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I «quattro ’89» scandiscono la marcia della modernità verso il Nulla

di Francesco Lamendola - 05/12/2010




Corsi e ricorsi della storia, avrebbe forse detto Giambattista Vico, che fece in tempo a vederne uno soltanto, il primo.
1689: in febbraio, il Parlamento inglese elegge sovrani Guglielmo III d’Orange e sua moglie Maria II, sbarcati nel novembre precedente, mettendo in fuga il sovrano Giacomo II Stuart: è il momento culminante di quella che gli Inglesi si compiacciono di chiamare (ma di quante cose essi non si compiacciono, nella loro storia, dalla Magna Charta alla vittoria su Hitler e a quella sui generali argentini nella guerra per le Falkland/Malvine?) «the Glorious Revolution», «la Rivoluzione gloriosa».
1789: scoppio della Rivoluzione francese.
1889: Viene fondata, a Londra, la Seconda Internazionale dei lavoratori.
1989: cade il muro di Berlino e, con esso, cadono i regimi comunisti del patto di Varsavia, Unione Sovietica compresa.
Riassumendo: col primo ’89 nasce la monarchia costituzionale sul modello del pensiero liberale, teorizzato da John Locke; con il secondo, viene spazzato via l’Ancien Régime e la borghesia soppianta l’aristocrazia nell’egemonia mondiale; col terzo, sorge l’utopia di una società comunista senza sfruttati né sfruttatori; col quarto, quella stessa utopia cade nella polvere, sepolta sotto le macerie della propria vergogna, per non più rialzarsi.
Sembrano eventi diversi, staccati, indipendenti l’uno dall’altro: invece, a ben guardare, segnano le tappe fondamentali della vicenda politica della modernità: dall’enfasi della filosofia dei diritti - che si esprime nel «Bill of Rights», ossia nel Disegno di Legge sui Diritti, approvato dal Parlamento inglese nel 1689, all’inglorioso fallimento del “socialismo reale” che aveva sviluppato e portato fino ai limiti estremi il disegno di creare il paradiso in terra.
Solo ad un occhio distratto liberalismo e comunismo possono sembrare ideologie diverse e magari antitetiche; in realtà, esse sono le due facce di una stessa medaglia: l’individualismo esasperato e il socialismo forzato sono entrambi figli legittimi del pensiero politico di un mondo secolarizzato, tutto proteso a fare dell’uomo il Dio di se stesso e a forgiare gli strumenti “faustiani” per consentirgli di realizzare la «felicità» (come recita la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America):

«Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzare la sua sicurezza e la sua felicità.»

Stendiamo un velo pietoso sulla mostruosa ipocrisia di un simile documento, che parla del diritto innato alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, e intanto pratica lo sterminio degli indigeni e la schiavitù dei neri; e concentriamoci sulle conseguenze di una tale impostazione della politica, vista come «ricerca della felicità» (individuale) e non già, come volevano Platone e Aristotele, sulla ricerca del bene comune (che non è certo la stessa cosa).
Non è stata una follia oscurantista - come pure si vorrebbe far credere - quella che ha spinto Pio IX, nel «Sillabo», ad accomunare il liberalismo, il socialismo e il comunismo nella medesima condanna; né è stato un caso che le grandi democrazie liberali si siano trovate, nel 1941, ad allearsi con il regime staliniano in una guerra comune, le une al fianco dell’altro, per la conquista del dominio mondiale.
Alcuni filosofi della storia si erano già accorti della coincidenza di questi ’89, anche se, generalmente, la leggevano in chiave ottimistica e positiva; così Salvatore Veca - cui sfugge, per la verità, il primo di essi -, che, muovendo da un punto di vista illuminista e progressista, non può che celebrarli come altrettante tappe sul cammino delle “magnifiche sorti e progressive” (S. Veca, «Questioni di vita e conversazioni filosofiche», Milano, Rizzoli, 1991, pp.120-24):

«”I tre ‘89” è un’espressione a prima vista enigmatica e vaga. Tuttavia, essa evoca un’idea possibile di uno sviluppo, un percorso, complesso, tortuoso, fatto di speranze e di conflitti, di principi, di dottrine e di credenze politiche e morali, di aspirazioni e ideali e bisogni di uomini e donne, inaugurato dalla Dichiarazione dei Diritti (Parigi, 26 agosto) e scandito, un secolo dopo, dalla fondazione della Seconda Internazionale (ancora a Parigi, 14-21 luglio). Quest’ultima, dando forma di organizzazione e cittadinanza alle aspettative, ai bisogni e agli interessi di ampie, molto ampie, sezioni di popolazione escluse, ha generato la promessa della emancipazione socialista e essa, in tensione con la più remota promessa della emancipazione liberale, ha poi nel tempo come effetto - in questo angolo di mondo - l’invenzione, per prove ed errori, lotte e sofferenze, delle democrazie pluralistiche che ci sono contemporanee. Come ci è (stato) contemporaneo il terzo, straordinario, Ottantanove.
L’espressione “I tre ‘89” fa parte, in qualche modo, del ricorrente tentativo di uomini e donne riflessivi di trovare, ricostruire, interpretare, rintracciare un SENSO, se ve n’è uno, nel complicato labirinto delle vicende umane,  nel genesi del disegno delle costituzioni, nelle trasformazioni ella funzione della politica e nel fondamento della sua legittimità; infine, nel ruolo dell’azione collettiva e delle istituzioni giuste, per rendere certamente non perfette, ma semplicemente meno imperfette, migliori o, se vogliamo più decenti, le società cui ci è accaduto di avere una vita da vivere. Come filosofo, ritengo che questa vicenda possa essere identificata come la vicenda essenziale della MODERNITÀ. Ritengo, contrariamente alle tesi di molti teorici del postmoderno, che: 1) i principi dell’89, libertà, eguaglianza, fraternità, costituiscano tuttora il nucleo normativo, il grappolo di valori del progetto moderno, un progetto essenzialmente incom0piuto; 2) che questo grappolo di principi abbia generato e possa continuare a generare promesse dio società desiderabili, la cui prima virtù sia quella della giustizia; 3) che, alla luce dei dilemmi attuali di valore politico e morale, prendere sul serio le implicazioni o, se si preferisce, le impronte e le tracce della trilogia dell’89, non sia un’impresa fatua, né sia solo compito della professione storica, sociologica o filosofica, cui sono peraltro particolarmente affezionato, quanto piuttosto un impegno per chiunque, uomo o donna, conviva con noi come cittadino di una soci età o, infine come coinquilino del pianeta.
Se la Dichiarazione dei Diritti inaugura, nella sua distanza nel tempo, quanto costituisce il nostro lessico politico e morale, o, per così dire, i nostri dizionari ereditati; se essa, nella sua distanza, continua a orientare le nostre valutazioni, vicine, molto vicine, di ciò che è giusto e di ciò che è iniquo nelle nostre società democratiche; se essa ha generato, nei suoi sviluppi, divergenti interpretazioni e inevitabili conflitti, tensioni e composizioni, “composti chimici instabili”, fra valori irrinunciabili come libertà, eguaglianza e fraternità; SE TUTTO QUESTON È VERO, ciò dipende dal singolare paradosso che un evento nella storia , dopo tutto un evento contingente, abbia - sin dalla sua scena originaria - incorporato una promessa intrinsecamente universalistica.
Come cittadini e cittadine delle democrazie rappresentative, noi possiamo impegnarci nella discussione pubblica e nella prospettiva della riforma sociale, nel rispetto del diritto di ciascun uomo e ciascuna donna a essere artefice del proprio destino, della propria biografia individuale, tanto quanto del destino comune e collettivo della “polis” e della “agorà”.Tuttavia, SE QUESTO È POSSIBILE, esso è possibile grazie all’eco della promessa universalistica della Dichiarazione dei Diritti e alla catena delle sue divergenti interpretazioni e sviluppi ne tempo. […]
Credo che sulla gran scena del teatro del mondo, A MAGGIOR RAGIONE il lessico dei principi debba essere il nostro lessico familiare. Forse può avere, per noi eredi, UN SENSO l’utopia che un grande filosofo dell’Illuminismo, che fu un testimone appassionato e inquieto dei fatti di Francia, Immanuel Kant, ha tratteggiato nel celebre libretto “Per la pace perpetua”, in quel passo sempre all’ordine del giorno […]: “Se la violazione del diritto avvenuta in UN punto della terra è avvertita in TUTTI i punti, allora l’idea del diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esalta tema il necessario coronamento del codice non scritto, il diritto pubblico interno come il diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e, quindi, per l’attuazione della pace perpetua, alla quale solo a queste condizioni possiamo sperare di approssimarci continuamente.”
Mi chiedo se il modo migliore per mantenere coerenza e integrità alle letture e alle interpretazioni, alle promesse del primo ’89 e del secondo ’89, agli ideali della emancipazione liberale e agli ideali della emancipazione socialista, all’impegno costante a migliorare queste nostre democrazie,, non sia quello, NEL TERZO ’89,e a partire da esso, di affrontare, almeno da un punto di vista filosofico, del pensiero, della fantasia e dell’immaginazione politica, della tensione morale, come una POSSIBILITÀ, la prospettiva cosmopolitica: l’ideale di una società civile internazionale dei cittadini del mondo. Un’etica della convergenza e della solidarietà di specie richiede una politica dettata da principi. Essi sono iscritti nei vocabolari di moralità del moderno.»

Manca solo la fanfara, non c’è che dire.
Per il resto, gli ingredienti della più sfrenata demagogia ci sono tutti, compreso quel continuo rivolgersi a “uomini e donne”, “cittadini e cittadine”, che sa tanto del “signore e signori” usato dagli imbonitori da palcoscenico; e, con essi, la solita disonestà intellettuale di proclamare che il mondo è cambiato e sta cambiando sempre in meglio, grazie agli “immortali” principi dell’89, ma guardandosi bene dal riconoscere che quei principi di libertà, eguaglianza e fraternità sarebbero stati semplicemente impensabili senza l’esperienza del Cristianesimo.
Il trionfalistico accenno alla «gran scena del teatro del mondo», di sapore barocco più ancora che hegeliano, non riesce a nascondere i contorsionismi intellettuali mediante i quali l’Autore vorrebbe arruolare «gli ideali socialisti» tra le forze cui la storia “ha dato ragione”, e questo proprio all’indomani della caduta del Muro di Berlino (e poi si dice che il filosofo è colui che sa vedere più lontano del comune mortale); così come non riescono a nascondere l’operazione che vorrebbe fare della democrazia liberale non una ideologia fra le tante, ma l’ideologia per eccellenza e, in prospettiva, la sola politicamente corretta, nonché destinata ad imporsi ovunque, naturalmente all’ombra dei sacri principi di giustizia, pace e affermazione dei diritti.
Silenzio assoluto, invece, sulle parole meno gradevoli inscritte (e non “iscritte”; sia detto per inciso) nei «vocabolari del moderno», come “bomba atomica” o “genocidio”.
In compenso, inni sperticati all’etica della «solidarietà di specie» che, evidentemente, sembra al Veca il massimo del cosmopolitismo filantropico, mentre neppure lo sfiora l’idea che si tratti del più ottuso antropocentrismo, con l’uomo specie sovrana che, illuministicamente (e cartesianamente) si ritiene in diritto di esercitare un potere assoluto e illimitato su tutte le altre specie viventi, sterminandole, clonandole, manipolandole geneticamente, e via dicendo.
Pur armandoci di tutta la buona volontà, non riusciamo a scorgere alcun motivo per vedere nei tre (o quattro) Ottantanove la marcia gloriosa della modernità, ma solo una corsa convulsa verso il Nulla, aggravata dall’ipocrisia di una ideologia “progressista” che pretende di spacciarsi per una nuova Religione di Salvezza, l’unica anzi; e non ha il coraggio né l’onestà per presentarsi quale essa realmente è: un cattivo surrogato delle vecchie religioni, alle quali ha rubato gli ingredienti fondamentali, ma spacciandoli per delle sue creazioni originali e coniugandoli in chiave secolarizzata, edonista e utilitarista.
Quanto al fatto di sentirsi toccati ovunque da quanto accade in un punto del pianeta, questo pericoloso principio kantiano può essere facilmente declinato in chiave non già di pace perpetua, ma di guerra permanente. Basta che una sola dittatura sopravviva al mondo, perché le democrazie si sentano in diritto (e in dovere!) di intervenire a suon di bombe sulle popolazioni inermi… ma sempre in nome dei sacri principi dell’89, sia ben chiaro.
Se, poi, le ingiuste guerre di aggressione le fanno gli altri, li si può processare ed impiccare, come venne fatto a Norimberga con i generali dello Stato Maggiore tedesco, ad onta del fatto che un simile reato non esistesse all’epoca dei fatti; mentre se a farle sono i campioni della democrazia, allora è tutta un’altra musica.
Certo non ci vuol molto a trascinare sul banco degli imputati del Tribunale dell’Aja un Milosevic; ma proviamo a immaginare di condurvi un Bush junior, e si comprenderà facilmente quel che vogliamo dire: tutti questi bei principi non valgono un fico secco, in un mondo dominato dalla forza; e tutti gli immortali principi dell’Ottantanove (qualunque dei tre, o dei quattro, si voglia eleggere a proprio Nume tutelare) non hanno spostato di un millimetro la questione.
Sarebbe valsa la pena di domandarlo a quel milione di abitanti della Vandea che vennero sterminati nel 1793, perché non gradivano l’applicazione alla loro terra degli «immortali principi»; oppure lo si sarebbe potuto chiedere a quel milione e mezzo di Afghani che sono morti e stanno morendo ai nostri giorni, per essere liberati dal Medioevo oscurantista dei Talebani e restituiti alla civiltà moderna e alle delizie del libero mercato…