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Sufismo e Taoismo

di Claudio Lanzi - 26/11/2010



 

 
Questo è forse uno dei testi più importanti di Izutsu, uno dei massimi studiosi delle due grandiose correnti meta-filosofiche d’oriente e d’occidente.
Il testo è brillantemente curato da Alberto de Luca e si avvale di una prefazione di Giangiorgio Pasqualotto che inquadra il pensiero e la originale figura di Izutsu in poche pagine di rara efficacia.
In effetti, per lo meno in Italia, Izutsu, uno dei massimi esponenti della storia della filosofia e della religione a livello mondiale scomparso nel 1993, è assai poco conosciuto. Si tratta di uno di quei “fenomeni” culturali che potremmo paragonare forse al nostro Filippani Ronconi, conoscitori di una spropositata quantità di lingue, tra le quali l’arabo, il sanscrito, il greco antico, oltre ovviamente al cinese, al giapponese e ad una ventina di lingue moderne, fra occidentali e orientali. Tale conoscenza ha consentito a questo accanito e profondo studioso delle forme antiche di pensiero, l’accesso “diretto” ad una immensa quantità di testi, senza la mediazione di traduzioni che spesso snaturano o interpretano gli originali. Ma la figura di Izutsu si distingue fortemente da quella di tanti altri studiosi, soprattutto per il suo approccio “metastorico”, e metafilosofico, come correttamente lui stesso si impegna a spiegare.
Izutsu non si è fatto assolutamente condizionare da quella posizione laica e moderna che tenta di inscatolare costantemente anche il pensiero filosofico nei confini della razionalità, come quello “zen” o quello taoista o quello sufi, in un approccio “neutrale” e positivista, ma non ha mai temuto di affrontare l’”oltre”, spiegando nei termini filosofici consentiti dal linguaggio, ciò che dei colossi come Lao Tzu o Ibn Arabi hanno spesso mediato “sotto il velame delli versi strani”
Izutsu delinea i contorni di una “metafilosofia”, definendone la semantica per rendere possibile una comparazione tra filosofie con differenti origini storiche. In tale coraggiosa avventura partecipa, più o meno volontariamente, a “sdoganare” il pensiero di Guénon, di Corbin o di tutti coloro che hanno parlato di una “Philosofia perennis” o di una “Religio perennis”, da quell’ostracismo (e provincialismo) accademico, che ha sempre avuto grandi difficoltà nel digerire una “mistica” all’interno di una filosofia (o se vogliamo un “sovrarazionale” al di la di un “razionale”).
In questo testo (540 pagine) Isutzu esamina il pensiero taoista di Lao Tzu e di ChuangTzu, confrontandolo con i principi ontologici di Ibn’ Arabi (l’opera principale di riferimento sarà “I Castoni della Saggezza”, ovvero i Fusùs al Hikam) e con i commenti di al Qashani.
I due assunti principali messi a confronto sono: l’Assoluto (o la Verità, o la Realtà, in Ibn ‘Arabi detto al-haqq) messo a confronto con il Tao; e l’Uomo Perfetto (per Ibn ‘Arabi detto al.insàn al kàmil) confrontato con l’Uomo Sacro o Santo (shèng jèn per il Taoismo).
In tale opera di confronto Isutzu mette in evidenza una incredibile quantità di similitudini rispetto alla concezione dell’”essere”.
Vogliamo estrapolare due citazioni di Isutzu. La prima tratta appunto dai “Castoni” :
Gli uomini sono addormentati (in questo mondo); solo al momento della morte si svegliano”…
Il mondo è illusione, esso non ha esistenza reale e questo è quello che s’intende per “immaginazione” (khayàl). Perciò tu immagini che esso (il mondo) sia una realtà autonoma, del tutto diversa e indipendente dalla realtà assoluta, mentre in verità, non è nulla di tutto ciò: Sappi che perfino tu stesso altro non sei che immaginazione. Tutto ciò che percepisci e che discrimini con le parole “quello è altro da me” è anch’esso immaginazione. L’intero mondo dell’esistenza è quindi immaginazione nell’immaginazione”
A questo punto scatta ovviamente il problema di “come svegliarsi” e se sia possibile che questo accada e dove vada cercata quella “Realtà” assoluta nascosta nel Sogno.
Passando a Chuang Tzù, Isutzu cita questa straordinaria “storia”
“Un uomo beve vino, in sogno e, piange e al mattino (al suo risveglio) geme. Un uomo piange in un (triste) sogno ma al mattino si leva e va a caccia gioiosamente. Mentre sta dormendo egli non è conscio di star sognando; egli prova anche (nel sonno) ad interpretare il suo sogno. Solo allorché si desta dal sonno egli realizza di aver sognato. Analogamente, solo quando sperimenta un Grande Risveglio, si realizza che tutto questo non è altro che un grande sogno. Ma gli sciocchi immaginano di essere effettivamente svegli. Illusi dalla loro meschina intelligenza, costoro si considerano sufficientemente capaci di valutare ciò che è nobile da ciò che è ignobile. Quanto profonda ed irrimediabile la loro stupidità.
In realtà, invece, tu ed io siamo sogni. Si, il fatto stesso che io ti stia dicendo che tu stai sognando è anch’esso un sogno!
Questo genere di affermazione rischia di essere classificato come bizzarro sofisma (ma così appare propriamente perché rivela la verità), ed un grande saggio, in grado di penetrarne il mistero, possiamo aspettarci in questo mondo ogni diecimila anni.”
 
Abbiamo estratto queste due citazioni dal libro di Isutzu, non perché siano assolutamente esaustive della vastità dei temi trattati ma perché, a nostro avviso, costituiscono il punto di partenza di quella che, mediando dal buddismo, ci permettiamo di definire “dottrina del risveglio”.
 
Sia nel Sufismo come nel taoismo per raggiungere il “centro” di se è necessario fermare l’attitudine “centrifuga” della mente e portarla a sprofondare, ad implodere in se stessa. Ovviamente sia in una dottrina che nell’altra viene proposta una “metodologia”. Metodologia che non va confusa con il conseguimento stesso. Proprio per questo è interessante il confronto che Isutzu propone fra i tre “stadi” di “purificazione” proposti sia da Chuang Tzù che da Ibn’Arabi, che pervengono ad una illuminazione in cui tutti i livelli di realtà “relativa” vengono riunificati nell’unità della non coscienza. L’Uno metafisico, per l’Uomo Perfetto del Taoismo e del Sufismo, testimonia e riflette nella mente pacificata, il mondo fenomenico policromo (o i Nomi della Realtà) senza mai esserne turbato.
Il “Mistero dei Misteri”, sia nel sufismo che nel Taoismo appare quale fondamento dell’Esistenza. E’ qualcosa che, per Ibn ‘Arabi, trascende ogni qualificazione concepibile. E’ trascendente e perciò inconoscibile. Per tale ragione la definizione di tale stadio di Esistenza, soprattutto nel taoismo è in negativo (in modo analogo a quanto svolto dall’apofatismo vedantino o anche dalla mistica cristiana, soprattutto renana).
L’Esistenza, in tale ottica, appare quale frutto del lavoro incessante della “Via”, che “soffia” costantemente la sua necessità di “portare all’esistenza il mondo”. Tale atto, rileva Izutsu sembra, totalmente privo di misericordia nella visione taoista mentre sembra animato da una “benevola elargizione” da parte del Sufismo. Izutsu fa invece notare come trattarsi, in entrambi i casi, di una Misericordia ontologica assolutamente gratuita, coincidente con la incessante attività creativa dell’esistenza, assolutamente svincolata dal raggiungimento di uno scopo umanamente ed emozionalmente comprensibile. L’emozione umana risulterebbe un limite ala imparzialità divina. L’assoluta imparzialità divina si estende perciò ad una dimensione al di la della conoscenza del bene e del male. Cioè ad una condizione che, in una metafisica cristiana, potremmo definire “pre-edenica”.
Riportiamo l’efficace considerazione con cui si chiude il testo di Izutsu:
“E’ degno di nota che, né nel Sufismo né nel Taoismo, la discesa ontologica dal Mistero dei Misteri allo stadio delle cose fenomeniche, è posta a rappresentare il compimento finale dell’attività dell’esistenza. La discesa è seguita dal suo opposto, cioè l’ascesa. I “diecimila esseri” fioriscono rigogliosamente all’ultimo stadio del corso discendente, per prendere quindi un corso ascendente verso la loro fonte primigenia, fino a scomparire nell’originale oscurità, trovando il loro luogo di pace nella tranquillità cosmica pre-fenomenica. L’intero processo della creazione forma dunque un immenso cerchio ontologico, in cui non è dato in realtà un punto iniziale e finale. Il movimento da uno stadio all’altro, considerato in sé, è certamente fenomeno temporale ma l’intero cerchio, non avendo punto iniziale né finale, costituisce un fenomeno trans-temporale o atemporale: è, in altre parole, un processo metafisico. Ogni cosa è attuale in un eterno presente.”