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L'Afghanistan dei nuovi Taliban

di Gian Carlo Caprino - 22/11/2010

 
 
   
La guerra in Afghanistan si sta avvitando sempre di più verso una situazione di tipo vietnamita, per cui è chiaro che gli Stati Uniti saranno costretti a trattare con gli insorti, abbandonando l'illusione di una vittoria militare con relativa sottomissione del mosaico di etnie che compongono il Paese.
 
I Taliban di oggi
Ma chi sono oggi i Taliban e come la pensano? In realtà non ne sappiamo ufficialmente quasi nulla; i pochi capi Taliban che si sono "riconciliati"con il governo Karzai sono, in realtà, quasi tutti ex prigionieri di Guantanamo, catturati dagli americani nel 2001 ed assoggettati ad ogni tipo di umiliazione e tortura, prima di essere rimessi in libertà con il giuramento di non compiere mai più azioni ostili contro gli americani ed i loro alleati.
Vi è poi stato, nel corso dell'ultimo decennio, un ricambio generazionale nelle leaderships regionali dei Taliban (non si può infatti parlare di un fronte monolitico nazionale) dovuto in parte ai continui attacchi aerei che hanno provocato la morte di molti vecchi capi storici ed in parte ad una naturale evoluzione alla quale non è stato estraneo proprio il contatto con la mentalità e la civiltà occidentali.
Una serie di ricerche della London School of Economics indica come possibile una profonda mutazione di mentalità dei nuovi capi Taliban, rispetto a quanto conoscevamo della storia della seconda metà degli anni Novanta; ecco di seguito alcuni risultati di queste ricerche.
Essi si sono resi conto, ad esempio, della profonda impopolarità delle rigidissime norme applicate dai loro predecessori verso le donne, per cui oggi non sarebbero più contrari ad un modello di donna istruita e (parzialmente) emancipata, come avviene attualmente in Iran, Paese che è una repubblica islamica.
Le nuove tecnologie (TV, Internet) non sono più demonizzate, anzi pesantemente utilizzate per la propaganda; così anche la musica in pubblico, prima proibita.
I nuovi capi Taliban, inoltre, rivendicano il loro nazionalismo: non sono cioè una propaggine di Al Qaeda, che vuol portare ovunque la guerra santa contro l'Occidente e che ambisce al primato islamico planetario; piuttosto si considerano semplicemente degli uomini valorosi che lottano per affrancarsi dagli eserciti invasori.
D'altra parte lo stesso Mullah Omar, capo indiscusso dei Taliban all'epoca, subito dopo l'undici settembre 2001 fece convocare dal suo portavoce una conferenza stampa in cui si stigmatizzava l'attentato e si auspicava la cattura dei responsabili, invitando inoltre l'America ad essere "paziente e cauta nel reagire".
 
Prima opzione: resa ed amnistia
L'odierna strategia politica di Petraeus consiste, come tentato con parziale successo in Iraq, nel giungere ad una sorta di "riconciliazione e integrazione" dei Taliban nella Costituzione vigente in Afghanistan attraverso colloqui con il governo Karzai in cambio della rinuncia all'uso delle armi; ma è difficile che funzioni: già nel 2005 era stata offerta l'amnistia ai capi Taliban, ma nessun capo si arrese.
Il fatto è che i Taliban non riconoscono il governo Karzai per due motivi: il primo perché lo considerano un emanazione diretta dell'invasore americano, il secondo perché, comunque, questo governo è, al suo interno, una riproposizione di quella Alleanza del Nord, composta da turkmeni, uzbeki e tagiki, che essi stessi avevano sconfitto negli anni Novanta, alleanza fortemente supportata dagli USA e comandata dal tagiko Massoud (il "leone del Panshir"), ucciso dai Taliban due giorni prima dell'attentato alle Torri gemelle di New York.
I Taliban hanno rilanciato proponendo come irrinunciabile una trattativa diretta con gli USA, che preveda comunque il loro ritiro totale dal territorio afghano, e la convocazione di una nuova Assemblea Costituente, che ridiscuta la quota di influenza delle numerose etnie che compongono il mosaico afghano.
Insomma, Petraeus dovrà mettersi l'anima in pace: la resa "soft", che accetti lo statu quo creatosi dopo l'invasione americana, non verrà accettata dai Taliban..
 
Seconda opzione: spartizione dell'Afghanistan
L'edizione on-line del 21 novembre del' "Economist" riporta un'opzione nuova (partorita, sembra, dalla fervida mente di Hillary Clinton), discussa molto riservatamente a margine del vertice NATO di Lisbona, la quale prevederebbe la proposta, da presentare ai capi dei Taliban, di una divisione del Paese, su base etnica, in due parti.
La prima parte occuperebbe i territori centro-meridionali, compresa la regione del Balucistan afghano, con capitale Kandahar ed a maggioranza Pashtun; tale parte verrebbe sgombrata completamente dagli eserciti occidentali e godrebbe di una sostanziale indipendenza, compresa la politica internazionale, con il solo impegno, da parte dei Taliban, a rinunciare a qualsiasi atto ostile verso gli occidentali.
La seconda parte, con capitale Kabul, occuperebbe i territori settentrionali a maggioranza turkmena, uzbeka e tagika, e resterebbe fedele agli USA, consentendo a questi ultimi di conservare le basi militari con cui controllare (ed, eventualmente, destabilizzare) tutta l'Asia Centrale, con una particolare attenzione verso l'Iran. Sembra già che l'Alleanza del Nord e Karzai (informati riservatamente), pur non entusiasti, non si opporrebbero più di tanto ad una simile opzione.
Le relazioni tra queste due parti, che diverrebbero a tutti gli effetti due Stati, dovrebbero limitarsi ad una blanda federazione.
Ed i Taliban cosa ne penserebbero? E' ovviamente troppo presto per dirlo, ma, posto che prendesse corpo, bisogna ammettere che per loro questa opzione è intrigante, poiché terrebbe conto della frammentazione a livello etnico (se non addirittura tribale) che affligge endemicamente i Paesi islamici ex colonie britanniche, i cui confini furono tracciati dalla Potenza coloniale senza star tanto a pensare all'omogeneità delle popolazioni che contenevano.
Ad esempio gli afghani di etnia pashtun non hanno mai riconosciuto la linea di confine tracciata dagli inglesi nel 1893 tra Afghanistan e Pakistan, vantando pretese su vasti territori nel nord-ovest del Pakistan (tra cui la città di Quetta) abitati dalla loro etnia, mentre non hanno particolari entusiasmi verso i territori del Nord, abitati dalle etnie dei Paesi ivi confinanti.
Potrebbe questa opzione, sempre se prendesse corpo, oltre a risolvere il conflitto afghano, pacificare la regione? Anche a questa domanda è prematuro rispondere e, comunque, si tratterebbe di una soluzione che andrebbe a regime solo nel lungo periodo.