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Povertà, banalità e incongruenze del pensiero politico di Locke

di Francesco Lamendola - 24/11/2010


Il «Secondo trattato sul governo» di John Locke è considerato, dagli estimatori del filosofo inglese, il suo capolavoro, che ne riassume il pensiero politico; generalmente noto con il titolo «Due trattati sul governo», reca un titolo originale molto più lungo: «Secondo trattato sul governo civile. Saggio concernente la vera origine, l’estensione ed il fine del governo civile» e fu stampato a Londra nel 1690, anonimo, subito dopo il ritorno dell’autore in patria e l’inizio del regno di Guglielmo d’Orange.
Oltre ad esporre la sua concezione dello Stato e della vita politica, il fine dell’opera è anche polemico, essendo diretta contro il trattato di Robert Filmer, «Il Patriarca», che sostiene le tesi dell’assolutismo e, in particolare, dell’origine divina del potere monarchico.
Nel trattato di Locke, i suoi ammiratori vedono una straordinaria ricchezza di concezioni e l’opera in cui meglio si manifesta lo spirito del nuovo Stato liberale instaurato dalla rivoluzione del partito Whig, quella «Glorious Revolution» del 1688-89 che fonda in Inghilterra la monarchia costituzionale ed è alla base della moderna concezione liberaldemocratica.
Prendiamo in esame, a titolo di esempio, uno dei passaggi-chiave dell’opera di Locke, quello in cui egli delinea il transito dell’umanità dallo stato di natura allo stato di diritto (da: J. Locke, «Secondo trattato sul governo», a cura di C. A. Viano, «Grande antologia filosofica», Milano, Marzorati, 1968, pp. 610-13; 624-25):

«Ritengo che il potere politico sia in diritto di fare leggi che comminino la pena di morte, e conseguentemente tutte le pene minori, per regolare e preservare la proprietà, e di impiegare la forza della comunità nell’esecuzione di queste leggi e nella difesa della società dalle ingiurie che possono venire dal di fuori; e tutto questo al solo fine del pubblico bene. […]»

È un “incipit” che piacerebbe a Reagan, intransigente sostenitore della pena di morte, e a Bush Junior, teorico della “guerra preventiva” al terrorismo: qui c’è veramente tutto lo spirito della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. In nome della sacralità della proprietà privata, tutto diventa lecito, anche sparare a vista su un ladruncolo che si intrufola nel giardino di casa o lasciarlo divorare dai cani da guardia; anche attaccare e bombardare le inermi popolazioni di uno Stato “canaglia” che ospita, o che è sospettato di ospitare, le basi da cui sono partiti i terroristi per lanciare proditoriamente i loro attacchi.

«Per comprendere rettamente il potere politico, e derivarlo dalla sua origine, dobbiamo considerare quale sia lo stato in cui gli uomini si trovano per natura. È uno stato di libertà perfetta di ordinare le proprie azioni, di disporre delle proprietà e delle persone come meglio si ritiene, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere il permesso a nessuno e senza dipendere dalla volontà di nessuno.»

Questo è buon esempio del più ingenuo giusnaturalismo: senza sognarsi di tentarne nemmeno una dimostrazione, Locke afferma che lo stato di natura degli uomini è uno stato di libertà perfetta, ivi compresa la libertà di disporre delle persone e delle cose, senza dover renderne conto a chicchessia; ma subito dopo, con singolare incongruenza, aggiunge che tale libertà si esercita entro i limiti della legge di natura stessa: e, anche se qui non lo dice, non ci vuol molto a capire che, per lui, tale “legge” è la ragione.
Insomma l’uomo sarebbe, per natura, perfettamente libero, ma sempre secondo i dettami della ragione naturale. Che cosa sia, poi, questa libertà originaria, e perché i suoi limiti siano stabiliti da leggi inerenti alla natura stessa, non si sa.

«Si tratta anche di uno stato di eguaglianza, nel quale ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, perché nessuno ha più potere o più giurisdizione di un altro. Perché non c’è nulla di più evidente di questo, che creature della stessa specie e della stessa razza, nate indistintamente per godere, nello stesso grado, di tutti i vantaggi della natura, e per usare le medesime facoltà, dovrebbero anche essere reciprocamente uguali, senza subordinazione o soggezione, a meno che il signore e padrone di tutte quelle creature, con una manifesta dichiarazione della sua volontà, abbia posto uno sopra un altro, e gli abbia conferito, con designazione evidente e chiara, un indubitabile diritto al dominio e alla sovranità.»

Anche questo passaggio, che si presenta così naturale da strappare a Locke l’affermazione che nulla è più evidente di esso, si presenta, in realtà, come un ragionamento non dimostrato, che si dovrebbe accettare per fede. Che cosa vuol dire, infatti, che tutti gli esseri umani sono uguali per natura e che nessuno può ritenersi superiore a un altro? Ammesso e non concesso che la “natura” ci mostri qualcosa che sia anteriore alla “cultura”, quel che si può vedere è che gli uomini sono naturalmente diseguali e alcuni hanno più potere di altri: vuoi perché lo conquistano con la forza o con l’astuzia, vuoi perché lo ricevono in virtù delle loro attitudini, con un atto di spontanea dedizione da parte degli altri.
Quanto al richiamo al Dio della Bibbia, che è poi una frecciata polemica contro Robert Filmer, ci vuole un bel coraggio per sostenere che, in esso, Dio non abbia posto qualcuno al di sopra di qualcun altro, con «designazione chiara ed evidente»; perché tutta la storia del popolo ebreo, così come è narrata nell’Antico Testamento, è un incessante ribadire l’opposto concetto: che Dio ha eletto i “suoi” fedeli al di sopra degli altri popoli; e che, all’interno di essi, Dio ne ha eletti alcuni a guidare gli altri, conferendo loro potere di vita e di morte (vedi, fra i moltissimi altri, l’episodio di Core, Dathan e Abiram, narrato nel sedicesimo capitolo dei «Numeri»).
Meglio avrebbe fatto, il Locke, a lasciar perdere questo argomento; senza contare che esso non ha proprio nulla a che fare con l’argomentazione precedente, tutta basata sulla ragionevolezza della non meglio specificata “legge di natura”; e che questo passare disinvoltamente dall’uno all’altro ordine di ragionamenti non può che lasciare perplesso anche il lettore più indulgente o più favorevolmente predisposto.

«Lo stato di natura ha una legge di natura che lo governa, e che obbliga ciascun uomo. E la ragione, che è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che sono tutti uguali e indipendenti, e perciò nessuno deve recar danno ad un altro nella vita, salute, libertà o proprietà. Tutti gli uomini sono opera di un unico autore onnipotente e infinitamente saggio, sono tutti servitori di un  unico padrone sovrano, inviati nel mondo per suo ordine e ai suoi fini, sono sua proprietà, dal momento che sono opera sua, fatti per durare fin a quando piaccia a lui e non a un altro. E, poiché siamo forniti di facoltà simili, poiché partecipiamo tutti all’unica comunità di natura, non si può supporre che ci sia tra noi una tale subordinazione, che possa autorizzarci a distruggerci a vicenda, come se fossimo fatti gli uni per l’uso degli altri, nel modo in cui le creature di ordine inferiore sono fatte per noi. Ciascuno di noi, come è tenuto a conservare se stesso,  e non abbandonare il suo posto volontariamente, così, per la stessa ragione, quando la sua conservazione non viene messa in questione, deve, nella misura del possibile, preservare il resto dell’umanità, e, a meno che egli non debba far giustizia di chi ha commesso un’offesa, non può eliminare o minacciare la vita o ciò che conduce alla conservazione della vita, della libertà, della salute, delle membra del corpo o dei beni di un altro.»

Qui le contraddizioni sono tali e tante, e il grado di ipocrisia che traspare dalla declamazione dei bei principî è così fastidioso, che ci sembra necessario replicare punto per punto a una simile valanga di feroci luoghi comuni, spacciati per chissà quale sublime filosofia.
Per cominciare: si dice che lo stato di natura ha una legge, e che questa legge è la ragione (finalmente); poi, subito, si aggiunge che questa legge afferma, purché le si voglia prestare attenzione, l’uguaglianza “naturale” di tutti gli uomini.
Ma chi ha stabilito che lo stato di natura soggiace a una legge di natura?
E chi ha mostrato e dimostrato che tale legge è la ragione?
E, se si tratta di una legge di natura, come mai gli uomini possono anche non prestarvi attenzione?
Di fatto, noi vediamo continuamente che gli uomini si comportano come se non credessero affatto all’uguaglianza naturale tra essi e meno ancora che tutti hanno diritto all’indipendenza e alla libertà più completa.
Che cosa significa questo?
Se esiste una legge di natura, perché gli uomini non la rispettano?
E se questa legge coincide con la ragione, perché essi non la vedono e non la osservano?
Subito dopo, con inconcepibile leggerezza, Locke afferma che Dio, avendo creato gli uomini, ne è il padrone assoluto, che essi sono sua “proprietà”, più simile a un capriccioso e tirannico signore feudale, che a un Essere amorevole che con gratuito amore ha creato i suoi figli e li ha resi liberi. Inoltre, a scanso di equivoci, aggiunge, con intolleranza tipicamente veterotestamentaria (e protestante), che questo Dio vuole la cieca ed esclusiva obbedienza degli uomini, e non già che essi obbediscano ad un altro (cioè ad altri esseri umani).
Si direbbe che la supposta libertà originaria e naturale dell’uomo si fondi solo e unicamente sulla sorveglianza di un Dio geloso e terribile, più che sulla tanto decantata ragione; il che è come far rientrare dalla finestra, quel che si era voluto cacciare dalla porta, ossia il pessimismo antropologico di Hobbes, per cui tutti gli uomini sono lupi per i propri simili, e solo uno Stato assoluto e implacabile può costringerli e a non sbranarsi fra loro e a rispettare le leggi.
Ancora.
Locke nega che noi siamo fatti per l’uso degli altri, così come le «creature inferiori» sarebbero fatte, secondo lui, per il nostro uso e il nostro comodo.
Ma, a parte il fatto che non si prova nemmeno a dimostrare perché mai vi siano delle creature che devono essere considerate inferiori e delle creature che vanno considerate superiori, e perché mai quelle superiori avrebbero il diritto di usare di quelle inferiori, egli desume dal fatto che possediamo facoltà simili (e non che siamo “uguali” per natura, che è ben altra cosa: ma lui sembra non rendersi conto della differenza) che nulla autorizza a pensare che noi abbiamo anche il diritto di sopraffarci e distruggerci a vicenda.
Notiamo, di passaggio, che Locke aveva esordito dicendo che sono perfettamente legittime le leggi dello Stato che prevedono la pena di morte: e questo non equivale a sancire e legalizzare la distruzione reciproca degli esseri umani? Di ciò, tuttavia, a fra poco.
Per intanto, prendiamo atto che, per Locke, la vita non è nostra, ma di Dio, per cui egli condanna il suicidio; e che, per la stessa ragione, condanna la violenza gratuita a danno del prossimo. Questo solenne principio viene però inficiato subito dopo, laddove egli suggerisce che sia lecito uccidere o muovere guerra, qualora si tratti di «far giustizia» contro chi abbia commesso «un’offesa»; e abbiamo visto che, per lui, anche attentare alla proprietà privata è un’offesa.
Quindi, assistiamo a una pura e semplice riproposizione della teoria della guerra legittima, perché difensiva, già sostenuta dalla teologia medievale, e particolarmente da San Tommaso d’Aquino, ma con due ulteriori estensioni: che si possa uccidere o far guerra anche solo per difendere la proprietà (quindi, oltrepassando la norma della proporzionalità tra offesa ingiusta e legittima difesa); e che la “ragionevolezza” dell’uomo non si spinga fino a tollerare alcun attentato alle sue ricchezze, non importa come accumulate.
È strano che Locke, così attento e perfino pignolo quando si tratta di enumerare i diritti naturali dell’uomo, ivi incluso quello della proprietà privata, si mostri così vago quando si tratta di doveri, a cominciare da quello di adoperare i propri beni in un modo che non rechi danno altrui.
Insomma, egli vede le cose sempre e solo dal punto di vista della borghesia in ascesa, delle compagnie commercianti inglesi lanciate alla conquista del globo terracqueo, magari passando sopra la libertà e i diritti “naturali” dei popoli indigeni, compreso il loro diritto alla vita (creature inferiori anch’esse?); mai dal punto di vista di chi subisce gli effetti negativi dell’accumulo del capitale e della estensione illimitata della proprietà privata.
Che cosa ha da dire ai contadini inglesi, vittime del sistema delle “enclosures”, impoveriti e sradicati dalla campagna, costretti a cercare un lavoro qualsiasi, anche sottopagato, nelle città sovraffollate, in condizioni durissime ed esposti al doppio dramma della deculturazione e della disgregazione familiare?
Che cosa ha da dire ai contadini irlandesi vittime, in casa propria di una feroce repressione, spogliati della terra e sottomessi da una classe di proprietari che si comportano come in paese di conquista e il cui profondo disprezzo discende anche da motivazioni di ordine religioso e razziale, trattandosi di «portare la civiltà» a dei rozzi e primitivi “papisti” gaelici?
Meno di un secolo dopo, le condanne a morte comminate dallo Stato contro i luddisti che danneggiano le tessitrici meccaniche, per difendere il proprio diritto alla sopravvivenza, da un lato; e le “gloriose” imprese del generale Bannock, che fa distribuire delle coperte infettate col vaiolo agli Indiani del Nord America, dall’altro, mostreranno come il potere politico inglese abbia fatto tesoro dei principî liberali espressi da Locke con tanta enfasi e con tanto zelo.
Non attentavano forse, sia i luddisti che i pellerossa, al sacro principio della proprietà privata? E non era dunque legittima una lotta senza quartiere contro di essi?
L’intolleranza dell’Antico Testamento unita alla brutalità del capitalismo che non accetta ostacoli nella sua corsa al profitto: ci sono entrambe le cose nel pensiero politico di Locke, unite all’ipocrisia di un liberalismo a senso unico, che tutela solo gli umani; fra gli umani, solo gli europei, preferibilmente anglosassoni; e, fra questi ultimi, solo i proprietari, che hanno dei beni da difendere e, quindi, tutto da perdere da una estensione del concetto di “eguaglianza”, o anche solo di “giustizia”, al di fuori dei limiti che la ragione, a giudizio di Locke, avrebbe stabilito “per natura”.

«E perché tutti gli uomini possano essere trattenuti dall’invadere i diritti degli altri e al recarsi danno l’un l’altro, e perché sia osservata la legge di natura, che vuol mantenere la pace e la conservazione di tutta l’umanità, l’esecuzione della legge di natura  è, in questo stato, posta nelle mani di ciascun uomo, per cui ognuno ha diritto di punire i trasgressori di quella legge in un grado tale che possa impedire la sua violazione. E infatti la legge di natura, come tutte le altre leggi che riguardano gli uomini in questo mondo, sarebbe inutile, se non ci fosse nessuno che nello stato di natura avesse il potere di eseguirla, e perciò di salvaguardare l’innocente ed i reprimere gli offensori. […]»

Ragionamento singolarmente ellittico.
C’è, dice Locke, una legge di natura, e questa legge è conforme a ragione: essa stabilisce che tutti gli uomini sono uguali nei diritti e che nessuno ha il diritto di prevaricare. Però, di fatto, la prevaricazione esiste ed è frequente: per cui la stessa legge di natura sarebbe perfettamente inutile, se non  vi fosse chi la faccia rispettare. Ebbene, a farla rispettare può essere chiunque, purché agisca secondo il diritto di natura: ossia per difendere il debole minacciato e l’innocente conculcato, e per reprimere il prepotente che aggredisce e spoglia gli altri uomini.
Ma che razza di legge è, una legge che deve continuamente essere difesa contro le sue violazioni? Come fa ad essere una legge di natura, se viene continuamente disattesa?
E, soprattutto: chi stabilisce quando uno esercita la violenza per legittima difesa e quando, invece, per la smania di sopraffare il prossimo?
Perché la cosa non è sempre evidente, tutt’altro. Non esiste forse, al contrario, una evidentissima tendenza degli uomini a stabilire, a posteriori, che il vincitore ha agito per difendere il proprio buon diritto, o per tutelare quello del vicino minacciato; mentre lo sconfitto aveva agito per offendere ingiustamente? Quando mai si è visto il vincitore farsi l’autocritica e riconoscere di aver avuto torto; e quando mai lo si vede rendere giustizia allo sconfitto, ammettendo che egli lottava per delle valide ragioni?
Eppure, Locke non si perita di asserire, con il tono più fermo, il buon diritto dello Stato a muovere guerra contro chiunque attenti ai sacrosanti diritti della civile convivenza e - di questo non si dimentica mai - della proprietà privata:

«Lo stato di guerra è uno stato di ostilità e di distruzione. Perciò chi dichiara con la parola o con l’azione un progetto, non passionale e precipitato, ma calmo e determinato, sulla vita di un altro uomo, si pone in uno stato di guerra nei confronti di colui contro il quale ha dichiarato un’intenzione di questo genere, e così ha esposto la propria vita al potere di un altro, perché essa può essere eliminata dalla persona con la quale è entrato in ostilità o da chiunque altro si sia unito con lui nella sua difesa e ne abbia sposato la causa: infatti è ragionevole e giusto che io abbia il diritto di distruggere ciò che mi minaccia di distruzione.»

Francamente, ci si aspetterebbe qualche cosa di più, da un filosofo, di questi ipocriti pensierini foderati di buone intenzioni e totalmente autoreferenziali, ove - guarda caso - si teorizza esplicitamente  che il giudice e il boia siano la stessa persona; e, quel che è peggio, che chiunque, purché vesta i panni del liberalismo, ha il diritto di autonominarsi giudice e boia: giudice per condannare le azioni altrui, boia per reprimerle, fino alla distruzione del “nemico”.
E qui sta tutta l’ipocrisia della filosofia politica di Locke.
Egli cerca dei pretesti per contrabbandare lo stato di diritto come una condizione che autorizza chiunque ad appuntarsi da se medesimo la stella di sceriffo sul petto e di far giustizia per sé e per i suoi simili, ammazzando i “cattivi” che attentano all’ordine stabilito dalle leggi di natura, ossia dalla ragione.
Nella sua tetragona convinzione di essere dalla parte del giusto, nella sua rocciosa certezza di interpretare la verità, Locke non sembra nemmeno sfiorato dall’idea che la sua sia soltanto una operazione ideologica, nel senso peggiore del termine: fornire una giustificazione filosofica a qualunque azione e, se necessario, a qualunque eccesso, nei confronti di chiunque non sia disposto ad inchinarsi davanti alla “verità manifesta” del liberalismo e del capitalismo.
Anche condannare alla forca un padre di famiglia che ha danneggiato una macchina.
Anche distribuire coperte intrise di vaiolo agli ignari pellerossa.
Anche muovere guerra a uno Stato sovrano mentendo e manipolando la verità dei fatti, ad esempio inventandosi che quello Stato possiede terribili armi di distruzione di massa.
Anche bombardare con i droni un villaggio afghano, uccidendo innumerevoli innocenti.
E l’ipocrisia è figlia di una premessa ben precisa: che lo stato di natura corrisponda a ragione. Perché, se è così, allora diventa “ragionevole” distruggere, con qualunque mezzo, chi attenti a codesto stato di natura.
Si tratta di un’operazione non solamente lecita, ma pienamente giustificata e persino meritoria, in quanto ispirata all’ideologia del progresso.
Pertanto, bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, di una guerra illimitata contro tutto ciò e contro tutti coloro i quali, in un modo o nell’altro, anche per il solo fatto di vivere secondo modelli estranei all’ideologia del progresso, costituiscono un ostacolo alla sua espansione.
Che colpa avevano gli aborigeni australiani, votati allo sterminio sistematico, se non quella di costituire uno ostacolo al “progresso”, ossia all’introduzione dei grandi allevamenti ovini da parte dei coloni britannici?
Il progresso è un dio esigente e terribile e, soprattutto, ferocemente geloso, molto simile a quello dell’Antico Testamento.
La macchina è progresso, rispetto al telaio domestico; la colonizzazione europea degli altri continenti è progresso, rispetto alla barbarica arretratezza dei popoli indigeni; la democrazia è progresso, rispetto ai sistemi politici dittatoriali o rispetto ai sistemi sociali tradizionali.
Precorrendo l’Illuminismo, l’ottimismo della filosofia politica di Locke è  la naturale espressione di una fiducia totale nel progresso illimitato.
Che il partito Whig, protagonista della «Glorious Revolution», fosse il partito della borghesia commerciale e imprenditoriale, tutta protesa a fare dell’Inghilterra e del mondo il teatro delle proprie “magnifiche sorti e progressive”, è, ovviamente, un particolare del tutto secondario e incidentale.
Perché Locke era troppo gran filosofo e troppo signore per adorare banalmente l’esistente o per intonare un peana ai vincitori del momento: i proprietari delle banche, delle compagnie commerciali e, fra poco, delle macchine industriali.
O no?