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Solo conti e moneta per l'Unione Europea

di Roberto Zavaglia - 28/11/2010

Il primo luglio 2005, il noto editorialista del “New York Times” Thomas Friedman rivolse un severo monito a quelli che l’Amministrazione Bush definiva i Paesi della “vecchia Europa”: “trasformarsi in Irlanda o trasformarsi in museo”. Il modello della “tigre celtica” veniva additato ad esempio dagli economisti di entrambe le sponde dell’Atlantico come soluzione per liberarsi dei “ritardi” che impedivano una crescita sostenuta nel Vecchio Continente.
  Effettivamente, il “miracolo irlandese” proponeva dei dati stupefacenti per un Paese da sempre periferico rispetto ai più importanti flussi economici. In 10 anni, dal 1994 al 2004, il Pil era cresciuto del 7% all’anno, il doppio che negli Usa e il triplo rispetto alla zona euro. Una parte di questo risultato era dovuto alla bassa aliquota di tassazione societaria (12,5%) che aveva attirato nell’isola un grande numero di aziende straniere. Per favorire la crescita il governo aveva anche incentivato lo sviluppo del credito, la “creatività” delle banche e, soprattutto, il settore immobiliare che era andato perdendo il rapporto con la domanda reale per divenire anch’esso uno strumento speculativo.
  Come è andata a finire lo si legge sui quotidiani in questi giorni, con il governo che ha appena varato una sanguinosa manovra quadriennale di 15 miliardi di euri, onde ottenere gli 85-90 miliardi di prestito messi sul piatto dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario per salvare l’economia irlandese. O per meglio dire il suo sistema bancario. La scure si abbatterà sulla spesa pubblica attraverso la riduzione delle pensioni, la diminuzione degli stipendi per i nuovi assunti e il licenziamento di 24.750 dipendenti statali. Le tasse, invece, saranno aumentate, ma rimarrà invariata la “corporate tax” al 12,5%. Tempi grami dunque per i cittadini dell’isola verde: speriamo almeno che i sacrifici servano a qualcosa. C’era stata già, infatti, una prima consistente porzione di tagli che, il 10 maggio scorso, aveva fatto scrivere al Financial Times, la Bibbia del liberismo anglossassone, che “se l’Irlanda non avesse agito come ha fatto, avrebbe potuto finire come la Grecia”. E’ finita quasi peggio…
  E’ difficile capire come, limitandosi a togliere denaro alla gente e ad aumentarle le tasse, i consumi possano crescere, ma questi sono misteri della fede liberista nella quale, come diceva l’apologeta cristiano Tertulliano, bisogna credere “quia absurdum”.  La situazione, per l’euro, è nera e ci si chiede quale sarà la prossima vittima. Molto probabilmente il Portogallo, seguito a ruota dalla Spagna e, poi, si teme, dall’Italia, anche se la relativa solidità delle nostre banche e il forte  risparmio privato ci concedono un po’ di speranza. I conti di molti Stati sono messi davvero male, ma la speculazione che si abbatte su quei Paesi non è forse del tutto spontanea. Secondo alcuni osservatori, una parte della grande finanza starebbe mettendo in atto, complici le solite agenzie di rating, una manovra per affossare l’euro, spostando così ingenti capitali verso gli Usa, in modo da finanziarne il deficit fuori controllo.
  Ci troviamo in una fase decisiva per la moneta comune e, forse, per la stessa Unione Europea, che rischiano, se non di scomparire, di venire almeno drasticamente ridimensionate. Non a caso un politico noto per la sua cautela, come il presidente della Ue Van Rompuy, ha dichiarato che “stiamo fronteggiando una crisi per la nostra sopravvivenza”.  Servirebbe, adesso, una forte volontà politica per mettere un freno alla speculazione e dare un sonoro segnale di riscossa. Purtroppo, il Paese che, solo, avrebbe la forza per dare il là alla reazione non sembra averne voglia. La Germania, ormai da un pezzo, ha disattivato il motore franco-tedesco che faceva muovere l’Unione. Mentre Parigi, in modo contraddittorio e non senza velleità di grandeur nazionale, prova ancora a spingere per compiere un passo in avanti, ponendo sul tavolo il progetto di un almeno parziale governo economico europeo, Berlino si accontenta di provvedimenti tampone, concessi per altro con sussiego e ostentata malavoglia.
  La Merkel, in qualche occasione, ha dato addirittura l’impressione di soffiare sul fuoco della speculazione, come quando ha ritardato, anche per l’imminenza delle elezioni nel land Nord Reno-Westfalia, la concessione dei prestiti alla Grecia. Pure le ripetute richieste di questi giorni della cancelliera, per introdurre nei Trattati la possibilità che uno Stato dell’eurozona possa andare in default, con le conseguenti ricadute sui possessori dei relativi titoli, non devono avere contribuito a tranquillizzare i mercati. Non sono più ormai solo i diffusissimi quotidiani popolari tedeschi a dire apertamente che la Germania è stufa di fungere da bancomat per le nazioni sprecone, incapaci e, talvolta, come la Grecia, pure un po’ bugiarde. Con toni meno aggressivi, sono numerosi i politici a  compiacere l’elettorato, dichiarando che la solidarietà comunitaria ha un limite e che chi non sa mantenere i conti in ordine deve essere abbandonato alla sua sorte.
  Ai tedeschi non piace però ricordare che, pur in assenza di una crisi finanziaria come quella odierna, hanno infranto anch’essi, qualche anno fa, i parametri di Maastricht su deficit e debito pubblico, per pagare i costi della riunificazione. Né, a Berlino, si tiene conto che è stata forse la Germania a beneficiare maggiormente dell’introduzione della moneta comune. E’ infatti  consistente l’aumento delle sue esportazioni nei Paesi dell’area euro incapaci di reggere la concorrenza delle sue produzioni, una volta privati della possibilità di manovrare i cambi. In Germania si vive piuttosto bene, almeno in rapporto agli altri Paesi europei, e i tedeschi si dimostrano gelosi della propria prosperità. I disoccupati, tra il 2005 e il 2010, sono diminuiti da cinque a tre milioni, con un forte crescita di impieghi soprattutto nelle regioni della ex Rdt che hanno quasi raggiunto il Pil dell’Ovest.
  Il processo di riunificazione, nonostante permangano alcuni problemi, si può dire riuscito e ciò va ascritto a merito del civismo e della laboriosità dei tedeschi. Il successo ha risvegliato il patriottismo dei cittadini, facendo forse terminare finalmente il  “passato che non passa” hitleriano. In politica estera la Germania sperimenta una nuova “assertività” che si è palesata, per esempio, nell’opposizione all’invasione dell’Iraq e, recentemente, nelle critiche, simili a quelle della Cina, verso la politica economica Usa, nel corso del G20 di Seul. Ma c’un altro tabù storico che non passa: quello della Repubblica di Weimar con la sua iperinflazione. Helmut Kohl, uno dei pochi grandi capi politici europei della seconda metà del Novecento, intendeva “costruire una Germania europea e non un’Europa germanica”. Cogliendo senza tentennamenti l’occasione della riunificazione e concedendo, nel contempo, di sciogliere il marco (simbolo della nazione nel dopoguerra) nella moneta comune, si dimostrò un patriota tedesco ed un europeo valoroso. La Germania, però, interpreta l’euro come un marco esteso a tutto il continente, vedendo nell’unione economica solo un mercato in cui sia tutelata rigorosamente la stabilità dei prezzi e l’indipendenza della Banca centrale.
  Forse, la Germania odierna è troppo grande per l’Unione Europea, il cui rafforzamento non le interessa più, perché crede di avere già ottenuto quanto le serve. Entro la fine dell’anno prossimo, la Cina supererà forse la Francia come partner commerciale di Berlino. E’ un dato che dimostra come sia naturale, in qualche modo, che i tedeschi guardino non solo all’Europa ma al mondo intero. Gli stretti rapporti economici ed energetici con la Russia vanno in questa direzione.  Meno giustificabile è che la Germania, pur di accrescere le sue già enormi esportazioni, anche a scapito dei consumi interni, non si preoccupi minimamente di concorrere a provocare recessione negli altri Paesi europei. E’ augurabile che si tratti solo di un temporaneo raffreddamento del rapporto. Perché l’unione continentale senza la Germania non può esistere e i tedeschi si fanno talvolta del male quando non tengono conto dell’Europa.