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La filosofia riduzionista e i suoi disastri: dal giacinto d’acqua al pesce persico

di Francesco Lamendola - 01/12/2010




Una delle conseguenze più significative della cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo è stata, insieme all’avvento di un nuovo paradigma culturale basato sul razionalismo, sul meccanicismo e sulla manipolazione delle cose («sapere è potere», sentenziava Francis Bacon), la diffusione ora esplicita, ora strisciante, di una filosofia riduzionista, secondo la quale è possibile considerare la parte e agire su di essa indipendentemente dal tutto.
Non si tratta di una filosofia teorica alla quale si possano ricondurre, come per ogni altra filosofia, sviluppi positivi o negativi, a seconda di come li si voglia interpretare; perché i suoi effetti sono sempre e comunque negativi, se non nel’immediato, certamente nel medio e lungo periodo. E ciò per un duplice ordine di ragioni: teoriche e, appunto, pratiche.
Teoriche, perché qui ci troviamo di fronte ad uno dei pochi casi in cui si può oggettivamente giudicare, «sine ira et studio», che ci troviamo di fronte ad una filosofia erronea, cioè smentita non sul piano concettuale, il che è sempre opinabile, ma da tutta una lunga serie di fatti, di osservazioni e di risultanze scientifiche. E le applicazioni concrete di una filosofia sbagliata non possono che risultare di segno negativo.
Pratiche, perché la filosofia riduzionista, a differenza di altre, rivendica e pone al centro, per così dire, del proprio programma, l’opportunità, la liceità, finanche il dovere di intervenire sul piano pratico e operativo: è una filosofia della praxis per eccellenza; e, in tal senso, potremmo considerare il marxismo (la filosofia come strumento per “cambiare il mondo” e la lotta di classe come suo corollario, indipendentemente dalla considerazione della società quale un tutto organico, così come risulta dal celebre apologo di Menenio Agrippa sulle mani e sullo stomaco) come un tipico esempio di filosofia riduzionista.
Ebbene il riduzionismo è stato il maggior responsabile dell’errata impostazione del rapporto uomo-natura, sia all’interno del proprio stesso corpo (con la medicina riduzionista, largamente basata su farmaci di sintesi chimica, sulla radiumterapia e sulla chirurgia, oltre che con la cosiddetta ingegneria genetica), sia rispetto alla realtà esterna (interventi invasivi nell’ambiente naturale, impiego massiccio della chimica in agricoltura, produzione di organismi geneticamente modificati e perfino di chimere, creature basate sulla mescolanza del patrimonio genetico fra diverse specie vegetali e animali).
Al riduzionismo dobbiamo, per esempio, il disastro del Vajont, quando venne costruita una colossale diga ai piedi di una montagna soggetta a fenomeni franosi (lo dice perfino il nome: Monte Toc!), oppure l’essiccamento e la morte biologica del Lago d’Aral (cfr. il nostro precedente articolo:  «Come si uccide un mare interno in nome dello sviluppismo», sul sito di Arianna Editrice in data 07/11/2007).
Ma c’è un altro aspetto della questione da considerare, ossia il riduzionismo come nemico dichiarato della biodiversità e, quindi, come uno dei più potenti fattori di impoverimento delle specie viventi, con tutti gli effetti negativo che ciò inevitabilmente comporta, visto che la biodiversità è ormai unanimemente riconosciuta da tutti gli scienziati di ogni tendenza come il bene più prezioso da salvaguardare a livello ecologico.
Potremmo fare numerosissimi esempi di come la distruzione degli ecosistemi, e quindi la perdita della biodiversità, sia un effetto inevitabile della filosofia riduzionista applicata all’ambiente naturale; ma, per semplificare il discorso, ci limiteremo qui a tre esempi classici: il giacinto d’acqua nella Florida e alla foce del Mississippi, in Lousiana; la pianta giapponese denominata kudzu («Pueraria lobata») nella Georgia e in altre parti della fascia sudorientale degli Stati Uniti d’America (ma anche in alcune zone di casa nostra, ad esempio presso le rive del Lago Maggiore, che godono di un clima abbastanza simile) e il pesce persico nel Lago Vittoria, diviso fra Uganda, Kenya e Tanzania.
Cediamo la parola ad A. Zullini, A. Sparvoli e F. Sparvoli, «Corso di Biologia» (Bergamo, Edizioni Atlas, 2010, vol. , pp. 182-83):

«Tutti questi interventi [ossia l’inquinamento, la deforestazione, la cementificazione, l’eccessivo sfruttamento minerario e ittico] hanno come effetto la DISTRUZIONE DIRETTA DEGLI ECOSISTEMI attraverso la sottrazione o l’alterazione degli habitat, la scomparsa di specie che hanno un ruolo chiave nelle catene alimentari, la PERTURBAZIONE DEI CICLI BIOLOGICI. Il tutto, in ogni caso, si traduce in PERDITA DI BIODIVERSITÀ, a causa sia dell’eliminazione di numerose specie, sia del declino del numero di molte popolazioni di organismi che può avere come effetto la riduzione della variabilità genetica fino al punto di comprometterne la sopravivenza come specie.
Un’ulteriore causa di non trascurabile importanza, connessa all’intervento umano, che mette a rischio la biodiversità su un piano globale, è l’introduzione intenzionale o accidentale, nell’ambiente, di dio specie di piante o animali ALLOCTONE, cioè estranee alla comunità preesistente (AUTOCTONA). Spesso le specie introdotte nei nuovi habitat vi si installano con successo, con conseguenze che possono essere deleterie per l’equilibrio ecologico delle comunità locali: è ciò che è accaduto con l’importazione di bestiame in Africa e di conigli in Australia.
Si possono citare altri casi esemplari.
Uno si riferisce all’introduzione negli Stati Uniti (Louisiana e Florida) alla fine dell’Ottocento del GIACINTO D’’ACQUA, una pianta acquatica galleggiante originaria delle regioni tropicali del Sud America che presenta un’elevatissima velocità di crescita. La pianta si diffuse presto nei corsi d’acqua e invase laghi e stagni ricoprendoli interamente e impedendo alla luce di raggiungere le piante acquatiche indigene, che furono così decimate; la stessa sorte toccò alla fauna acquatica, in quanto le acque si impoverirono di ossigeno sottratto dalla decomposizione della enorme massa vegetale. Dopo molti sforzi per tenere sotto controllo la proliferazione del giacinto d’acqua las situazione è migliorata, ma in certi casi questa pianta invasiva può ancora creare un grosso ostacolo alla navigazione fluviale.
Un altro esempio riguarda una pianta rampicante giapponese nota come KUDZU, importata negli Stati Uniti negli anni Trenta del secolo scorso per uno scopo preciso: avendo un apparato radicale molto sviluppato, si pensava di impiegarla negli Stati sud-orientali per controllare l’erosione sulle colline e lungo le autostrade. La pianta, tuttavia, a causa della sua crescita veloce, del’assenza di agenti patogeni e della scarsa competizione da parte delle piante locali, ben presto dilagò fino a ricoprire ogni spazio in vaste aree, seppellendo il resto della vegetazione, alberi compresi. Il problema non è ancora stato del tutto risolto.
Degni di nota, infine, per il suo esito ecologicamente catastrofico, è il tentativo, compiuto negli anni Sessanta del secolo scorso, di introdurre nel lago Vittoria (Africa orientale), il PESCE PERSICO DEL NILO, una specie di grande taglia, che, si pensava, avrebbe ampliato le fonti di sussistenza alimentare delle popolazioni rivierasche. Il pesce persico è un predatore molto vorace e non trovando nella comunità lacustre alcun competitore che o contrastasse, sovvertì irreparabilmente le catene alimentare consolidate dell’ecosistema: così, nel giro di pochi decenni causò l’estinzione di oltre 200 specie endemiche di pesci che costituivano le sue prede. […]
A partire dalla seconda metà del XX secolo, gli effetti delle alterazioni arrecate al’ambiente a causa dell’impatto antropico hanno cominciato a manifestarsi nella loro crescente gravità; in particolare, hanno drammaticamente evidenziato lo stretto legame che esiste tra il destino della biosfera e la nostra stessa sopravivenza.»

Un altro tipico esempio di immissione sconsiderata di una specie animale fuori del suo habitat è quello del «Silurus glamis», noto comunemente come pesce siluro, introdotto nelle acque fluviali e lacustri di molti Paesi dell’Europa occidentale, in Inghilterra, in Scandinavia, e persino nell’Africa settentrionale e nell’Asia occidentale fino al Lago d’Aral, mentre esso è originario della rete fluviale dell’Europa centro-orientale.
In Italia la sua introduzione risale a circa mezzo secolo fa ed è stata dettata da ragioni legate alla pesca sportiva e all’interesse economico; ma ormai, con la sola eccezione - appunto - dei pescatori sportivi, si è giunti quasi unanimemente alla conclusione che sarebbe opportuna una sua totale eradicazione, specialmente dal bacino del Po.
Si tratta di un pesce di notevolissime dimensioni (lungo, in casi eccezionali, fino a 280 cm.), voracissimo predatore, che si pone al vertice della catena alimentare e che ha talmente soppiantato le specie indigene, da costituire ormai il 27% della biomassa del nostro fiume maggiore. Introdotto quando molte specie italiane, quali la tinca, il luccio e lo storione, erano in difficoltà a causa della canalizzazione e delle bonifiche, e quindi allorché gli ecosistemi fluviali erano in crisi per ragioni legate all’alterazione antropica, il pesce siluro si è diffuso enormemente, non trovando alcuna specie in grado di competere con esso, tanto più che il suo tasso di accrescimento è di molto superiore a quello dei pesci italiani.
La sua presenza nelle acque della Penisola,  e specialmente in quelle della Valle Padana, costituisce ormai il principale ostacolo alla loro auspicata rinaturalizzazione.
Anche in questo caso, chi ha fatto le spese di una introduzione invasiva di specie esotiche è stata la biodiversità. Si calcola che il pesce siluro sia divenuto la specie più rappresentata nelle acque del Po e di svariati altri fiumi non solo in termini percentuali della biomassa, ma anche come numero di individui; il che, dal punto di vista ecologico e particolarmente della tutela delle biodiversità, si può definire soltanto come una vera e propria catastrofe.
La leggerezza, per non dire l’incoscienza, con la quale è stato introdotto - oltretutto per ragioni quanto meno discutibili - dovrebbe insegnare una maggiore prudenza a quanti ritengono di poter trapiantare e reinsediare nuove specie vegetai e animali da una parte all’altra del globo, come se fosse la cosa più semplice del mondo e come se non vi fosse sempre, presto o tardi, un prezzo da pagare, dato che in natura ogni insediamento di nuove popolazioni in un dato territorio è il risultato di un adattamento secolare, se non addirittura millenario, che coinvolge tutte le altre specie ivi presenti, non di rado con esiti che, da principio, sarebbero apparsi imprevedibili.
Tutti questi esempi, e moltissimi altri che si potrebbero fare, a cominciare dal dramma ecologico delle Grandi Praterie nordamericane, la cui biodiversità è stata sacrificata dall’introduzione massiccia della monocultura cerealicola, non possono essere considerati semplicemente come la testimonianza di eventi sfortunati e di malaugurate circostanze, né attribuiti unicamente all’ignoranza o alla sottovalutazione dell’impatto ecologico derivante dall’introduzione artificiale di specie viventi esotiche.
Essi testimoniano piuttosto un diffuso atteggiamento di fondo della mentalità occidentale moderna, che è figlio della Rivoluzione scientifica del XVII secolo e particolarmente della formula faustiana di sir Francis Bacon, secondo la quale «sapere è potere»: ossia la conoscenza del mondo naturale deve trasformarsi immediatamente in disinvolta manipolazione di tutte le cose, a vantaggio esclusivo dell’uomo.
Ciò di cui la formula baconiana, che tanta fortuna ha fatto nei secoli seguenti e ne incontra ancora oggi, non tiene conto, è che l’uomo non può pensare di porsi al di fuori, e tanto meno al di sopra, del sistema della natura.
Della natura egli è parte integrante, al pari di ogni altro vivente; dalla natura dipende per soddisfare i suoi bisogni e per ogni sua necessità.
Dovrebbe pertanto essere intuitivo - e sorprende che ciò sia sfuggito a tante menti notevoli - che nessuna alterazione dell’ecosistema avviene senza conseguenze per l’uomo stesso, che di esso è parte e dal quale deriva le condizioni della sua sopravvivenza.
Questa dimenticanza la dice lunga sulla dismisura del pensiero moderno, tutto proiettato verso le logiche del dominio e della sopraffazione, ma così povero di capacità contemplativa, di compassione e di amore.