarak. Il che fare, però, è ancora tutto da risolvere: la via rivoluzionaria è incerta e sottoposta alla repressione degli ancora stabili apparati di sicurezza che hanno sempre colpito con durezza le opposizioni sgradite al presidente. L’esperto diplomatico non ha ancora un programma politico definito, ma suscita speranze con i suoi appelli alle libertà civili, a elezioni senza trucchi e alla modernizzazione del Paese.
  Queste parole d’ordine bastano a fare breccia in quegli strati della popolazione che, almeno da cinque anni, hanno più volte pubblicamente manifestato il loro malcontento nelle piazze del Paese, sfidando i divieti. Il regime appare delegittimato a causa del suo immobilismo. Il potere, spesso anche economico, è nelle mani della ristretta cerchia degli uomini di Mubarak, la corruzione è dilagante, le infrastrutture e l’apparato produttivo sono obsoleti. A provocare le proteste è stata soprattutto la situazione economica, con una classe media spinta verso il basso e l’enorme massa dei poveri che si trova ormai a lottare per la mera sussistenza. Le manifestazioni pubbliche per ottenere miglioramenti salariali non hanno finora espresso un preciso contenuto politico, ma il terreno sembra predisposto ad una mobilitazione contro il regime, che solo la dura repressione, per ora, tiene a freno.
  Gli studenti e una larga parte dei ceti produttivi e intellettuali hanno perso ogni fiducia in Mubarak, rimproverandogli la chiusura al cambiamento che pone l’Egitto fuori dai flussi della modernizzazione e lascia la popolazione senza la speranza di miglioramenti futuri. A pescare nelle classi più disagiate sono stati, fino ad ora, i Fratelli Musulmani i quali, però, non sono del tutto attrezzati a guidare la protesta sociale, in quanto la loro ideologia è conservatrice e mira ad alleviare le condizioni dei più deboli attraverso un’estensione del concetto dell’elemosina islamica, la zakat. Molto apprezzato per gli aiuti ai diseredati, il movimento è in difficoltà rispetto alla rivendicazione  di diritti certi.
  Anche sul piano internazionale, il prestigio dell’Egitto, a cui tanto tiene il regime, è in ribasso. Non viene più riconosciuto come il Paese guida del mondo musulmano, anche in conseguenza della pace separata con Israele del 1979, venendo spesso soppiantato, nelle opinioni pubbliche del Medio Oriente, da Stati come l’Iran e, recentemente, la Turchia, che rappresentano modelli diversi ma entrambi vincenti di modernità islamica. C’è, poi, il problema della frontiera con Gaza, blindata da  Mubarak per timore di un’invasione di disperati e per rispetto della volontà di Israele: un ulteriore fattore di ostilità verso il governo da parte dei tanti egiziani che appoggiano la causa palestinese. Washington  continua a sostenere il regime (l’Egitto è il secondo beneficiario, dopo Israele, degli aiuti statunitensi) anche perché, dopo il parziale successo dei Fratelli Musulmani nelle elezioni del 2005, teme la loro ascesa al potere.
  Quello egiziano rappresenta un caso scuola del fallimento dei regimi politici arabi nel secondo periodo post-coloniale. Incapaci di ascoltare e soddisfare, almeno in parte, le esigenze della popolazione, questi regimi tentano di mantenere il controllo delle masse con slogan vuoti e roboanti di stampo nazionalista, pencolando tra l’adesione alle strategia Usa e la condanna retorica dei guasti prodotti dalla dominazione occidentale. La “rivoluzione democratica” del Medio Oriente pretesa da  Bush rappresentava solo il tentativo di estendere l’egemonia Usa. E’ però auspicabile che gli arabi  trovino finalmente una propria via, abbandonando scusanti e risentimenti nei confronti dell’Occidente, per meglio selezionare le classi dirigenti e alzare la qualità complessiva delle loro società.