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Esiste una identità veneta? E, se sì, in che cosa consiste?

di Francesco Lamendola - 30/11/2010


È da poco che gli Italiani hanno scoperto il Veneto.

Prima, di esso conoscevano solamente una serie di luoghi comuni e di banalissimi stereotipi, aventi un elemento in comune: la laboriosità e, al tempo stesso, l’ingenuità dei Veneti; ma le due caratteristiche erano percepite come complementari: tanto laboriosi da diventare facilmente “fessi”, cioè preda di qualcuno più scaltro e smaliziato.

Poi è arrivato il “boom” del Nordest, fra gli anni Settanta e Ottanta, vale a dire con un buon ventennio di ritardo su quell’altro “boom” che aveva traghettato l’Italia nella modernità, quello del Nordovest. Solo che in quel caso, la manodopera necessaria al decollo del Triangolo industriale era stata fornita dai contadini meridionali immigrati a Milano, Torino e Genova; questa volta, invece, era stata fornita “in loco”, dalle stesse comunità e dalle stesse famiglie che avevano messo in piedi un’azienda agile e intraprendente, giocando d’inventiva e riducendo le spese per i magazzini a costo zero, mediante un massiccio utilizzo del trasporto su ruota (mentre il primo “boom” si era basato sul trasporto mediante rotaia).

L’Italia era rimasta stupita, ammirata e segretamente invidiosa: ma come, erano proprio questi quei poveretti che per decenni il cinema e le barzellette avevano sfottuto; quei contadini ultracattolici, un po’ tonti, gran lavoratori ma senza fantasia e senza iniziativa, quelle eterne servette che andavano a servizio dai “signori” di città? E adesso costoro avevano messo su un modello industriale “leggero”, territorialmente diffuso e alternativo alle grandi concentrazioni del Triangolo del Nordovest, e perfino maggiormente competitivo rispetto ad esse? Ed erano diventati la “locomotiva” d’Italia, i principali sovvenzionatori dell’economia nazionale, i principali contribuenti del gettito fiscale, i più efficienti e virtuosi nelle pubbliche amministrazioni?

Alle prese, però, con una concorrenza internazionale spietata, sul modello cinese, e con gli effetti della crisi finanziaria ed economica mondiale, anche il “miracolo” del Nordest ha mostrato tutte le sue fragilità, tutta la pericolosa improvvisazione delle sue basi; e, come prima cosa, è stato costretto a far ricorso in misura esponenziale alla manodopera straniera poco qualificata, provocando pericolosi contraccolpi: primo fra tutti, l’abbassamento del costo del lavoro, la disinvolta trascuratezza delle norme di sicurezza sul lavoro e sulle strade (settori nei quali il Veneto detiene il poco invidiabile primato della mortalità), l’ulteriore concorrenza al piccolo commercio a conduzione familiare , nonché una serie di malumori e di tensioni sociali dovute alla difficoltà di assimilare una popolazione straniera insediatasi massicciamente in pochi anni e che ormai si aggira, in taluni comuni, intorno al 10 e anche al 12% di quella totale.

Questo senza tener conto del pazzesco aumento del traffico stradale, della continua, incessante cementificazione del territorio, dei livelli sempre più alti di inquinamento e di malattie ad esso riconducibili (tumori compresi), del degrado del patrimonio naturale, cultuale ed artistico, nonché di un certo impoverimento spirituale che, se non è  ovviamente misurabile in termini oggettivi, incide tuttavia non poco sulla qualità della vita, come è confermato anche dalle statistiche in aumento relative all’abuso dell’alcool e del tabacco o all’uso di droghe, alle malattie depressive, ai suicidi o tentati suicidi; per non parlare del vertiginoso aumento della criminalità, dei delitti all’interno della cerchia familiare, della sensazione di insicurezza e di paura che spinge le persone a rinchiudersi in casa, specialmente la sera (perfino nel pieno dei centri cittadini avvengono stupri o rapine, talvolta anche in pieno giorno).

Ad ogni modo, quando era ancora in piena crescita la “locomotiva” del Nordest - perché non si dimentichi che, accanto al Veneto, marciavano a tutta velocità anche le due vicine regioni con il vantaggio dello statuto speciale, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, più piccole ma altrettanto intraprendenti - questa parte della nazione ha incominciato a prendere consapevolezza del ruolo da protagonista ormai assunto e si è data una forte rappresentanza politica, tale da influenzare gli assetti dell’intero sistema nazionale dei partiti.

Ora anche quei tempi sono già quasi un malinconico ricordo, con la Lega Nord che ha deluso moltissimi simpatizzanti, non avendo saputo tradurre in realtà quasi nessuna delle molte promesse fatte, dagli sgravi fiscali alle aziende, al sostegno delle famiglie - e tuttavia quell’esperienza ha lasciato una traccia profonda, dalla quale non si potrà prescindere in futuro, qualunque cosa accada: avendo preso coscienza di se stessi, i Veneti non ritorneranno più a recitare la parte dei comprimari, buoni lavoratori ma sostanzialmente manipolabili.

La loro reazione piccata alla scarsa attenzione dei media, nei primi giorni delle alluvioni delle settimane scorse, che hanno colpito soprattutto le province di Padova e Vicenza (con il viaggio-lampo di Berlusconi e Bossi per far vedere che loro “ci sono” e non sottovalutano i problemi di quelle aziende e di quelle popolazioni), dimostra che hanno sviluppato un sentimento identitario abbastanza forte da far percepire come un sopruso la distrazione del resto d’Italia nei confronti dei loro problemi, anche per la fiera consapevolezza di aver dato molto, fino ad oggi, all’insieme del Paese.

Tutto questo ci riconduce a una semplice, ma non scontata domanda di fondo: si può parlare di una specifica identità veneta, come di una identità di tipo “nazionale”?

Alla quale segue, necessariamente, quest’altra: se sì, in che cosa essa consisterebbe, in che cosa si rivela ed è chiaramente riconoscibile?

Se lo erano chiesti una trentina di intellettuali veneti, nel corso di una serie di conversazioni pubbliche che, nel 1998, aveva promosso il Consiglio Regionale, in collaborazione con sette comuni della regione (Adria, Castelfranco, Cittadella, Feltre, Legnago, Portogruaro, Valdagno): da Sabino Acquaviva a Ulderico Bernardi, da Ferdinando Camon a Giovanni Dusi, da Edoardo Pittalis a Fulvio Roiter.

Fra tutti quegli interventi, ci è sembrato di particolare attualità quello di un intellettuale schivo e intelligente, un giornalista che era un autentico uomo di cultura, il compianto Giorgio Lago, che con tanta chiarezza e umanità sapeva parlare ai suoi lettori dalle colonne de «Il Gazzettino»; e ci è parso che oggi, a dodici anni di distanza, valga ancora la pena di soffermarsi sulle sue riflessioni, le quali, semmai, hanno acquistato ancora più forza e attualità dall’evoluzione complessiva della società veneta, in questo primo scorcio del terzo millennio.

Ne scegliamo alcuni passaggi che ci sono parsi particolarmente stimolanti per sviluppare una ulteriore riflessione (da: «Identità veneta», a cura di Cesare De Michelis, Tascabili Marsilio/Giunta Regionale del Veneto, 1999, pp. 202-03):

 

«L’identità è mia, sento che sono io e che non potrei essere nient’altro da quello che sono. Potrebbe finire qui l’identità, senza ulteriori aggettivi. Un interno di persona, ma anche una identità recintata, che tiene il mio io murato vivo, un gioco tutto solitario, una forma di labirintismo esistenziale, senza via d’uscita. Aggrego l’aggettivo “veneta”, identità veneta appunto, e avverto che l’”idem” non è pi lo stesso. Non sono più mio, mi esproprio per così dire, l’identico esce all’aperto, si mete in relazione, va alla scoperta di un comune sentire, se ci sarà. L’identità diventa un sentimento plurale, la ricerca di un linguaggio, la nozione anche inafferrabile di tutta una serie di segni, come andare per piste allo stesso tempo battute e nuove, nuove per me, battute da generazioni. Come cantare in coro, tra nonni e figli.

A scanso di fraintendimenti, l’identità come la sento io  assomiglia un po’ a un’ideologia, ma del vivere. Un sistema di idee, di tradizioni, di suggestioni, di emozioni, di allusioni, anche di misteri, spesso di non-detto. Al contrario dell’ideologia, l’identità risulta però in larga misura inesprimibile come i sedimenti della vita. Qui non tento neppure di catalogare l’identità veneta, provo a raccontarla così come viene dal mio filtro. Dò testimonianza, non prova, meno che meno lezione. Soltanto appunti di un viaggio dentro.

Ogni mattina, dal quarto piano del mio condominio,apro fortunatamente le finestre sul Grappa, a pochi chilometri sull’orizzonte. Nel guardarlo, capisco benissimo , tra me e me, che cos’è l’identità veneta, mi basterebbe. Lo guardo ma non lo “vedo”, perché il mio guardare si realizza tutto con il pensiero, non con gli occhi. L’ultimo mio pensiero è estetico. Nemmeno naturalistico: mi dice poco o nulla sapere che il Grappa ha quattro milioni di anni, che è calcareo e carsico,, che ha una flora ricchissima, anche mediterranea, e, inaspettatamente, una fauna altrettanto ricca. Visto così, il Grappa mi apparirebbe come un habitat da conservare, abbastanza neutro rispetto all’identità veneta in sé.

Ma lo sguardo si fa ulteriore, legge in controluce, coglie il luogo della memoria: come se, a distanza, fosse possibile in quell’istante una topografia dell’anima. Sento che il Grappa è un’altra cosa allora, pensata, un luogo popolatissimo, paterno, di tante storie, e di un lungo silenzio interiore, guerra e pace, testimone di generazioni, magazzino di popolo, e del ricordo. Non un sentimento esclusivo dei veneti, visto che la ma identità mai esclude e recinta, ma che ai veneti parla naturalmente, senza mediazioni, facendo “riconoscere” il Grappa - che scelgo come unità di misura per il cumulo di storia e di storie che quasi lo annichilisce, una basilica a cielo aperto di ferite e di cultura, di incontro e di violenza, con i veneti a ospitare una tragedia nazionale a conservare ‘ultima smemorata identità. È un linguaggio muto l’identità, un intendersi al volo. Una carta d’identità che propone i segni particolari, insieme, secondo un codice Morse passato di mano per impulsi mai solitari. Per lo più dolorosi.

L’identità, lo dico soprattutto ai ragazzi, fugge la retorica, ne rappresenta il contrario. La retorica  artificio, ostentazione, anche gioco della mente, divertimento culturale. L’identità è bella piena come una mela, così poco astratta; è carica di materiali di risulta, di con-divisione, è poco ricamata, ha un doppio fondo. Ciò che emerge e ciò che è stato.

Se mangio polenta, alta una spanna come s’usava nel bellunese, non assumo un cibo, ma assaporo una civiltà sepolta, verri e propri graffiti veneti. Se cammino lungo un sentiero del Grappa, sento la mia zolla, una solida persistenza, un allenamento alla trasmissione di valori,, quali e da chi a chi è sempre più difficile capire ma che meritano la nostra fatica.»

 

Tutto questo, però, rischia di assomigliare sempre più a una voce che si perde nel deserto: il deserto del’indifferenza, dell’anonimità, di una alienante omologazione, tanto più abietta quanto più volontaria e scioccamente compiaciuta di sé.

Giorgio Lago era un gran signore dell’anima e, con la sua sensibilità, aveva saputo cogliere l’elemento essenziale dell’identità: qualcosa che non è esprimibile mediante il Logos razionale, ma che si sente a fior di pelle, che si vive nel cuore della propria anima, come profonda intesa e comunione con la propria terra, con la propria gente, con la propria tradizione, senza esclusione dell’altro, ma anche senza smemoratezza di sé.

Oggi, quanto più si diffonde il modello edonista e consumista del cosiddetto “benessere”; quanto più acquista forza un progresso che è soltanto materiale e che di nulla si cura se non del denaro e del modo in cui aumentarlo, un pericolo mortale minaccia l’identità veneta, così come tutte le identità che hanno imboccato troppo in fretta e troppo superficialmente le vie dello sviluppo puramente quantitativo: la perdita dell’anima.

Il Veneto non è più terra di emigranti, come lo era ancora due generazioni fa, anzi è diventato terra di immigrazione; non è più terra di contadini poveri e analfabeti, ma di numerosi piccoli imprenditori, di commercianti, di operatori di un terziario diffuso e sofisticato.

Ma sono diventati migliori?

Il loro senso di appartenenza, il loro legame con la terra e con gli antenati, si è rafforzato o si è indebolito, fino a sfilacciarsi completamente?

Il pericolo, dunque, é quello di un Veneto senza più Veneti; popolato, cioè, da persone senza radici, senza valori, senza il senso della memoria.

Non basta gridare “identità veneta” per fare l’identità veneta; anzi, quando si sente gridare, viene il sospetto che la cosa in sé si stia irrimediabilmente perdendo.

L’identità la si sussurra, come si sussurrano all’orecchio dell’amata le dolci parole d’amore; non la si sbandiera, perché è figlia del pudore e sorella della discrezione.

Giorgio Lago, quel signore, aveva intuito la minaccia e l’aveva denunciata con parole profetiche; così come, prima di lui, lo scrittore Guido Piovene (op. cit., pp. 210-11):

 

«…Un valore delicato, per niente monolitico, anzi prismatico, che persino all’interno del Veneto assume una ricchezza, spesso non abbastanza colta, di sfumature. È proprio questa levità veneta che dovrebbe aiutare i veneti a ragionare sull’identità con amore e garbo e ampiezza d’animo.

L’identità a me pare riflessiva. Più si sforza di cogliere “l’altro”, più coglie se stessa, più indaga sulla propria radice, più comprende altre radici. Oggi i confini on segnano la fine, ma l’inizio: i mondi non s chiudono al confine, ma ricominciano. Non può essere l’identità, nessuna, tanto meno la veneta a farsi confine.

L’identità è un bene prezioso, da curare. Senza, diventeremmo pazzi, straniti, sradicati; senza memoria calda, ciascuno ridotto a isola di sé, finiremmo tutti nel manicomio della globalizzazione. La globalizzazione cammina nonostante tutto; gli economisti le affidano un compito virtuoso; il mondo che si spalanca, uomini e merci che superano dogane e angosce, barriere che vanno pezzi, sviluppo che contagia, forse il detonatore di nuove fughe dal destino del sottosviluppo. Sarò questo, mi auguro.

Ma domando: ciascuno di noi, nel suo infinitesimo di mondo, nel suo microscopico “ubi consistam” esistenziale, nel suo barlume di partecipazione al globale, dove potrà fermare un suo punto di equilibrio tra l’infinitamente grande della comunicazione e l’infinitamente piccolo della persona? È importante chiedersi ora, subito, con quali strumenti vivere il “villaggio globale”, entità che considero il più clamoroso ossimoro mai inventato dal linguaggio. Villaggio, il micro, globale, il macro, dello stesso tempo, nello stesso luogo, allo stesso modo, con la stessa TV, gli stessi tic, le stesse mode, la stessa Coca-Cola, lo stesso smarrimento di fronte a una espressione indicibile come “villaggio globale”, terribile perché già banale.

Ho bisogno più che mai di qualcosa di non friabile, di misurabile. Lo dico per me, ma soprattutto pensando all’esperienza dei ragazzi, che dovrebbero guardare a noi - la mia generazione - non come ai padri, ma come ai bisnonni! A 61 anni mi sento trisavolo dei miei figli perché sulla nostra stagione, tra gli anni trenta e il duemila, si sono depositate ere non una vita. O, meglio, vite, faglie, rotture di stili, un radicale altro mondo, la scienza supersonica, tanti mondi repentini, che rendono noi inattuali, forse, felicemente eredi di noi stessi, con tre/ quattro generazioni dentro, allo stesso tempo testimoni e attori.

In un racconto dublinese di Joyce, si lamenta il secolo scettico rimpiangendo altri tempi, “tempi spaziosi” se ricordo bene. E tuttavia è preferibile sfuggire alla nostalgia, per tenere in pugno il senso dell’identità veneta: cambiare senza perdersi, pregare la vita, tenere un occhio di riserva sul sentiero che ci ha portati qui.

Tempi spaziosi, forse, non so, perduti o da reinventare, non so. Guido Piovene temeva una civiltà veneta consegnata a “ospiti occasionali, senza storia su un fondale storico. Noi”.»

 

Speriamo che queste brevi riflessioni portino un contributo alla riflessione sul senso e sul valore del concetto di identità, così come vorremmo poterlo trasmettere alle nuove generazioni.

Senza memoria non si costruisce nulla; né si può procedere, se non ricordando: perché i nostri passi verso il domani siano illuminati dai sacrifici e dagli sforzi generosi di quanti hanno percorso, prima di noi, le nostre stesse strade.

Se viene tolto questo, il cammino della vita diventa qualcosa di insensato, di assurdo, tanto per i singoli che per le comunità; non resterebbe che un caos aberrante, ove ognuno va brancolando, solitario e feroce, pestandosi i piedi a vicenda col proprio simile e nulla vedendo di ciò che sta oltre la punta del proprio naso.